Neopurismo e glottotecnica

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Neopurismo e glottotecnica

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Ho messo come oggetto l'inizio del titolo dell'intervento, che riporto sotto, scritto da Arrigo Castellani (insieme a quelli di altri quattro allievi di Bruno Migliorini) per la commemorazione da parte dell'Accademia della Crusca, il 18 dicembre 1976, del suo presidente onorario a diciotto mesi dalla sua scomparsa.
ARRIGO CASTELLANI
NEOPURISMO E GLOTTOTECNICA: L’INTERVENTO LINGUISTICO SECONDO BRUNO MIGLIORINI

I primi articoli di Bruno Migliorini dedicati al divenire della lingua nei nostri tempi sono del 1931: Anteguerra-dopoguerra, nel vol. X della “Cultura”, pp. 412-415 [Bibl. 31.2], e Il suffisso -istico, ibid., pp. 976-984 [Bibl. 313]. L’atteggiamento dell’autore, in tali articoli, è ancora quasi sempre quello di chi osserva attentamente ma distaccatamente. Solo qualche rapida notazione come: “Il neologismo capriccioso ricade presto nell’ombra, quello che dà forma a un nuovo concetto largamente diffuso entra saldamente nel lessico” (p. 415); “Prendiamo pure posizione pro o contro, ma rendendoci conto che il problema non è solo un problema grammaticale (è il non aver saputo intender questo che ha reso rigido e vacuo, e ha finito col privare d’ogni autorità, il purismo del secolo passato)” (p. 979) tradisce l’interesse per ciò che si può raggiungere, per il modo in cui si può penetrare nella fortezza dell’uso stabilito, buono o cattivo che sia.
Ma nel 1932 l’impegno glottotecnico del Migliorini è in pieno sviluppo. Sono dell’inizio dell’anno i suoi calibratissimi scritti in favore del termine autista [Bibl. 32.6], raccomandato dalla Confederazione trasporti, e del termine regìa ‘realizzazione scenica’ [Bibl. 32.8], che Enrico Rocca aveva usato con tal senso (alla tedesca) in un giornale del 31 dicembre 1931. “È necessario, o almeno molto utile, il neologismo?” si chiedeva il Migliorini a proposito dell’affiancarsi di regìa a messa in scena o messinscena; e notava: “Distinguere la regìa di Reinhardt dalle sue messinscena è una differenziazione che può essere utile: necessaria non oseremmo dire... Del resto messinscena ha gravi tare; anzitutto d’origine: il tipo mise en scène, mise en marche, cioè di un participio passato con i suoi complementi in funzione di sostantivo, era completamente alieno dall’uso italiano: solo da qualche decennio abbiamo la messa in scena, la messa in marcia, l’entrata in vigore, l’andata in macchina. Poi il faticoso adattamento: messa in scena, con un antipatico iato, o messinscena, con un gruppo di consonanti estraneo all’uso corrente. Infine l’impossibilità di trarne derivati... “. Però anche regìa, egli proseguiva, non appare prolifico. Se il suo merito maggiore è la connessione con régisseur (adoperato in Germania col senso di metteur en scène), bisognerebbe trovare un sostituto di régisseur che mostrasse di provenire da regìa. A questo punto, ecco la soluzione del problema, e insieme la creazione, a cui s’arriva mediante un procedimento rigorosamente logico, della parola regista.
Importante anche l’articolo su viveur, uscito in uno degli ultimi numeri del voi. XI della “Cultura"[Bibl. 32.5]. È in quell’articolo che si trova per la prima volta (ch’io sappia) l’aggettivo glottotecnico: “Senza entrare per ora nel vivo della questione politica, soffermiamoci un momento su una questione glottotecnica: come mai un termine come poseur, che è suppergiù della stessa età e dello stesso ambiente di viveur, è stato così bene assimilato che pochi sanno oggi riconoscere in posatore l’origine francese, mentre viveur è rimasto tal quale?”. La risposta è che mentre da qualunque verbo in -are si può foggiare un nome d’agente in -atore (arabescatore, per esempio, anche se non registrato da nessun lessico, è del tutto normale ed esiste in potenza), lo stesso non vale per i verbi delle altre classi. Cionnonostante, se un giovin signore del 1880 avesse detto vivitore e i suoi pari l’avessero imitato, oggi useremmo quella forma come usiamo posatore.
Il glottotecnico del 1932 ha un significato meno specifico di quello che acquisterà in seguito nell’uso miglioriniano: si riferisce soltanto, per ora, alla conoscenza dei meccanismi linguistici. Vedremo più avanti che anche neopurismo è stato adoperato, agl’inizi, in un’accezione non del tutto corrispondente a quella definitiva.
Nell’articolo su viveur, e poi nuovamente nel saggio sul Tipo radiodiffusione (“Arch. glott. it.” del 1935) [Bibl. 35.2], e ancora nell’ultimo capitolo di Lingua contemporanea [Bibl. 38.1], Bruno Migliorini ricorda un episodio che dovette quasi porre il sigillo alle opinioni ch’egli s’era venuto formando. Nel secondo Congresso dei linguisti (Ginevra, settembre 1931), in risposta al quesito “Quel est, selon vous, le róle a attribuer dans le devenir et l’évolution des langues (en particulier dans la constitution des langues unifiées) d’une part aux phénomènes spontanés et a l’inconscient, de l’autre aux interventions de la volente et de la réflexion?”, Otto Jespersen dichiarò senza mezzi termini ch’era dovere dei dotti di contribuire all’ordinato sviluppo della propria lingua. Ecco il passo, nella traduzione data dal Migliorini in Lingua contemporanea (pp. 176-177 della prima ediz.):

