«L’italiano imbastardito»

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Marco1971
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«L’italiano imbastardito»

Intervento di Marco1971 »

Propongo ai nostri lettori un articolo di Alfonso Leone, intitolato proprio L’italiano imbastardito e uscito nell’ultimo numero degli Studi Linguistici Italiani (2006), rivista fondata da Arrigo Castellani e oggi diretta da Luca Serianni. Solo qualche brano, che mi ha rassicurato...
Da allora [= all’incirca mezzo secolo fa] ad oggi tuttavia l’esterofilia ha fatto passi da gigante, fuori di ogni senso di misura, e sarebbe l’ora non dico di tornare alle appendici, ma di radiare totalmente le voci straniere che sempre piú numerose imbastardiscono ogni giorno il nostro idioma, fatta ovviamente eccezione di quelle poche che, per i motivi che ho sopra indicati [= voci d’uso internazionale o che suscitano una particolare atmosfera :?], possono anche considerarsi parte integrante del lessico italiano e che andrebbero quindi incorporate (come del resto tante espressioni latine) nel patrimonio linguistico italiano. Quando insomma si perde il senso di misura, quando si procede a rotta di collo, bisogna pur ricorrere a rimedi estremi. E le istituzioni che vigilano sulla lingua e le scuole che la insegnano dovrebbero tentar di fare la loro parte.

La mia impressione è che oggi si proceda a rotta di collo. Ad ogni piè sospinto, in ciò che leggo e in ciò che si sente, le voci straniere la fanno da padrone. Molti le usano per dimostrar di conoscere (e poco importa se approssimativamente) l’inglese; le usano per snobismo, per darsi arie, per apparire, rispetto agli altri miseri mortali che non le conoscono, colti e raffinati. Fanno tuttavia esternazione, almeno a mio giudizio, di gusti pacchiani, volgari cioè o cafoneschi. Né manca chi le usa per pigrizia, per evitare di cercare il termine italiano corrispondente.

[...] C’è anche dell’altro, lo so. Siamo nell’era dei computer e delle tante diavolerie che spesso sento accompagnate dal termine digitale, e le nuove invenzioni ci pervengono attraverso la lingua degli inventori. Ma sforziamoci, per quanto è possibile, di venire italianizzando, man mano che ne facciamo uso, i termini barbari, magari piegando ad altri significati, attraverso l’estensione semantica, termini italiani in qualche modo affini.

Nel corso dei secoli l’italiano si è arricchito di voci straniere di varia provenienza (bianco, divano, bottiglia, bistecca, zucchero, limone, marmellata, uragano), ma rimanendo pur sempre italiano. Quelle voci straniere che abbiamo incorporato sono state dunque una conquista, un progresso. Oggi le voci straniere restano tali. Il lessico italiano si gonfia sempre di piú di voci straniere, ma non progredisce. E quando non c’è progresso, c’è impoverimento e stagnazione, indubbia anticamera di un sia pur lontano declino.

[...] Io sono del parere che dovremmo anzitutto sforzarci noi di abbandonare i gusti esterofili, di sentir cafonesca la tendenza all’uso dei termini stranieri. Una volta modificatosi il gusto, la tendenza dell’italiano ad assimilare le voci straniere o ad esprimerle attraverso l’estensione di voci italiane esistenti a poco a poco risorgerebbe e, fra tante, le forme piú accette prenderebbero a poco a poco piede, come appunto è avvenuto nei secoli passati.

Tuttavia mi affretto anche ad aggiungere che quanto ho or ora detto non esclude che se scuole e istituzioni che vigilano sulla lingua facessero la loro parte contro il suo imbastardimento, farebbero in qualche modo da freno e, a forza d’insistere, contribuirebbero anche all’educazione del gusto. Non risolverebbero – è pacifico – il problema, non sarebbero il toccasana; ma senza un benché minimo freno, senza un campanello d’allarme, si corre – a mio avviso – a briglie sciolte, e quindi verso il precipizio.

