Leopardi e l’«absence»

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Zabob
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Leopardi e l’«absence»

Intervento di Zabob »

In una lettera a Giovan Pietro Vieusseux datata 4 marzo 1826 il ventottenne Leopardi scrive:
Giacomo Leopardi ha scritto:La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione nata dall'abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all'inglese, io sono più absent di quel che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell'absence è in me incorreggibile e disperato.
Mi chiedo che significato abbiano qui i termini inglesi absent e absence (peraltro presenti pari pari in francese, lingua senz'altro familiare a Vieusseux, ginevrino d'origine), al punto che lo stesso poeta li abbia sentiti più precisi di altri vocaboli nella nostra lingua. Io ho pensato a estraniato e estraniazione.
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
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Scilens
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Intervento di Scilens »

Il concetto di estraneità, ed estraniamento, come l'intendiamo oggi credo che sia tutto novecentesco, anche se la parola pare, da una breve ricerca che ho fatto, che risalga alla fine del 1800 e per questo non era disponibile al tempo di Giacomo.
Un dubbio m'aveva colto: che c'entrasse qualcosa l'assenzio, ma ora non ho tempo di controllare e forse è un'ipotesi del tutto peregrina.
Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Assenzio è absinthe. ;)

Leopardi adoperava occasionalmente francesismi crudi, come anche rêverie.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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