Sono fermamente convinto che i dotti non debbano contentarsi di stare passivamente a guardare, ma che debbano prendere parte attiva, ciascuno nel proprio paese, a quelle azioni che stanno modificandole condizioni linguistiche, se è possibile migliorandole. Troppa parte è lasciata in queste azioni a dilettanti ignari: è un fatto ben noto che non c’è campo delle conoscenze umane in cui il primo venuto creda d’aver maggior titolo ad esprimere senza studio scientifico una propria opinione che nelle questioni concernenti la lingua materna: quando si discute sulla grafia o sulla pronunzia o sulla flessione o sull’uso di un termine, egli ha bell’e pronta una risposta, che per lo più non è che un ricordo sbagliato di quello che ha imparato a scuola da maestri indotti. Quelli che si sono seriamente occupati delle lingue e del loro sviluppo non debbono tenersi estranei a tali discussioni, ma debbono usare le loro conoscenze a beneficio della propria lingua: altrimenti c’è rischio che essa sia danneggiata dall’influenza conscia di altri che non hanno conoscenze sufficienti per far da guida in questo campo.

“Sottoscrivo a due mani alle parole dello Jespersen”, dice Bruno Migliorini nell’“Arch. glott. it.” del 1935 (p. 33, n. 3). Anch’io: i linguisti italiani, o quei linguisti italiani che amino l’italiano - e ce ne sono -, dovrebbero, quando si tratta di modificare a livello conscio la situazione esistente, sia pure in minimi particolari o nella scelta d’un solo vocabolo, presentarsi e agire come addetti ai lavori, e non lasciare che fisici, ingegneri, biologi, economisti, burocrati e agenti pubblicitari decidano di cose a loro ignote, facendo poi ratificare la decisione ai giornalisti. La glottotecnica miglioriniana, tenuta a battesimo nel 1942, è conseguenza e traduzione in un programma concreto del monito dello Jespersen; monito che mi sembra, oggi, più attuale che mai: ricordiamoci che siamo responsabili.
I principi del neopurismo sono esposti nel IV capitolo di Lingua contemporanea e condensati in un articolo che reca, appunto, il titolo Neopurismo (“Diritti della scuola” del 12 ottobre 1939, sez. “Vita e cultura”, pp. 3-4; una parte dell’articolo figura anche nel vol. I di “Lingua nostra”, a p. 170) [Bibl. 39,8 e 39.27]. Sul significato esatto del termine, Bruno Migliorini ha espresso il suo pensiero in una lettera al direttore delle “Lingue estere” (Agostino Severino) pubblicata contemporaneamente nel numero del marzo 1940 di quella rivista e di “Lingua nostra"[Bibl. 40.16]:

