«Purismo e neopurismo»

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Marco1971
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«Purismo e neopurismo»

Intervento di Marco1971 »

Per chi fosse rimasto scioccato dalle mie considerazioni balzane di oggi, riporto alcuni brani del saggio di Bruno Migliorini «Purismo e neopurismo», in La lingua italiana nel Novecento, Firenze, Le Lettere, 1990 (ristampa 2003), pp. 97-107.
L’aspetto di parole italiane è dato dalla conformità alle norme strutturali della lingua. Anzitutto quelle fonologiche. Riprendiamo l’esempio di prima: tango e rumba da un lato, charleston e jazz dall’altro. Nei due primi termini i singoli suoni, la formazione delle sillabe, le vocali finali sono conformi a innumerevoli altre voci italiane; invece in charleston l’accento iniziale e la sillaba finale, in jazz il timbro della vocale e la z sonora rappresentano altrettante caratteristiche del forestierismo. S’aggiunge, nei due ultimi casi, la grafia straniera.

Mentre il principale criterio del purismo ottocentesco era piú o meno chiaramente quello della provenienza, il neopurismo considera come criterio fondamentale la disformità dalle norme strutturali della lingua. I fatti dimostrano che questo criterio è molto piú applicabile del primo: mentre i puristi non sono riusciti a eliminare debutto, sabotare ecc., s’è visto che alcuni tentativi neopuristici sono riusciti quasi del tutto: chauffeur, régisseur, record sono in breve tempo quasi scomparsi. Sarà, riteniamo, da perseverare su questa via: procurare cioè di sostituire le parole che presentano caratteristiche fonetiche forestiere.

Per ottenere ciò, non è sufficiente eliminare i gruppi difficili solo nella scrittura: scrivere clacson, futbol o reclàm non basta a rendere italiani quei vocaboli. Meglio, se non si può giungere a un’assimilazione piú radicale, ciò che sembra molto difficile, eliminarli per altra via (sostituirli con sirena, calcio, pubblicità o altrimenti).

Il caso piú difficile a risolvere è quello delle finali consonantiche: bar, chifel, crup, soviet, film, ecc. Benché lo schema fonologico tradizionale dell’italiano, fondato sulla pronunzia toscana, rifiuti in genere le uscite consonantiche, la resistenza del sentimento linguistico è ora piú ora meno grande. Se è ammesso in poesia mar, si può invocare la tolleranza per bar. Ma per chifel/chifelle, rum/rumme, gas/gasse, vermut/vermutte, ecc., la lingua è ancor oggi davanti a un dilemma non risolto: essa, pur sentendo il disagio che le recano voci non conformi al ritmo generale della lingua²¹, non sa decidersi ad accettare le forme toscane, che le sembrano limitate da un punto di vista territoriale, e popolari o addirittura plebee da un punto di vista sociale.

[...] Altro punto fondamentale è l’atteggiamento verso il passato. Entro quali limiti ci si deve servire di parole appartenenti al tesoro lessicale tramandato dalla tradizione, ed entro quali limiti dar via libera ai neologismi? Ed è lecito estendere il significato delle parole, o ci si deve sforzare di mantenere intatto il significato tradizionale? Chi non dimentichi la mirabile continuità che lega da Dante a oggi tutta quanta la lingua italiana, sarà seriamente ammonito a non procedere troppo in fretta. Correr troppo, voltar bruscamente le spalle al passato significherebbe interrompere questa continuità, la piú lunga che vanti una lingua europea. Ma, si badi, altro è procedere a passi moderati, altro è fermarsi a contemplare il passato mentre gli altri camminano in fretta.

[...] Il neopurismo deve a volta a volta prender posizione anche in tali problemi per risolvere concretamente quello che è il suo problema fondamentale: come può l’italiano esprimere italianamente tutti i portati della civiltà moderna, come può essere insieme italiano ed europeo?
Una nozione non ha bisogno di essere espressa con una parola italiana finché si tratta di nozioni esclusive di altri popoli (oggetti, usi, titoli, ecc.). Chi scrive harakiri o tomahawk può adoperare la voce straniera, senza bisogno d’assimilarla: chi si sforza di conoscere l’uso o l’oggetto esotico si sforzi d’imparare anche il nome.