[...] L’altro giorno, chiedendo a una mia nipotina novenne, afflitta perché si era fratturata il ditino di un piede, come mai l’incidente era avvenuto, mi rispose: «Mentre giocavo, al Baby Plànet». Io, sia perché ormai alquanto duro di orecchio, sia perché del tutto disinformato di simili nuovi locali di divertimento, percepii solo un’emissione incomprensibile di suono. Mia nipote allora, cogliendo intelligentemente il mio imbarazzo, si affrettò a tradurre: Piccolo Pianeta. Meglio forse avrebbe detto Pianeta dei bambini. Comunque l’immediata traduzione fu per me come un raggio di luce che mi rischiarò il cervello. Mi domando tuttavia: «Che male ci sarebbe stato se, trasferendosi questi giochi fuori dalla terra d’origine, il loro nome si fosse contemporaneamente adattato alla lingua del paese che li accoglieva?».
A parte l’episodio personale, che cosa dicevo io?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Propongo anche quanto scrive Rosario Coluccia, nello stesso numero degli SLI (2006), ovviamente non in versione integrale (sono undici pagine!). L’articolo s’intitola L’italiano: una lingua per la società del Duemila.
2. Rapporto dell’italiano con le lingue straniere, in primo luogo con l’inglese. Rivolgendosi al giornalista titolare della rubrica di lettere di un quotidiano, un lettore scrive con condivisione: «Lei si è piú volte doluto della passività con la quale vengono recepiti i forestierismi». Non si tratta di un episodio isolato. La diffidenza, a volte la censura, del cittadino della strada verso gli elementi linguistici di provenienza straniera sono ben note; altrettanto frequenti sono atteggiamenti di segno opposto, caratterizzati da grande arrendevolezza nei confronti dei forestierismi. Interessante è il recente risveglio di attenzione verso questa complessa problematica da parte della grande stampa e da parte di ambienti culturali assai diversi.

Si possono considerare almeno due aspetti della questione, da valutare secondo ottiche diverse.

Da un lato, l’inglese è divenuto una sorta di “lingua franca” di alcuni settori della comunicazione scientifica, scritta e parlata, che sono quasi completamente anglicizzati: studiosi di fisica, di informatica, di biologia, di medicina e di altre materie comunicano e pubblicano prevalentemente e a volte quasi esclusivamente in inglese. L’uso di una lingua unica facilita la diffusione internazionale delle conoscenze e, dal punto di vista specificamente italiano, costituisce una spinta indubbia alla internazionalizzazione della ricerca nazionale, cui spesso si addebita (talora a torto) una scarsa propensione ai contatti con l’esterno. Accanto a questi vantaggi, si profila il rischio di un abbandono immeritato di lingue nazionali di grande tradizione culturale e di buona diffusione internazionale. Una soluzione equa e praticabile senza troppi sforzi sarebbe quella di affiancare, nelle riviste e nei congressi, all’inglese una rosa di lingue con queste caratteristiche: francese, tedesco, spagnolo, italiano, ecc.