Caro Severino, prima che “Le Lingue estere” accreditino con la risonanza della loro voce un uso del termine neopurismo che mi sembra discutibile, spero mi consentirai d’intervenire, con quel poco d’autorità che può darmi l’avere adoperato per primo questo termine (nell’"Archivio glottologico italiano”, XXVII, 1935, e poi nella mia Lingua contemporanea). Euclide Milano (nelle “Lingue estere” del 1° luglio 1939, p. 611) e tu stesso (ivi, febbraio 1940, p. 27) adoperate il termine nel senso di ‘purismo moderno, purismo come si fa ora’; date, insomma, se non erro, al termine un significato prevalentemente cronologico. Nel giudicare poi del purismo come si fa ora, tu osservi che esso deve ancora superare le vecchie posizioni, “alzando le opere di difesa su fondamenta poste dai fatti linguistici”, “esaminando i fatti con paziente accortezza e traendo ammaestramenti efficaci dall’esperienza linguistica”. Ora appunto a codesto metodo io avevo inteso d’applicare e vorrei riservare il nome di neopurismo. Il carattere essenziale del purismo è la sua lotta contro ogni specie di innovazione. Il neopurismo, distinguendo tra forestierismi e neologismi, vuole saggiare gli uni e gli altri alla luce della linguistica strutturale e funzionale; e porterà volta per volta il discorso su gruppi consonantici che non si accordano con il sistema fonologico dell’italiano, sull’opportunità o meno di adoperare un termine speciale per una data sfumatura di significato, sulla possibilità che due omonimi abbiano a confondersi, ecc. ecc.
... Per fermare le idee, ti proporrei di accogliere nella nuova edizione del tuo Manuale di nomenclatura linguistica le voci seguenti:
Purismo. Tendenza ad escludere da una lingua le voci forestiere e i neologismi...
Neopurismo. Tendenza ad escludere dalla lingua quelle voci straniere e quei neologismi che siano in contrasto con la struttura della lingua, favorendo, invece, i neologismi necessari e ben foggiati: si tratta di un tentativo di applicazione degli insegnamenti della linguistica a un moderato purismo.