Ma non appena la conoscenza si fa piú approfondita e l’uso piú frequente, sarebbe desiderabile che cominciasse ad apparire una forma italianizzata. Accanto alla forma norvegese fjord si usa oggi frequentemente fiordo: il termine, pur riferendosi a una particolarità geografica locale, si conosce largamente per spedizioni e crociere nordiche, è applicato come termine geografico generale, ecc. Ma perché non s’è italianizzato iceberg in *isbergo? L’analogia lo avrebbe facilmente sostenuto (cfr. Islanda e Spilimbergo) solo che un esploratore o un giornalista l’avesse lanciato.

[...] Il neopurismo degli ultimi tempi, riprendendo con altro spirito la campagna, e scindendo la lotta contro i forestierismi da quella contro i neologismi, ha mostrato che si può benissimo soddisfare alle esigenze della circolazione linguistica europea senza venir meno alle necessità strutturali della lingua nazionale.


²¹ Meglio tollerabili riescono le voci fonosimboliche come crac, picnic, zigzag.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

È necessario collocare il saggio del Migliorini nel periodo storico in cui fu scritto: il 1938, in pieno Fascismo, con la sua ridicola e superficiale (del Fascismo non del Migliorini) autarchia linguistica.

Vediamo di commentare qualche passo del Nostro.
Migliorini ha scritto:...il neopurismo considera come criterio fondamentale la disformità dalle norme strutturali della lingua.
Un certo neopurismo, oggi sicuramente in via d’estinzione, non tiene conto del fatto che le norme strutturali di una lingua possono evolvere nel tempo.
Migliorini ha scritto:Ma per chifel/chifelle, rum/rumme, gas/gasse, vermut/vermutte, ecc., la lingua è ancor oggi davanti a un dilemma non risolto: essa, pur sentendo il disagio che le recano voci non conformi al ritmo generale della lingua, non sa decidersi ad accettare le forme toscane, che le sembrano limitate da un punto di vista territoriale, e popolari o addirittura plebee da un punto di vista sociale.
Infatti, quello che Migliorini nel 1938, in quel contesto storico, considerava un dilemma, oggi non lo è più: la scelta fra le alternative, riportate come esempio dal Migliorini, è stata fatta, e in un’unica direzione.
Non ci verrà il dubbio che si sono modificati i criteri di accettabilità fonologica? 8)

Oggi il Migliorini, considerata la sua squisita sensibilità linguistica, avrebbe sicuramente aggiornato le sue considerazioni, adattandole alla mutata realtà in cui viviamo.

Ricordo infine, per i nuovi arrivati che volessero approfondire l’argomento, la discussione intitolata Morbo neopuristico, sul sito dell’Accademia della Crusca. :)
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Ci vuole descrivere le norme strutturali dell’italiano del 2006, e dimostrare quanto siano diverse da quelle dell’italiano del 1938?
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:Ci vuole descrivere le norme strutturali dell’italiano del 2006, e dimostrare quanto siano diverse da quelle dell’italiano del 1938?
Ha una domanda di riserva? :?
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Vedo che la mia risposta scherzosa non ha sortito effetti. :(
M’ero già messo a rispondere seriamente alla sua domanda quando m’è caduto l’occhio sul mio pseudonimo: bubu7. L’ho visto intristito per la mia eccessiva serietà e così gli ho voluto rendere un piccolo omaggio.
Ora che il mio pseudonimo s’è un po’ ripreso, provo a risponderle seriamente.

