Penso che l'obiettivo del confronto possa consistere nell'ampliamento delle prospettive, escludendo un poco utile
unanimismo acritico che, per altro, non ci appartiene.

Spero di non avere perso il filo dei ragionamenti che ci hanno coinvolto né mi sembrava che le posizioni fossero così distanti; per altro, nulla di male, se anche fosse!
Dovrei premettere, per correttezza, che personalmente sono abbastanza convinto della
trasversalità (ad esempio, nell'ambito di molte
varietà linguistiche settentrionali) dei cosiddetti
italianismi. Aspetto confermato da molti
dati oggettivi, anche se ben poco trattato, e forse scarsamente compreso, dagli studiosi.
I quali tutti si dichiarano convinti e competenti in merito alla teoria del superstrato, se pure – nella pratica dei loro studi e nella realtà delle loro pubblicazioni – considerano i
dialetti come costituiti dal solo lessico di tradizione diretta oltre a qualche decina/centinaio di voci di origine straniera.
Mentre quanto riferito rappresenta soltanto un sottinsieme della realtà dialettale, perché viene trascurato l'enorme apporto che (in parallelo all'evoluzione di quelle voci che saranno
ex post definite di derivazione diretta) è stato determinato dalla lingua di superstrato.
1 Ovviamente, le teorie valide devono poter mostrare un riscontro concreto, altrimenti non sapremmo che farcene dopo averle acquisite.
Ritengo, alla luce delle evidenze esaminate, che nei
dialetti settentrionali la voce
arcobaleno possa essere considerata un
italianismo. La
trasversalità risulta presente, la mancanza di congruenza colle
strutture fonotattiche locali anche. Inoltre, esiste l'evidenza che voci quali
baleno,
balenio o
balenare non risultano presenti nei lessici locali.
E, a mio modesto avviso, queste condizioni risulterebbero già sufficienti per potersi esprimere, perché
oggettive, non
ideologiche. A quanto esposto viene opposta una considerazione di tipo categoriale. Che personalmente considero in altro modo, ma che, comunque, potrebbe rivestire un aspetto almeno ambivalente.
Cerco di spiegarmi. L'arcobaleno non è un fenomeno che davvero abbia a che fare direttamente col ciclo delle stagioni e colla suddivisione dei
tempi dell'agricoltura: quello della semina, quello del raccolto ecc. Sembra più legato ad aspetti e nozioni tradizionali riguardanti la religiosità, ma anche la magia e le superstizioni, ben note a chi si occupa di folclore.
In alcune zone, dove, ad esempio, è ancora presente la denominazione
arco di Noè, il riferimento risulta esplicito.
- Arcum meum ponam in nubibus et erit signum fœderis inter me et inter terram.
Per altro, ho potuto anche ascoltare direttamente "leggende", note fin dall'epoca dei Romani, secondo le quali l'arcobaleno riassorbirebbe, per le prossime piogge, l'acqua già riversata sulla terra…
Personalmente, non mi meraviglierei più di tanto se la cultura di tipo borghese avesse contribuito a cancellare le tracce di denominazioni troppo legate agli aspetti sopra accennati.
Come, in effetti, ad esempio, anche in zone montane molto arretrate, l'adozione di modelli di aratro più moderni ha
inevitabilmente implicato l'adozione della nomenclatura italiana o di quella di dialetti di zone di pianura per componenti che il vecchio modello non possedeva.
Ma, mi permetto di ribadire, a mio avviso l'
oggettività della
classificazione su base fonotattica – indiscutibile – non ha necessità della spiegazione di tipo
ideologico. O meglio, la
valutazione fonologica ci dice che cosa quella voce è davvero –
italianismo o di tradizione ininterrotta – mentre le considerazioni di tipo
ideologico forniscono un
livello esplicativo ulteriore, cioè perché essa è stata introdotta nel dialetto. Questo
secondo livello esplicativo può ammettere ragionamenti più variegati (talora più sfuggenti
2), mentre il primo permane dicotomico: sì o no!.