Bisogna dire che il Severino e il Milano non avevano tutti i torti quando davano a neopurismo il senso di ‘purismo come si fa ora’; giacché tale è anche l’uso del Migliorini nell’ “Arch. glott. it.” del 1935 e in un paio di pagine del IV capitolo di Lingua contemporanea. Trovo, nell’articolo del 1935: “P. Monelli, nel Barbaro dominio, Milano 1933, rappresenta il neopurismo militante” (p. 34, n. 4); e in Lingua contemporanea: “D’altra parte, il mutato clima politico ha fatto rinascere in Italia sotto nuova forma il purismo. Disposizioni ufficiali (come la tassa sulle insegne in lingua straniera, 1923), campagne giornalistiche (concorso bandito dalla Tribuna, rubrica di P. Monelli nella Gazzetta del Popolo, 1932, ecc.) hanno a più riprese spinto all’eliminazione di parole forestiere; e un certo effetto di questo movimento neopuristico si può indubbiamente scorgere nella lingua contemporanea” (p. 177 della I3 ediz., 175 della seconda, che è del 1939); “Le liste di proscrizione dei neopuristi comprendono nella stragrande maggioranza parole del I tipo [cioè forestierismi non adattati]. Ecco, ad esempio, i primi lemmi del Barbaro dominio del Monelli:..."(p. 178 della I ediz., 176 della 2°; nella 4° ediz. rifatta, del 1963, i due brani sono stati tolti). Ora, il Monelli non si può certo dire un neopurista in senso specifico. Per convincersene, basta confrontare le pagine di Lingua contemporanea in cui si parla d’apprendissaggio e apprendistato (184-185 della I2 ediz.) col lemma corrispondente del Barbaro dominio. Apprendissaggio, dice il Migliorini, non si può accettare a causa di quell’-iss urta contro le regole della derivazione italiana; “invece apprendista e apprendistato ci sembrano giustificabili: benché -ista oggi normalmente si congegni con sostantivi, la sua antica parentela con verbi in -izzare (catechizzare: catechista} fa sì che un -ista derivato da un verbo non urti: tant’è vero che troviamo apprendista nell’uso toscano fin dal Settecento (Cocchi, Carena, Viani, Pantani, Tommaseo, Petrocchi, ecc.). Il rapporto morfologico fra apprendista e apprendistato è così perspicuo come quello fra celibe e celibato, novizio e noviziato, artigiano e artigianale, e più ovvio che quello fra tirocinio e tirocinante; d’altra parte tirone non ha alcuna probabilità di attecchire accanto a tirocinio, tanto ne è ormai morfologicamente staccato”. Nel Barbaro dominio, dopo aver bollato, com’era giusto, apprendissaggio, il Monelli aggiunge: “E adesso..., facciamo punto; ma non senza denunciare prima un apprendistato che abbiamo letto, nientemeno, nel Bollettino del sindacato dei giornalisti. Quando mi dissero alle Isole Svalbard che certi eremiti che vi si esiliarono per trent’anni, con pochi e rari contatti con i cacciatori di pellicce, avevano disappreso a parlare e non s’esprimevano più che a gesti, mi parve un bella balla; ma vedo adesso che si possono dimenticare le più comuni parole della lingua, come tirocinio, pur facendo il mestiere del mercante di parole, cioè il nostro”. Insomma, se non erro, lo stesso Migliorini ha adoperato neopurismo, per un certo tempo, sia in senso cronologico sia riferendosi al nuovo metodo da lui propugnato, per poi scegliere definitivamente la seconda accezione.
Mi sia concesso, qui, d’aprire una parentesi. Forse, per evitare ogni ambiguità, sarebbe preferibile parlare, invece che di neopurismo, di purismo strutturale. Tanto più che di purismi precedenti ce ne son due, non uno soltanto: il purismo classico, quello del Bembo, che obbedisce al principio d’imitazione, e al quale si deve se l’italiano della seconda metà del Cinquecento si livella su moduli prevalentemente trecenteschi; e il purismo tradizionale, in cui si manifesta una delle due grandi forze della dialettica linguistica: la forza, appunto, della tradizione, come opposta alle tendenze verso il nuovo. Chi irride ai puristi, e intendo ai puristi tradizionali, non s’accorge d’irridere alla manifestazione (per quanto talvolta gretta, irritante, opprimente) di qualche cosa di fondamentale e profondo, proprio non d’una lingua ma di tutto il parlare umano.
Purismo classico e purismo tradizionale, in Italia, non s’escludono a vicenda, anzi digradano l’uno nell’altro, attenuandosi sempre più il primo a favore del secondo; ma le loro motivazioni son diverse, e converrà tenerli distinti.
Comunque, che si dica neopurismo o purismo strutturale, la sostanza non cambia. Ed è merito grandissimo di Bruno Migliorini l’aver mostrato per primo, colla teoria e coll’esempio, qual era il metodo da seguire.
I mezzi di cui il linguista dispone per agire sulla lingua, e di cui egli si serve nei singoli casi, ricevono, nel 1942, il nome di glottotecnica. Tenendo presente che le scienze e le tecniche hanno bisogno d’un numero sempre crescente di vocaboli speciali, e che questi vocaboli si foggiano per lo più senza criteri sicuri, appare largamente giustificato “il costituirsi della linguistica applicata, o, se così preferiamo chiamarla, della glottotecnica. Suo compito è quello di applicare gl’insegnamenti forniti dalla linguistica alla creazione dei singoli termini o alla revisione di nomenclature, in modo da ottenere il massimo di vantaggi e il minimo d’inconvenienti, sia per quel che riguarda il doveroso rispetto alla lingua nazionale, sia per quel che riguarda i necessari scambi linguistico-culturali fra i popoli” (cito dall’art. Primi lineamenti di una nuova disciplina: la linguistica applicata o glottotecnica, uscito nel voi. VI di “Scienza e tecnica”, pp, 609-619 [Bibl. 42.3], e poi ristampato nei Saggi linguistici del 1957 [Bibl. 57.1], pp. 307-317). Se il Migliorini pensa qui soprattutto a determinati campi, è chiaro che la portata del termine (e del metodo) è generale: il neopurismo è l’indirizzo, la glottotecnica la tecnica mediante la quale agisce il neopurismo (verrebbe la tentazione di dire: il braccio secolare del neopurismo).
I lavori del Migliorini contengono preziose indicazioni sugli elementi che caratterizzano un neologismo di buona fattura (non escludendo gli adattamenti di parole straniere), e su quelli che ne possono favorire la diffusione.