Non vi sono significative differenze qualitative tra la lingua di oggi e quella di sessant’anni fa.
Alcune tendenze strutturali, frutto di cambiamenti drammatici avvenuti nella seconda metà dell’Ottocento, si sono consolidate. Ne ho già parlato: accettabilità delle finali consonantiche, di nessi consonantici inconsueti, diminuzione della sensibilità per apertura/chiusura delle vocali toniche, ecc.
Questa è un’analisi strutturale fatta oggi. Essa si deve integrare con la percezione linguistica che si aveva nel 1938 e della quale sono in parte il prodotto le parole del Migliorini.
Si deve considerare cioè sia il periodo storico che si stava vivendo, sia la minore ampiezza d’orizzonte rispetto agli eventi ottocenteschi, sia il relativo sviluppo dei cambiamenti che si sono radicalizzati nella seconda metà del Novecento.
Ripeto, oggi Migliorini avrebbe modificato la sua posizione e accettato il dato di fatto che le finali consonantiche e i nessi consonantici non tradizionali sono pienamente accettabili. Esse infatti sono divenute “conformi al ritmo generale della lingua” e non provocano più “disagio” nella quasi totalità dei parlanti, mentre “le forme toscane” sempre più “limitate da un punto di vista territoriale, e popolari o addirittura plebee da un punto di vista sociale” sono considerate inaccettabili. Non esiste nessuna seria grammatica moderna che le consigli.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Mi spiace comunicarle che la sua risposta (se cosí si può chiamare) non è soddisfacente, poiché invoca dati di fatto che restano ammantati d’iperboree brume e non dimostra nulla. Un discorso scientifico su quali sono le norme strutturali dell’italiano non si può fare a suon d’assiomi e di sentimenti personali, senza esemplificazione; cosí, rimane campato in aria. ;)
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:Mi spiace comunicarle che la sua risposta (se cosí si può chiamare)...
E come la vorrebbe chiamare?
Lei mi ricorda sempre più quei toscani, in particolare fiorentini, dei quali Dante biasimava l'atteggiamento nel De vulgari eloquentia dicendo: "titulum sibi vulgaris illustris arrogare videtur".
Nonostante che nel frattempo siano passati settecento anni... :)

Non ho mai pensato di poterla convincere di nulla.

Offro solo qualche elemento di riflessione alternativo a coloro che ci stanno leggendo.
bubu7 ha scritto:Oggi il Migliorini, considerata la sua squisita sensibilità linguistica, avrebbe sicuramente aggiornato le sue considerazioni, adattandole alla mutata realtà in cui viviamo.
Scrive Nicoletta Maraschio, professoressa ordinaria all’Università di Firenze e direttrice del Centro di linguistica storica e teorica:
Bruno Migliorini, con grande sensibilità storica e linguistica, già negli anni Trenta aveva individuato e descritto (anche se per tutta la vita almeno parzialmente combattuto) un’innovazione fortemente caratterizzante l’italiano contemporaneo: l’indebolimento della sua secolare tendenza assimilativa. E citando un gruppetto consistente di casi (da opzione a subdolo, da aritmetica a xenofobia), vera punta d’iceberg di un fenomeno estesissimo, ne aveva indicato le principali cause extralinguistiche:
Migliorini ha scritto: …la conoscenza della forma originaria e del suo prestigio, la convergente influenza delle forme delle altre lingue moderne e soprattutto la relativa indipendenza della lingua scritta dalla lingua parlata hanno fatto sì che molti gruppi consonantici più convenienti all’occhio che alla glottide siano stati adottati dalla lingua.
Vediamo ora cosa dice, sull'argomento di cui ci stiamo occupando, Paolo D’Achille, professore ordinario di Storia della lingua italiana e di Istituzioni di linguistica italiana contemporanea all’Università di Roma Tre.
Traggo queste citazioni dal suo libro, L’italiano contemporaneo, Il Mulino (2003).
Nel capitolo Fonetica e fonologia, paragrafo Linee di tendenza del sistema, egli scrive (cito con qualche omissione e adattamento):
Quanto al vocalismo atono, va notato che recenti e accurati studi di fonetisti hanno rilevato come nel parlato le vocali finali tendano all’evanescenza, e non solo nelle zone del Centro-Sud i cui dialetti presentano, in tale posizione, la vocale centrale indistinta schwa.

