Informatici e videogiocatori

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Carnby
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Informatici e videogiocatori

Intervento di Carnby »

Mi sono un po' documentato sull'invasione di termini informatici inglesi. Ebbene, i responsabili sembrano essere stati più i "colti" ingegneri, sempre alla ricerca del "termine preciso" che i videogiocatori "ignorantelli". Per rendersene conto basta prendere una copia di The Games Machine o K (magari degli anni Novanta) e confronarlo con un libro d'informatica a livello universitario: troverete molti più forestierismi nel secondo. Le riviste di videogiochi hanno creato termini come "picchiaduro" e "sparatutto" per shoot 'em up e beat 'em up che si sono imposti nel mondo dei videogiochi e hanno osato (udite udite!) scrivere "treddì" con tanto di raddoppiamneto sintattico! Tutto questo è stato evidentemente snobbato dai "soloni" che hanno bollato gli adattamenti come "popolareschi" e inadatti all'era informatica...
FedericoC
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Intervento di FedericoC »

Commento interessante, il suo.
Mi vengono in mente due possibili spiegazioni del fenomeno, che ovviamente sono mie opinioni e non hanno pretesa alcuna di scientificità.
In prima istanza, bisogna tener conto della scellerata tendenza a considerare l'inglese una lingua più importante dell'italiano.
Quei "picchiaduro" e "sparatutto" sono termini nati tra il serio e il faceto, in pubblicazioni di stile sempre giocoso e semiserio, tono assolutamente adatto per delle riviste di videogiochi.
I redattori di testi universitari, invece, hanno probabilmente ritenuto termini di questo genere troppo poco seri per il livello del testo.
Ciò che è sconfortante, ovviamente, è l'assunto di base che fa sì che hardware sia considerato un termine dignitoso e ferraglia no.

La seconda spiegazione che azzardo è di tipo sociologico.
Qualcuno ha fatto passare, in Italia perlomeno, l'assurdo mito della contrapposizione tra sapere umanistico e tecnico scientifico (e se si scoprisse chi è stato bisognerebbe obbligarlo a leggere Newton in latino mentre lo si tempesta di sacrosante scariche di nocchini).
Molte persone di formazione scientifica e, soprattutto, tecnica, ritengono qualsiasi forma di conoscenza umanistica inutile e poco importante.
Va da sé che la letteratura e la conoscenza della lingua, che, a mio avviso vanno assieme come le ciliegie, rientrano nel novero delle cose inutili.
Il risultato? Personaggi che scrivono in documenti ufficiali, e senza vergognarsi, orrori come stò, si (affermazione), quà, perchè, e che non hanno gli strumenti per proporre o persino concepire la traduzione d'un termine tecnico straniero.

Un priego: che ora non mi si travolga di improperi e lamentele: io stesso lavoro come consulente informatico e non faccio altro che prendere atto d'una tristissima tendenza; non è mia intenzione generalizzare o accusare d'ignoranza umanistica intere categorie professionali.
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Federico
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Intervento di Federico »

I termini italiani servono semplicemente per vendere di piú: infatti un'efficace parola italiana è spesso meglio di una straniera, a fini commerciali, almeno in certi casi: leggevo a proposito della fusione Intesa – San Paolo che gli esperti di marchi sconsigliano caldamente di fare uso di un qualsiasi anglicismo o pseudoanglicismo nel nome dell'aggregrazione, e che in passato l'orribile Intesa Bci (letto bi-si-ai) è stato un disastro, anche per la sua lunghezza e la scarsa familiarità coll'inglese di clienti e dipendenti.
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Incarcato
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Intervento di Incarcato »

È in grado di reperire l'articolo? Sarei curioso di leggerlo.
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Federico
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Intervento di Federico »

Ma certo.
Sono fortunato, è pubblicato nel loro sito.
Per il successo conterà anche il nome
Gli esperti: da evitare inglesismi e sigle. No all’unione dei marchi, meglio far lavorare la fantasia