Passiamo rapidamente in rassegna gli elementi intrinseci. Essi sono: l’utilità; la coerenza al sistema fonologico e morfologico della lingua; il non coincidere e non interferire con altre parole già esistenti.
Mentre credo che la regola della rispondenza al sistema fonologico non debba subire eccezioni, neanche nel caso di forestierismi ormai insostituibili e di dominio popolare (sport non può più essere italianizzato in diporto, ma può benissimo essere pronunciato e scritto sporte, e così film > filme - per garage, poi, basta leggere come si scrive), farei qualche riserva sul criterio morfologico. Le strutture fondamentali della lingua non sono minacciate dall’assunzione di parole ben assimilate foneticamente ma che non s’inseriscono in una rete di rapporti morfologici o derivativi. Forse sbaglierò, ma mi sembra che non ci sia nulla di male a usare come termine tecnico librario-editoriale in brossura, pur non avendosi in italiano un verbo brossare. E mi sembra che si possa accettare garage, facendo, è vero, di necessità virtù, anche se in italiano non esiste garare, e se il suffisso -age non è stato trasposto in -aggio. Naturalmente si deve distinguere caso da caso. Per esempio, riconosco che cliscé è un termine oltremodo scomodo, che sarebbe desiderabile sostituire, piuttosto che con lastro come proponeva Bruno Migliorini, col semplice e comune lastra, di cui aumenterebbe il tasso omonimico, ma in una sfera ben delimitata e con pochissimo rischio d’equivoco.
Questo mi conduce ai fatti esterni che possono favorire il propagarsi dei termini nuovi o degli usi nuovi dei termini già esistenti. Lastra, oggi come oggi, non ha molte probabilità d’imporsi perché gli manca un appoggio ufficiale. Mi ricordo d’aver parlato con Bruno Migliorini, tanti anni fa, dei nostri impossibili punti cardinali. Invece di nord, pensavo che si dovesse dire norde; invece di sud, sonde (forma derivata dall’antecedente germanico di south); invece di est, este; invece di ovest, errore di lettura per il franc. ouest, gueste. Il Migliorini non considerò affatto le mie proposte come stravaganti, ma osservò che per cambiare i nomi attuali ci vorrebbe la collaborazione, e non per poco tempo, di vari ministeri, cominciando da quelli della Difesa e della Marina mercantile. Ed è proprio così: quello che è nell’uso ufficiale si può modificare solo attraverso una decisione ufficiale (mantenuta ferma per un periodo abbastanza lungo).
Se i ministeri sono inespugnabili, non mi pare escluso che la glottotecnica possa trovare un appoggio nella stampa. La stampa è molto più importante, a parer mio, d’ogni altro mezzo d’informazione. Conta poco che il ministro Donat Cattin abbia pronunciato martedì scorso [14 dicembre 1976], in un’intervista al Telegiornale I, deflattivo al posto di deflativo; conta, invece, che il Corriere della sera s’ostini a raddoppiar la t in quella parola. Eppure lo stesso Corriere della sera ha pubblicato due o tre anni fa un articolo di Bruno Migliorini in cui si denunciava l’errore [Bibl. 74.12]. Ossia: l’articolo è stato stampato, ma nessuno nella redazione del giornale ha fatto caso a quel che c’era scritto. Supponiamo che Piero Ottone avesse fatto mente locale e avesse dato disposizioni al proto o al correttore di bozze di toglier di mezzo la seconda t: oggi Donat Cattin direbbe forse deflativo e non deflattivo.
Mi sia permesso di citare un aneddoto. Nel Corriere della sera del 6 aprile 1967 un lettore di Sesto S. Giovanni, il signor Niso Franceschini, protestava contro l’uso della forma sopraluogo invece di sopralluogo. Il direttore (o chi per lui) rispondeva che la forma con una sola l era preferita negli atti giudiziari.
Scrissi al Corriere in favore di sopralluogo, e la mia richiesta fu appoggiata da vari linguisti e filologi, alcuni dei quali si trovavano a Roma, in quei giorni, per una libera docenza: Ignazio Baldelli, Giacomo Devoto, Gianfranco Polena, Piero Fiorelli, Scevola Mariotti, Oronzo Parlangeli, Aurelio Roncaglia, Francesco Sabatini. La lettera, che uscì nel Corriere del 12 aprile con un corsivo di piena adesione da parte del direttore, diceva tra l’altro: “In italiano c’è tutta una serie di parole colla doppia dopo sopra: sopracciglio, sopraffare, sopraggiungere, soprannome, ecc. Un’eccezione per sopralluogo non sembra giustificata, anche se la parola è di formazione recente. Di eccezioni in italiano ce ne sono già tante che è meglio quando si può evitarne una nuova di cui non c’è bisogno e che non ha una ragione storica. Del resto il linguaggio degli atti giudiziari (che non costituisce sempre un modello esemplare) oscillerà certo fra le due forme. Ho l’impressione che il Corriere della sera, scrivendo sopraluogo invece di sopralluogo, piuttosto che seguire un uso già stabilito, contribuisca a crearlo”. Avevo aggiunto una previsione (naturalmente censurata): che se il Corriere avesse accolto stabilmente la forma con due l, nel giro di qualche anno dato il prestigio del giornale quella forma sarebbe divenuta d’uso generale. La previsione s’è avverata. Nel Corriere, da allora, s’è letto soltanto sopralluogo; e così scrivono ormai gli altri giornali. Chissà che non lo facciano anche i cancellieri dei tribunali.
M’è capitato, in tempi più recenti, di rivolgermi ancora al Corriere: a nome mio, e basta. M’è stato risposto in modo molto gentile, ma senza che cambiasse nulla nell’uso (o misuso) che lamentavo.
Conclusione? Direi proprio che è vano sperare d’ottenere qualcosa attraverso sforzi individuali e isolati. Occorrerebbe un organo collegiale composto da persone competenti e sufficientemente note. Che so, un “Centro di consulenza linguistica”, con rappresentanti di più università italiane. Non è cosa facile a farsi. Mi auguro lo stesso che un “Centro"simile possa nascere e operare, prendendo l’iniziativa di proporre quello che è giusto e ragionevole proporre, secondo la linea indicata e per tanti anni tenacemente seguita da Bruno Migliorini.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Roberto, grazie, grazie, grazie per quest’articolo (mi sono permesso d’ingrandire il fònte per migliorare la leggibilità d’un testo cosí lungo). Ma lei è una miniera!