Per quello che riguarda la struttura sillabica, la progressiva introduzione di forestierismi non adattati ha determinato anzitutto la crescita, nella lingua contemporanea, di parole con finale consonantica, nei secoli precedenti ammesse solo eccezionalmente e invece sempre più frequenti e acclimatate nel lessico comune. Compaiono in posizione finale di parole quasi tutte le consonanti: oltre a /n/, /m/, /l/, /r/ e /s/, possiamo trovare anche le occlusive, le affricate sorde, la fricativa sorda /f/.
Notevole, sempre in questa posizione, la presenza di code «ramificate», cioè costituite da due consonanti: est, nord, film… Queste particolarità si riscontrano anche in sigle e acronimi italiani, come colf e gip ‘giudice per le indagini preliminari’. L’inserimento nel lessico italiano non solo di parole straniere non adattate, ma anche di voci di origine latina e greca [grassetto mio], ha determinato inoltre la possibilità di avere sillabe chiuse da consonanti diverse da n, m, l, r, s e quindi, insieme agli attacchi delle sillabe seguenti, gruppi consonantici che l’italiano tradizionale non ammetteva (ab-side, at-mosfera, ec-zema, ap-nea, cap-sula, ecc.); alcune di queste sequenze «impossibili» si trovano peraltro ormai anche a inizio di parola.
L’accoglimento di sequenze consonantiche estranee al sistema linguistico originario ha portato anche all’abbandono, nello scritto [e anche nel parlato], della i prostetica, che veniva tradizionalmente premessa alla s preconsonantica iniziale di parola: per isbaglio.

A proposito dei prestiti, andrà rilevato, per concludere, che il loro mancato adattamento, sempre più frequente, non sembra comportare modifiche nell’inventario dei fonemi italiani [grassetto mio]: da segnalare forse a tale riguardo solo la presenza della fricativa palatale sonora /Z/ nella pronuncia di francesismi come garage, gigolot, abat-jour, ecc., perché presente anche, come allòfono dell’affricata palatale in posizione intervocalica nella varietà toscana, per esempio in fagioli [fa’ZOli]. La crescente diffusione dei prestiti sembra piuttosto intaccare quella corrispondenza tra grafia e pronuncia tipica dell’italiano, non solo perché a computer corrisponde [com’pjuter], ma soprattutto perché possono sorgere dei problemi di pronuncia nei derivati italiani.
Concludo riportando il pensiero di Maurizio Dardano, professore ordinario di Grammatica italiana contemporanea e di Istituzioni di linguistica italiana contemporanea all’Università di Roma Tre.
Traggo le citazioni dal suo saggio Profilo dell’italiano contemporaneo, che si trova nella Storia della lingua italiana (1994) curata da Luca Serianni e Pietro Trifone.
Del tutto normale appare la pronuncia di parole straniere che terminano con una o due consonanti: alt, test, sprint, start, standard, fatta salva l’inevitabile aggiunta di una schwa finale; ma pronunce del tipo /’spOrte/, normali in Toscana, sono considerate oggi “basse” dai parlanti colti del resto d’Italia; del tutto eccezionale è considerata la relativa grafia sporte.

Il fiorentino emendato e aperto a nuove distribuzioni di fonemi ha i requisiti per mantenere (o riconquistare) il ruolo di modello di riferimento nella didattica dell’italiano e nella comunicazione pubblica. Questa scelta, che appare la soluzione più semplice di un problema, altrimenti complesso e pressoché insolubile, conserva la sua validità e efficacia operativa soltanto se, respinta ogni tentazione puristica, si ritiene legittimo proporre un modello, un punto di riferimento valido per l’intera comunità nazionale. In effetti occorre evitare ogni mania fiorentinistica, tenendo conto dei punti deboli del sistema e di alcune tendenze innovative di più larga diffusione.
[I principali punti deboli del sistema sono: il grado di apertura delle vocali medie /e/ - /E/; la sibilante sorda e sonora /s/ - /z/; l’affricata dentale sorda e sonora /ts/ - /dz/]
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Intervento di Infarinato »

