‘Eloquium alienum’

Spazio di discussione su prestiti e forestierismi

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Ladim
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‘Eloquium alienum’

Intervento di Ladim »

Alcune considerazioni su questo ‘problema’ dei forestierismi adoperati con certa abbondanza nella nostra lingua d’oggi. Non vi nascondo che è stata proprio questa «sezione» di discussione linguistica a coinvolgermi un po’ più da vicino, tanto da suggerirmi questa piccola (e invero dappoco) riflessione, che sarebbe poi un intervento in certo modo divertito, non molto dissimile da quello stesso di Marco1971 che ho letto qui, da qualche parte, riguardo a un exemplum fictum su come potrebbe essere la nostra lingua, tra qualche decennio.
Ebbene, in questi giorni mi è capitato di ritornare con una certa frequenza sull’argomento, qua e là discutendo con conoscenti e meno conoscenti, tutti ad ogni modo interessati al ‘problema’ e viepiù desiderosi di formulare proprie considerazioni sul perché sia invalso questo o quel prestito, ovvero sul senso del fenomeno in generale; e devo dire che le riflessioni meno interessanti mi sono giunte dagl’interlocutori, per dir così, più istruiti, la più parte dei quali sembrerebbe orientata su un’opinione di ‘vulgata’ scientificità, secondo la quale i forestierismi darebbero il segno di una progressiva evoluzione linguistica naturalmente orientata ad agevolare gli scambi culturali internazionali (teoria che potrebbe presentare una qualche validità fuori dei confini linguistici nazionali; del tutto inadeguata, io credo, per giustificare, ad esempio, la scelta di week-end, restyling etc., in una rivista, poniamo, di cucito). Più genuini e significativi i pareri dei meno audaci, pronti a riconoscere immediatamente la ‘funzione rivalutatrice’ dei vocaboli inglesi, che promuoverebbero il referente, qualunque esso sia, a un livello di maggior prestigio, vuoi perché essi sono stimabili per una loro supposta specificità d’uso, vuoi perché si ritiene che comunichino più in generale un alone di rispettabilità, questo – seppure sotto aspetti diversi – tanto nei gerghi giovanili quanto nei linguaggi di settore.
Quando poi queste saltuarie disquisizioni tra me e i miei interlocutori sembravano destinate a esaurirsi, ecco che un caro amico mi sottopone un curioso ‘documento’, che non esito a presentarvi come un’informativa aziendale, molto curata dal punto di vista grafico, un po’ meno da quello grammaticale. Mi si è offerto, insomma, un reperto di lingua in uso, e quindi per certi versi ‘viva’, il cui effetto, per chi scrive, è consistito in un senso di acuta e incredula ‘estraniazione’. Così ho pensato di rendervi partecipi di questa ‘scoperta’, per me ad ogni modo sorprendente.

Si tratta dunque di un ‘pieghevole’ in cui sono riportati, nella forma di un periodare rapido e riassuntivo, alcuni obiettivi preparotori di un’azienda attiva nel settore del commercio e della vendita – più precisamente, si tratterebbe di una multinazionale presente un po’ in tutto il mondo: questo aspetto ci permetterebbe di osservare un fenomeno in particolar modo ‘compromesso’ con ciò che definirei volgarmente ‘globalizzazione’, e che dal punto di visto politico-amministrativo consisterebbe in un livellamento transnazionale, ovvero nella creazione di un servizio omogeneo diffuso nei più diversi mercati nazionali. Dal nostro punto di vista, il trasferimento di capitali e di tecnologie da un mercato all’altro, da un paese all’altro, comporterebbe soprattutto un dislocamento di capacità organizzative, e quindi – stringo! – di repertori e campi linguistici. Ma passiamo al ‘documento’, significativamente intitolato «Action plan»: sotto a una rubricazione in neretto, denominata «Azioni», s’incolonnano le frasi da cui estraggo i miei esempi. In sostanza, ci troviamo di fronte alla testimonianza di un uso abnorme (forse già un po’ comico) di voci e locuzioni strappate all’inglese – trascrivo fedelmente:

1. Alcuni compiti e responsabilita’ dello shop keeper sono stati delegati ai coworker;
2. Presentazione e analisi dei risultati di market capital;
3. Lavorare attraverso l’assegnazione di progetti seguiti da follow up;
4. Delega ai coworker di compiti dello shop keeper;
5. Erogare al reparto tutte le formazioni elaborate dal Competence Center;
6. Creazione di nuovi strumenti di informazione tra vendita e logistica: ad es. tool inventario e tool modifica parametri;
7. Incontri mensili con ogni coworker per verificare gli obiettivi fissati durante i briefing;
8. Coinvolgimento del tutor attraverso incontri mensili con lo shop keeper;
9. Rivedere la routine di reparto in merito al metodo “self planning”;
10. Agevolare le job rotation;
11. Giornata antiburocratica di store manager e deputy store manager.

Faccio punto, altrimenti non finisco più. Il dato che emerge su tutti (anche per il rimanente testo che non riporto), per gratuità e motivante inconsistenza, è la sistematica sostituzione di ‘collega/collaboratore’ con coworker. Verrebbe da chiedersi se davvero, tra i dipendenti di questa azienda, abbia attecchito un tale uso, oppure se esso sia riservato a un registro più ufficiale, e quindi equivalga a una sorta di ‘tecnicismo protocollare’, o a una variante stilistica per così dire qualificata. Altre forme come shop keeper, market capital, Competence Center, deputy store manager invece sembrerebbero indicare – non foss’altro se non per un’auspicabile referenzialità settorialmente trascelta – i ‘preziosi’ elementi di un accreditato sottocodice, delineando nel loro insieme un complesso lessicale costituito soprattutto di tecnicismi «collaterali», il cui ‘merito’ consisterebbe non nell’attribuire maggiore chiarezza all’enunciato, ma nel conferire al discorso una marcata connotazione ‘tecnica’. E tuttavia ci troviamo nel più spudorato ambito dei prestiti «non integrati», forse anche «di lusso» – che, si ricordi, hanno un fine ‘stilistico’ e, per certi versi, di promozione sociale.
A questa prima interpretazione, però, dovrei farne seguire un’altra, che tenga conto anche del processo multinazionalizzante ricordato più sopra. Per quel che riguarda la denominazione delle figure appartenenti all’organigramma aziendale, è molto probabile allora che essa dipenda appunto da un livellamento transnazionale, per cui la medesima organizzazione delle risorse umane risponderebbe univocamente e ovunque allo stesso campo linguistico (immagino allora che la funzione dello schop keeper sia voluta ai piani alti dell’amministrazione, del «management» sovranazionale, e presente in Italia come in Francia etc.). Sicché il gruppo dirigente italiano (come quello francese e spagnolo etc.) si sarebbe ritrovato coinvolto, forse suo malgrado, in un’etichettatura d’importazione, successivamente adottata, senza poter opporre alcuna ragionevole resistenza, nelle varie filiali italiane (ma anche francesi, spagnole etc.) – e qui la vulgata opinione secondo cui l’inglese costituirebbe un ottimo strumento di comunicazione internazionale rispolvererebbe il proprio splendore e rilievo. Certo quel che interesserebbe a noi sarebbe di scoprire fino a che punto, tra i dipendenti di questa azienda, nelle conversazioni non d’ufficio, quest’uso degli anglismi possa aver modificato la comunicazione spontanea e semplice (e vi anticipo sùbito che soprattutto quel coworker sarebbe, in questo senso, una spia in qualche modo inquietante).