Difficilmente la chiameranno Sanintesa: per gli esperti assomiglia troppo a un polo privato della Sanità. E anche se sono altri i problemi urgenti (definizione degli staff e di una strategia internazionale, riduzione degli sportelli e del personale), quello del nome del nuovo colosso bancario che nascerà dalla deliberata fusione tra Intesa e Sanpaolo-Imi è un problema vero. Come si chiamerà la nuova banca?
La categoria più gettonata è quella dei nomi di fantasia. Molto meno probabile un acronimo (Isi?), difficilissimo arrivare al nome composto, per rispetto almeno formale di titolisti e centralinisti: pronunciare tutto assieme «Banca Intesa-Sanpaolo- Imi» chiede esercizi di iperventilazione preventiva che ne sconsigliano la scelta…
In passato, proprio sul sentiero dei nomi composti, si consumarono piccoli drammi e grandi incomprensioni. Come nel caso degli anziani correntisti della Banca Commerciale Italiana che, quando la Bci si unì a Intesa (frutto, a sua volta, del matrimonio tra Ambroveneto e Cariplo), si sentivano rispondere dal centralino «Pronto, buongiorno, Intesa- bi-si-ai…» e a fatica nascondevano il senso di smarrimento. A qualcuno nell’occasione salì anche la pressione a causa di quell’inglesismo e sembra che il designato amministratore delegato, Corrado Passera, non sia più disposto a far correre rischi coronarici ai 13 milioni e mezzo di clienti del nuovo colosso bancario.
«In questi casi - dice Antonio Marazza, general manager di Landor associates, la multinazionale americana che ha creato il panda del Wwf, e tra gli altri i marchi di Bp, Pepsi, Levi’s - la tendenza è quella di utilizzare il minor numero possibile di brand compatibilmente alle diverse esigenze che si devono soddisfare».
La teoria americana del settore spiega la scelta di fondo con un gioco di parole: Something for everybody or same thing for everybody , ossia qualcosa per tutti o la stessa cosa per tutti.
«Sono due visioni opposte della strategia da attuare. Una scelta di fondo che non compete agli esperti del settore, ai tecnici - dice Marazza - ma direttamente al top management coinvolto nell’operazione. Dipende, insomma, dalla direzione strategica che la nuova grande banca si darà e dagli obiettivi che verranno stabiliti. Di certo un buon consiglio in questi casi è guardare più al futuro che al passato».
E in passato Landor ha lavorato con Sanpaolo- Imi e ha contribuito a creare il marchio Intesa («una pietra miliare nella comunicazione bancaria, non solo in Italia»).
Che cosa farà nel prossimo futuro? «Noi non siamo stati coinvolti - conclude Marazza -, ma probabilmente è ancora presto. Di sicuro mi sento di sconsigliare gli acronimi: sono inizialmente sconosciuti e quindi presentano le stesse difficoltà di un nome di fantasia, con l’aggravante che, in più, si devono spiegare. Meglio procedere con calma, secondo uno schema prefissato. Anzitutto stabilire la direzione che la nuova banca deve prendere, poi dare un valore ai brand esistenti e decidere che cosa farne; infine capire e interpretare la strategia di sviluppo». Solo allora nascerà il nuovo nome.
Per adesso trapela unicamente che saranno messi al bando gli inglesismi: «Intesa-bi-si-ai» resterà soltanto un ricordo. Brutto.

STEFANO RIGHI

(da CorrierEconomia del 4-9-2006)
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Intervento di Incarcato »

Grazie.
FedericoC
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Intervento di FedericoC »

Ma BCI non significa(va) semplicemente Banca Commerciale Italiana?
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Intervento di Federico »

FedericoC ha scritto:Ma BCI non significa(va) semplicemente Banca Commerciale Italiana?
L'aggiunta della sigla serviva appunto a segnalarne la fusione con Intesa; la pronuncia inglese doveve forse rendere piú attraente il nome (o giustificare il trattamento di favore), tentativo a quanto pare fallimentare.
FedericoC
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Intervento di FedericoC »

Giustamente fallimentare... io amo la lingua inglese, ma "bisìai" non regge il paragone con la maestosità monumentale di "Banca Commerciale Italiana" (oltre a non avere alcun senso, ovviamente).
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Federico
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Intervento di Federico »

FedericoC ha scritto:Giustamente fallimentare... io amo la lingua inglese, ma "bisìai" non regge il paragone con la maestosità monumentale di "Banca Commerciale Italiana" (oltre a non avere alcun senso, ovviamente).
E nemmeno Intesa vale quanto «Cassa di Risparmio delle Province Lombarde», ma una banca non può avere un nome lungo quattro righe. :wink:
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