Forse, coi nostri contatti nel mondo della stampa, piano piano riusciremo a far cambiare le cose. Ma vorrei insistere sull’impegno personale: se ognuno di noi ha il coraggio d’esprimersi in pubblico usando parole di fattura italiana (inclusi gli adattamenti) e non teme il riso della plebe, lo faccia e si senta investito d’un alto ruolo civico.
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Federico
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Intervento di Federico »

Anch'io ringrazio molto Roberto per quest'articolo (ma come se li procura?).

Sconsola un po' che le proposte di trent'anni fa siano identiche a quelle di oggi: fra trent'anni le ripeteremo ancora invano?

P.s.: “Sottoscrivo a due mani alle parole dello Jespersen”: la costruzione col complemento di termine nel 1935 era la piú comune o già allora era rara?
Bue
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 11:20

Intervento di Bue »

Federico ha scritto:Sconsola un po' che le proposte di trent'anni fa siano identiche a quelle di oggi: fra trent'anni le ripeteremo ancora invano?
Per completezza propongo anche il punto di vista contrario:

Sconsola un po' che le proposte di oggi siano identiche a quelle (vane) di trent'anni fa...
Avatara utente
Federico
Interventi: 3008
Iscritto in data: mer, 19 ott 2005 16:04
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Intervento di Federico »

Certo, l'ho lasciato a lei per non appropriarmi tutti i punti di vista.
Ma del resto non sono cambiate poi tanto, le cose, da rivedere radicalmente quelle proposte.
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