Un secondo esempio aziendale a questo punto potrebbe servire a fare un po’ più di luce. Questa volta si tratterebbe di una grande e diffusissima azienda nazionale (ancora ci troviamo nel settore della vendita), italiana, la quale avrebbe originariamente e giustamente stabilito un organigramma nostrale, per cui avrebbe ancora un ‘direttore’, un ‘vicedirettore’, un ‘caporeparto’ (un ‘responsabile’) etc. Tuttavia, quello stesso mio amico che mi ha sottoposto il nostro opuscolo, tempo fa ‘direttore’ di una filiale di questa grande azienda italiana (ora manager della multinazionale), mi dice che al ‘caporeparto’ di qualche anno addietro si è sostituita ora una nuova ‘figura’, immagino professionalmente rivista e corretta, denominata specialist. Qui ci troviamo nel campo del prestito «di lusso» o in quello «di necessità», per cui a una specializzazione contrattuale nazionale e di origine estera ‘deve’ corrispondere un’etichetta precisa, tipica e già in uso?
Ora, la testimonianza di questo mio amico manager, intorno al clima linguistico del suo ufficio, farebbe pensare a una sottomissione bilicata tra una multinazionalizzazione amministrativa e un oscuro e ameno prestigio più immediatamente culturale: all’uso ahimè sempre più spontaneo, seppure ancora sporadico, di coworker si accompagnerebbero quelli di location per ‘luogo’, di week per ‘settimana’, di tool per ‘strumento’ etc. Ciò vuol dire che non di rado, specie nella comunicazione scritta informale, potrebbe comparire un enunciato come il seguente: «la location della riunione è nella sala A»!
Tornando al nostro opuscolo, l’impressione ricavata da una primissima lettura, come già detto, potrebbe essere d’incredulità (almeno, per me è stato così), poi, forse, d’indulgente simpatia per il suo compilatore (che avrebbe qualche problema anche con l’uso grafico di vocali finali in polisillabi ossitoni [giusto per ostentare un po’ di tecnicismi nostrali], sostituite dalle corrispettive non accentate, seguite dall’apostrofo). Tuttavia, per un ‘orecchio’ (e un ‘occhio’) abituato a una lettura meno farraginosa, e, diciamolo pure, un orecchio un poco insofferente delle ‘sonorità’ inglesi (ma pur accondiscendente a certo sperimentalismo letterario, fenogliano), un testo del genere susciterebbe un effetto a dir poco urticante. Del resto sarebbe sufficiente rileggere a voce alta le nostre undici esemplificazioni per rendersi conto che una tale esasperazione lessicale, a un qualsivoglia uditorio in carne e ossa, apparirebbe come un’orchestrazione comico-grottesca, più che come un saggio spontaneo di eloquio ‘genuinamente aziendale’ (e forse non sarebbe inopportuno recuperare la categoria marxiana di ‘alienazione’, qui riconsiderata da un punto di vista linguistico, ovviamente rovesciata sotto il profilo sociale).
Altri sintagmi marcati, ma che non compaiono nei nostri undici esempi, sono group leader, customer service, showroom etc.; insomma, se per la sintassi possiamo sentirci ancora ‘tranquilli’, per i sostantivi (terreno fertilissimo del mutamento) ci troviamo di fronte a un’autentica colonizzazione linguistica. Evidentemente, per il mondo del commercio, essere italiani sta diventando un torto difficilmente sopportabile.
Ma il fenomeno non è soltanto commerciale, come sappiamo benissimo. L’altra sera mentre ascoltavo il giornale radio (sulle frequenze di «G.R. Parlamento»), una giornalista è riuscita, con certa disinvoltura, a intessere un enunciato in cui facevano mostra di sé peace-kiping, question time, premier (francesimo), questo in un rapporto di uno a quattro circa, in cui l’uno indica l’anglismo-forestierismo e il quattro le parole italiane – il tutto, per di più, condito di una verace inflessione centro-meridionale, tanto apprezzabile se contrapposta all’uso spregiudicato dei prestiti, quanto sorprendente se si considera l’‘esatta’ pronuncia degli anglismi offerta dalla stessa locutrice (ma questa mia ultima, mi rendo perfettamente conto, è una provocazione un po’ gratuita).