1 Neppure gli studiosi delle varietà venete (la pace sia con loro, direbbero gl'islamici) trattano minimamente il tema. Eppure chiunque può direttamente riscontrare come, ad esempio, vidal risulti nome di derivazione diretta, mentre tale non è la voce vita. Siccome non risulta ragionevole ipotizzare che questo vocabolo non fosse presente nella lingua quotidiana quando ancora la lenizione risultava operante, sorgono problemi ai quali neppure i dialettologi veneti sanno rispondere. Soprattutto perché non pare si siano mai poste le giuste domande. Vita va inserita, oggi, nel gruppo cui appartengono voci quali gata o mata (mi riferisco a un noto proverbio veneto). Bene, sappiamo dall'analisi comparata, colla lingua e cogli altri dialetti, che gatta e matta in Veneto (in senso linguistico) si salvarono dalla lenizione in quanto voci geminate. Dopo operò la degeminazione e s'ebbero gata e mata. Ma sarebbe da farisei posticipare a dopo l'acquisizione della voce vita. Essa preesisteva, ma non poteva essere fonotatticamente tale. Il sistema linguistico non ammetteva più /-t-/>/-d-/. Era possibile soltanto /-tt-/, in cui nessuno dei due fonemi [t] risulta intervocalico.
Genova, e tutti i dialetti di tipo genovese, hanno, infatti, tuttora vitta /'vitta/, gatta /'gatta/, matta /'matta/ come si può riscontrare nei lessici locali e come si può ascoltare dalla pronuncia locale, anche in quella di chi si avvale (ormai, solo occasionalmente) del linguaggio cittadino.
Quindi, parrebbe che, nei dialetti settentrionali, la geminazione anetimologica (di cui permangono tracce in varietà linguistiche della Svizzera italiana, mentre essa risulta tuttora florida in genovese) abbia contrassegnato, quando la lenizione risultava ancora operante, le voci acquisite dalla lingua italiana, le quali, quindi, non ne subirono gli effetti.
In seguito le voci (escludendo quelle genovesi, che conservano tuttora la geminazione, sia pure anetimologica, postaccentuale) riassunsero la forma italiana a causa della degeminazione. Ma non tenere conto dei processi accennati significa 1) non avere capito l'evoluzione linguistica e 2) falsare l'epoca di acquisizione di molti italianismi, semplicemente perché non si riesce neppure a capire che essi vennero assunti originariamente con una forma diversa da quella attuale. Mentre la Liguria ne testimonia tuttora l'esito antico. Queste, a mio modesto avviso, sarebbero considerazioni interessanti e adeguatamente trasversali, mentre noto che, purtroppo, molti studiosi non si occupano di una visione d'insieme: conoscono, nel migliore dei casi, una sola varietà linguistica e si baloccano stucchevolmente con etimi che anche un liceale vispo risulterebbe in grado di padroneggiare.
2 Senza troppo approfondire, perché moddu ['mɔddu] = modo (la voce antica, esito di un'evoluzione perfettamente regolare, era mőu /'mɵ:u/) e migliaia di altre voci genovesi, apparentemente del tutto neutre, sono evidenti italianismi e s'è perso l'uso e il ricordo – mantenuto unicamente a livello scientifico grazie alle attestazioni scritte – dei termini corrispondenti di derivazione diretta? Nessuna di queste voci corrisponde a un nuovo oggetto, una nuova invenzione. Nessuna è relativa a termini più frequenti nell'eloquio delle classi egemoni. Si tratta di voci comunissime nel linguaggio quotidiano. Tutto avvenne soltanto per ragioni di tipo ideologico. Quelle di tradizione ininterrotta risultavano ormai troppo lontane da quelle corrispondenti del superstrato. E lo Zeitgeist ne impose la sostituzione. Per quanto geminata! E si badi che sto parlando di parecchi secoli fa. Infatti, quanto ho sopra riferito non s'è verificato recentementemente, ma neppure nel Novecento né nell'Ottocento, bensì ancora prima, quando, evidentemente, non esistevano ancora repertori dialettali o atlanti linguistici.