Paolo D’Achille ha scritto:L’inserimento nel lessico italiano non solo di parole straniere non adattate, ma anche di voci di origine latina e greca [grassetto mio], ha determinato inoltre la possibilità di avere sillabe chiuse da consonanti diverse da n, m, l, r, s e quindi, insieme agli attacchi delle sillabe seguenti, gruppi consonantici che l’italiano tradizionale non ammetteva (ab-side, at-mosfera, ec-zema, ap-nea, cap-sula, ecc.); alcune di queste sequenze «impossibili» si trovano peraltro ormai anche a inizio di parola.
Vero, ma non in fine d’enunciato (mi riferisco ai cultismi greci e latini).
Paolo D’Achille ha scritto:…da segnalare forse a tale riguardo solo la presenza della fricativa palatale sonora /Z/ nella pronuncia di francesismi come garage, gigolot, abat-jour, ecc., perché presente anche, come allòfono dell’affricata palatale in posizione intervocalica nella varietà toscana, per esempio in fagioli [fa'ZOli].
Per inciso, faccio notare che, se l’italiano non si fosse trasmesso per via essenzialmente scritta, [Z] sarebbe un fono italiano a tutti gli effetti, pienamente giustificato da ragioni di fonetica storica…
Maurizio Dardano ha scritto:Il fiorentino emendato e aperto a nuove distribuzioni di fonemi ha i requisiti per mantenere (o riconquistare) il ruolo di modello di riferimento nella didattica dell’italiano e nella comunicazione pubblica. Questa scelta, che appare la soluzione più semplice di un problema, altrimenti complesso e pressoché insolubile, conserva la sua validità e efficacia operativa soltanto se, respinta ogni tentazione puristica, si ritiene legittimo proporre un modello, un punto di riferimento valido per l’intera comunità nazionale. In effetti occorre evitare ogni mania fiorentinistica, tenendo conto dei punti deboli del sistema e di alcune tendenze innovative di più larga diffusione.
[I principali punti deboli del sistema sono: il grado di apertura delle vocali medie /e/ - /E/; la sibilante sorda e sonora /s/ - /z/; l’affricata dentale sorda e sonora /ts/ - /dz/]
Viene allora da domandarsi cosa rimarrebbe di «fiorentino». :roll:

Ma mi riservo di tornare con piú calma sull’argomento in un’altra occasione…
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Intervento di Freelancer »

bubu7 ha scritto:Scrive Nicoletta Maraschio, professoressa ordinaria all’Università di Firenze e direttrice del Centro di linguistica storica e teorica:
Bruno Migliorini, con grande sensibilità storica e linguistica, già negli anni Trenta aveva individuato e descritto (anche se per tutta la vita almeno parzialmente combattuto) un’innovazione fortemente caratterizzante l’italiano contemporaneo: l’indebolimento della sua secolare tendenza assimilativa. E citando un gruppetto consistente di casi (da opzione a subdolo, da aritmetica a xenofobia), vera punta d’iceberg di un fenomeno estesissimo, ne aveva indicato le principali cause extralinguistiche:
Si potrebbe avere il riferimento all'intervento di Nicoletta Maraschio? Grazie in anticipo.
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Intervento di bubu7 »

Freelancer ha scritto: Si potrebbe avere il riferimento all'intervento di Nicoletta Maraschio? Grazie in anticipo.
Grazie a lei per la sua richiesta.
Nella fretta avevo colpevolmente omesso la segnalazione della fonte.
Si tratta del saggio Grafia e Ortografia contenuto nel già citato Storia della lingua italiana, Einaudi 1993 (vol. I, pag. 223).
Per quanto riguarda il riferimento della citazione del Migliorini, la Maraschio non è precisa in nota. Infatti riporta due luoghi del libro La lingua italiana nel Novecento, Le Lettere 1990, in cui è trattato l'argomento (pp. 18-19 e 63-80), oltre alle pagine LII-LV dell'Introduzione di Ghino Ghinassi.
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto: Per inciso, faccio notare che, se l’italiano non si fosse trasmesso per via essenzialmente scritta, [Z] sarebbe un fono italiano a tutti gli effetti, pienamente giustificato da ragioni di fonetica storica…
È sempre difficile ragionare su ipotesi controfattuali.
Però sarebbe interessante conoscere queste ragioni di fonetica storica a cui accenna...
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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:…sarebbe interessante conoscere queste ragioni di fonetica storica a cui accenna...
Rapidissimamente: lasciando da parte i cultismi, /-tS-/ e /-dZ-/ intervocalici [scempi], realizzati in italiano normale da [tS] e [dZ] e in toscano da [-S-] e [-Z-] (N.B. [-S-], non /*S-/ [(-S)S-]), rappresentano, rispettivamente, il regolare esito di /-k-/ e di /-g-/ [intervocalici scempi] [tardo]latini [davanti a vocale anteriore] (…non, però, di /-kj-/ né di /-gj-/, che danno /-tStS-/ e /-dZdZ-/ —ma, a guardar bene, [j] non è un vocoide ;)) oppure quello di /-sj-/ (con ulteriore sonorizzazione nel caso di [Z]: la sonorizzazione può essere avvenuta prima o dopo la palatalizzazione di [sj] in [S]).(*)