Un altro contesto interessante lo forniscono i nostri giovani. Qui ci troveremmo ad ogni modo nel campo sociolinguistico dei gerghi, dove l’intento dei parlanti è evidentemente quello d’intendersi tra loro, ma di lasciare esclusi dalla comunicazione tutti coloro che appartengono a una generazione diversa, a una classe sociale diversa etc. In più, elemento fondamentale, nel gergo giovanile (ma non solo giovanile) vi è la volontà di stupire e di rendere ameno il proprio eloquio: una volontà di appartenenza che oggi soprattutto si manifesterebbe nell’uso incondizionato, espressionistico e funambolico dell’inglese – dell’inglese specialmente collegato con alcuni e precisi ambiti: sportivo, musicale, cinematografico, pubblicitario etc. Sicché, dal mio confronto di questi giorni con i locutori più giovani, è emerso un altro dato stupefacente – ancora stupefacente per me, immagino. L’impressione che ne ho avuta è stata quella di trovarmi di fronte a una vera e propria creolizzazione della lingua. Ho scoperto, ad esempio, che un giovanissimo ragazzo di diciotto anni, nato e cresciuto in periferia, saluta i suoi amici dicendo «bella boy!», oppure «bella people!»; un giovane ragazzo di venticinque anni, invece, direbbe soltanto «bella!»; tuttavia entrambi, nelle loro compagnie, userebbero spontaneamente restyling, free per ‘gratis’, please, well done, nice etc. Ma in generale, qualsiasi enunciato può conoscere un esito alterato, e, per così dire, ‘amenizzato’, per cui comunicare l’acquisto di un paio di scarpe potrebbe suggerire una frase come la seguente: «ho preso delle shoes veri nice»; per chi è appassionato di pallacanestro, ed è nato e cresciuto in città, locuzioni come good shot, in your face posso conoscere una rifunzionalizzazione continua e molteplice. Etc. In generale, sembrerebbe che l’uso degli anglismi sia avvertito dai più giovani come lo strumento più immediato con cui esibire una qualche conoscenza dell’inglese, quindi del mondo angloamericano, e mostrare pertanto ai coetanei il proprio bagaglio culturale («beckground») finalmente aggiornato e – per usare un’espressione in uso tra loro – «hard-core». Certo il fenomeno non è uniforme: un ventitreenne studente universitario di Storia, di formazione classicistica e con una buona conoscenza dell’inglese scritto e parlato, mi ha garantito di usare soltanto okay, di tanto in tanto, oltre a quei prestiti non adattati ma ormai stabilizzatisi nel nostro lessico comune; in più, nemmeno si sognerebbe di salutare i suoi amici dicendo «bella», per quanto, diversamente, gli sia familiare sentire la stessa espressione in funzione d’interiezione, ovvero come sporadico segnale discorsivo. Ma anche qui le precisazioni non sarebbero mai abbastanza. Un altro venticinquenne di buona se non ottima scolarizzazione, appartenente per dir così all’alta società, chiamerebbe i propri genitori spontaneamente, e ormai esclusivamente, daddy e mother.

Insomma, se il linguaggio – oltre a svolgere i ragionamenti e mettere in rapporto le idee – serve per affermare le relazioni che si possono stabilire tra gl’individui di una medesima comunità linguistica, pare ovvio che oggi sussista, per l’inglese, una qualche enantiosemia funzionale: se per certuni è di fondamentale importanza l’apprendimento e l’uso (non dell’inglese ma) degli anglismi, per altri esso è invece l’indice di una sorta di provincialismo al contrario. Ma dove stia il giusto, è difficile dirlo, intendo dal punto di vista evolutivo – dal punto di vista culturale, voi immaginate (o forse già sapete) da che parte starei.
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giulia tonelli
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Intervento di giulia tonelli »

Ladim, la ringrazio per questo intervento.
A parte l'impagabile, esilarante esempio di eloquio aziendale che ha riportato, condivido quasi pienamente anche la precisa analisi fornita, sia nella parte riguardante le aziende, sia nella parte riguardante "i giovani". Mi ha aiutato a farmi sentire un po' meno sola in queste stanze, dove mi si esorta a usare "topolino" al posto di mouse sul lavoro e io cerco di far capire la realtà linguistica delle (di alcune) aziende italiane, e vengo non tanto velatamente accusata di ignavia se non di pavidità.
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Intervento di Infarinato »

Grazie davvero a Ladim per il «bell’»esempio d’«italiano» aziendale. Al che vorrei pregarlo di chiedere all’amico d’invitare l’estensore di quella «pregevole» nota a «difendersi» in questa sede… Sarebbe, a mio avviso, un esperimento sociologico molto interessante.

A proposito di «creolizzazioni», mi sarebbe piaciuto riportare una lettera inviatami qualche tempo fa dalla mia banca italiana, già Credito Italiano, già Unicredito Italiano e ora, ovviamente, UniCredit Banca (si noti anche la posposizione), e, altrettanto ovviamente, Private Banking. Purtroppo, mi accorgo ora che quella «perla» dev’essere stata inopinatamente cestinata, ma posso assicurarvi che il numero di anglismi era davvero impressionante e la loro inutilità disarmante… E dire che, teoricamente, si sarebbe dovuto trattare d’un comunicato rivolto a un titolare d’un conto, non d’un masturbatorio esercizio di prosa aziendale iniziatica, per tacere del fatto che l’attività bancaria è uno dei settori in cui, a regola, l’italiano dispone d’un sostanzioso patrimonio lessicale. :roll:
Bue
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Fìdaty

Intervento di Bue »

Vorrei riportare l'esilarante (ma anche allucinante) esempio della Carta Fìdaty (si noti l'accento), una carta fedeltà istituita da un supermercato di cui ho ricevuto oggi la pubblicità.
Siamo veramente a livelli di comicità surreale.
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Re: Fìdaty

Intervento di Infarinato »

Bue ha scritto:Vorrei riportare l'esilarante (ma anche allucinante) esempio della Carta Fìdaty (si noti l'accento), una carta fedeltà istituita da un supermercato di cui ho ricevuto oggi la pubblicità.
Siamo veramente a livelli di comicità surreale.
Mi ricordano il Clem Momigliano del Sardelli coi suoi DETeCTSiv e NO PRoSBLeM:D (= :cry:)
Bue
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Re: Fìdaty

Intervento di Bue »

Infarinato ha scritto:
Bue ha scritto:Vorrei riportare l'esilarante (ma anche allucinante) esempio della Carta Fìdaty (si noti l'accento), una carta fedeltà istituita da un supermercato di cui ho ricevuto oggi la pubblicità.
Siamo veramente a livelli di comicità surreale.
Mi ricordano il Clem Momigliano del Sardelli coi suoi DETeCTSiv e NO PRoSBLeM:D (= :cry:)
Infatty anche a me rycorda il Sardelly (ho davanti agli occhi una sua ricetta di cui riporto un brano:
"Prenda anzitutto una cinquantina di ova di incerta datazione e le frvlli a velocità stroboscopica nel girrrrmi, co'gvsci e tutto. Vi unisca dunque un po' di zucchero a caso, ricotta, farina di carrvbae, polpo tagliato a tocchetti, uno spruzzo di vetril e subito nel forno arrowentato a teNperature etnee")
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Re: Fìdaty

Intervento di Infarinato »

Bue ha scritto:Infatty anche a me rycorda il Sardelly…
Io, però, non mi riferivo alla pur spassosissima grafia futuristica sardelliana, ma a quel suo modo geniale di rendere la pronuncia storpiata degli anglismi da parte di Clem:
Immagine
…la maniera piú intelligente, secondo me, di ridicolizzare i goffi tentativi di chi cerca di darsi un tono ricorrendo al forestierismo crudo (che immancabilmente non sa pronunciare né scrivere).
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Incarcato
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Intervento di Incarcato »

E la situazione è tanto piú preoccupante anche perché a fronte dell'attenzione « sociologica » riservata all'anglismo, fa da contraltare un disinteresse frequentissimo per l'italiano, che può venire maltrattato in ogni modo senza che nessuno (ma non in mia presenza :D) se ne curi.