Ora, mentre nel primo caso, i toscani [S] e [Z] sono il frutto di un successivo indebolimento di [tS] e [dZ], che li ha fatti confluire nel secondo (…confluenza, però, non meno «naturale» di quella che ha portato i /-b-/ e /-v-/ spagnoli a confluire in /-B-/), in quest’ultimo [S] e [Z] sono, come detto, l’esito diretto e del tutto «legittimo» di /-sj-/: la sonorizzazione che ha prodotto /Z/ non è meno legittima o naturale (ed è infatti imputabile alla medesima moda settentrionalizzante) di quella che ha prodotto /z/ (la «s [intervocalica] sonora») a partire dall’/s/ latino.

La pronuncia toscana da una parte e la grafia dall’altra hanno poi finito per confondere i due processi (ma [Z] è talora reso da sg nei manoscritti toscani antichi).

Ecco quindi che [Z] avrebbe (come del resto l’[S] intervocalico scempio) tutte le carte in regola per essere un fono italiano (…o addirittura un fonema, si fosse mantenuta la distinzione fra i due processi di cui sopra).

_____________

(*) In alcune parole (palagio, ragione, stagione, etc.) [-Z-] rappresenta l’esito tipicamente galloromanzo di /-tj-/, di contro all’autoctono /-tsts-/ (l’esito /-tsj- > -tstsj-/ è d’origine dotta).
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Intervento di bubu7 »

Grazie, Infarinato.
Quello che continua a rendermi perplesso è che la perdita dell’elemento occlusivo non mi sembra che si sia realizzato in nessun altro dialetto italiano (sarebbe anche interessante sapere se influssi galloromanzi abbiano lasciato tali tracce in dialetti dell'Italia settentrionale). La localizzazione del fenomeno in area toscana mi sembra far propendere per un fenomeno locale, dovuto all’interazione del latino con questo particolare dialetto. Anche la relativa diffusione, soprattutto di [S], ad aree limitrofe appare dovuto ad espansione dal focolaio toscano.
Se fosse un esito «normale» del latino parlato, non le sembra che dovremmo trovare una diffusione più ampia, tipicamente a macchie di leopardo?
Sarebbe gradita un’ulteriore precisazione o una confutazione delle mie affermazioni. :)
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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:Quello che continua a rendermi perplesso è che la perdita dell’elemento occlusivo
Si può parlare di «perdita dell’elemento occlusivo» solo per il primo dei due processi [e mezzo] da me descritti: nel caso di ([-sj-] > [-S-] e) [-sj-] > [-zj-] > [-Z-] (o [-sj-] > [-S-] > [-Z-]) l’elemento occlusivo non c’è mai stato! È solo stato reintrodotto «a forza» (dai non toscani) per «suggestione grafica». ;)
Bue
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[FT] Zzz…

Intervento di Bue »

Infarinato ha scritto:nel caso di ([-sj-] > [-S-] e) [-sj-] > [-zj-] > [-Z-] (o [-sj-] > [-S-] > [-Z-]) [...]
....zzzzzzZZZZZzzzzzzz ... :mrgreen:
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