Aggiungerei qui quanto m'è capitato in un altro forum. Preciso che la cosa non m'ha stupito (e anzi me l'aspettavo), ma proprio per questo m'ha maggiormente preoccupato.

Nel porre una domanda mi riferivo a un nuovo filone, al che un altro utente mi chiede se per filone intedevo topic. Questo è quanto.

Quindi oggi una parola inglese serve a spiegare una parola italiana: questo è il fatto, e non vale sostenere che questo è linguaggio tecnico eccetera eccetera.
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giulia tonelli
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Intervento di giulia tonelli »

Beh, ma questo mi sembra normale. Se una persona ha sempre chiamato una cosa in un certo modo (cioe' topic), se sente dire filone si stupisce, capisce comunque che si intende dire quella cosa che lui ha sempre chiamato topic, ma per essere sicuro chiede conferma. Mi sembrano normali regole della comunicazione. Semmai e' triste che "la cosa" sia entrata in italiano con un nome inglese, ma questo lo sapevamo gia' da tempo, no?
A me sembra infinitamente piu' grave che si chiamino news le notizie, che hanno sempre avuto un nome italiano. Il topic non ha mai avuto un nome italiano, quindi mi pare normale che la gente abbia qualche dubbio sull'interpretazione della parola filone, che non ha mai sentito in questo contesto.
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Infarinato
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Intervento di Infarinato »

Incarcato ha scritto:Nel porre una domanda mi riferivo a un nuovo filone, al che un altro utente mi chiede se per filone intedevo topic.
E Lei gli doveva rispondere: «No, thread». :twisted: (Topic —lo ricordo per chi non lo sapesse [cioè, per nessuno degl’intervenuti]— è «argomento»/«tema», anche se i due concetti finiscono spesso per confondersi in forum come questi…)
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Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Rispondendo a Giulia, le dico che condivido quello che dice, ma per me è comunque allarmante che una parola italiana debba essere spiegata con una inglese. Non riesco a non avvertire una stortuta in ciò.
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Federico
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Intervento di Federico »

Incarcato ha scritto:Rispondendo a Giulia, le dico che condivido quello che dice, ma per me è comunque allarmante che una parola italiana debba essere spiegata con una inglese. Non riesco a non avvertire una stortuta in ciò.
Be', ma è già buono che l'interlocutore abbia compreso (cioè non si sia rifiutato di comprendere) e non le abbia risposto male.
Che chieda conferma (garbatamente?) della propria deduzione è il minimo...
Mi preoccupo (e inquieto) molto di piú quando non mi si permette di chiamare "prima pagina" (o altro) la homepage: disarmante! :cry:

Tornando all'argomento del prezioso intervento di Ladim, segnalo che nei miei coetanei non riscontro tanto scialo di anglicismi, anzi, anche se a volte certe parole mi colpiscono (ad esempio skillato, ma ce n'è un'altra che mi aveva sconvolto e che adesso non ricordo...). E sí che avrebbero sicuramente gli strumenti (lessicali) per farne ampio uso, volendo.
Quali sono dunque le differenze?
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arianna
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Iscritto in data: lun, 06 dic 2004 15:08

Intervento di arianna »

Ormai chi vorrà imparare l'italiano dovrà imparare l'inglese :evil:
Felice chi con ali vigorose
le spalle alla noia e ai vasti affanni
che opprimono col peso la nebbiosa vita
si eleva verso campi sereni e luminosi!
___________

Arianna
Avatara utente
Federico
Interventi: 3008
Iscritto in data: mer, 19 ott 2005 16:04
Località: Milano

Intervento di Federico »

arianna ha scritto:Ormai chi vorrà imparare l'italiano dovrà imparare l'inglese :evil:
Purtroppo è già cosí: per capire quello che dicono o scrivono certe persone (inqualificabili) è proprio necessario essere (almeno superficialmente) anglofoni... :roll:
Uri Burton
Interventi: 235
Iscritto in data: mar, 28 dic 2004 6:54

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Intervento di Uri Burton »

Io avrei detto: Sì, ma lo dica in punta di lingua e con un po’ di birignao.
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