Da un altro lato, la percezione comune è piú colpita da un diverso fenomeno: l’incremento di parole straniere nell’uso quotidiano della nostra lingua e l’incapacità (o il disinteresse) a contrastarle da parte di parlanti e scriventi, troppo spesso addirittura inavvertiti. Nessuno sogna di riassumere le vesti di puristi come l’abate Cesari o il marchese Puoti, né vuole ripercorrere le vie dell’autarchia lessicale del periodo fascista, né praticare la strada della xenofobia linguistica: decine, anzi centinaia di parole inglesi (o anglo-americane) sono diventate patrimonio usato dagli italiani nella comunicazione corrente e sono entrate a far parte della nostra lingua. Ma è discutibile se tutti gli anglicismi usati siano davvero necessari e se la lingua italiana non possieda in sé stessa le risorse necessarie a comunicare nelle diverse situazioni. Si resta disorientati di fronte all’abuso di drink (come se in italiano non esistesse bevanda), di break coffee [in realtà sarebbe coffee break ;)] (e pausa caffè?), di meeting point (e punto d’incontro?), di body guard (e guardia del corpo?), ecc. E si registra con una certa perplessità che le università si muniscano di student service o addirittura di control room (in luogo dell’innocente portineria di un tempo) e che le aziende attraverso un customer service tendano a misurare la customer satisfaction; un politico padano e antieuropeo parla di devolution (invece che di devoluzione, una serie di istituti di garanzia si chiama authority (per l’energia, per le comunicazioni), esiste un garante della privacy, la RAI (la Radiotelevisione italiana) dà vita a trasmissioni come Rai educational ed ha un segmento operativo chiamato Raifiction, il ministero delle politiche sociali si autodefinisce del welfare, il Presidente del Consiglio propone di istituire Tay day, USA day, Sport day, organizza (o non organizza) l’election day. [...] Come fa un ex presidente nazionale di Confindustria a sollecitare l’esportazione dei prodotti italiani parlando di food, beverage, fashion, glamour, nello stesso momento in cui gli imitatori dei nostri prodotti sparsi nel mondo si danno nomi che sembrino italiani proprio per attrarre compratori incauti?

Mi interrompo, perché la questione è relativamente semplice nella sua drammaticità: in questa fase di globalizzazione, alcuni popoli, tra cui l’italiano, stanno perdendo la fiducia nella propria lingua. Parlare l’inglese o l’angloamericano è in molti settori utilissimo, quasi indispensabile, per fare carriera. Molte famiglie della buona borghesia italiana mandano i figli in scuole inglesi o americane (e piú tardi li manderanno a frequentare corsi universitari e master in America) non solo perché vengono ritenute ottime scuole ma soprattutto perché i rampolli si impadroniscano della lingua inglese; analogamente duemilacinquecento anni fa una parte dei ceti dirigenti etruschi spinse i propri figli all’abbandono dell’etrusco e all’apprendimento del latino, lingua dei vincitori, e oggi noi visitiamo con grande profitto le necropoli etrusche. Non possiamo continuare cosí. Una lingua non è solo un insieme di parole regolate da una grammatica, ma esprime i modi di vivere e di sentire, di pensare, di concepire le relazioni tra le persone, i rapporti sociali, economici, giuridici, i sogni, i progetti di vita, i valori, il bene e il male. La lingua, il suo uso e la sua incessante creatività sono indispensabili per continuare ad esistere. Un popolo che rinuncia alla lingua perde l’identità [vi ricorda qualcosa? ;)].

Intellettuali, scienziati, insegnanti, giornalisti, politici fino a ieri poco sensibili al tema, manifestano oggi una certa preoccupazione, o comunque uno stato di vivace allerta, per l’incremento di parole straniere e l’incapacità di contrastarle da parte della nostra lingua. Istituzioni importanti come l’Accademia della Crusca e la Società Dante Alighieri, associazioni scientifiche come l’Associazione per la Storia della Lingua Italiana, la Società di Linguistica Italiana e altre richiamano con insistenza l’attenzione sui temi che stiamo trattando. Il Presidente della Repubblica inaugura agli Uffizi la mostra «Dove il sí suona» dedicata alla nostra lingua e tante volte esalta il ruolo dell’italiano, lingua di cultura e di pace; i quotidiani del 25 settembre 2005 hanno riportato le sue parole di commento ai dati contenuti nel primo Annuario sul “mondo in italiano”. La nostra è davvero una lingua senza impero che affida prestigio e capacità di diffusione fuori dai propri confini non al colonialismo e alle armi ma alla cultura, alla letteratura, alla musica, ai milioni di emigrati che generazioni fa lasciarono il nostro paese; e certamente anche alla propria capacità produttiva e alla strategica posizione mediterranea. Questa storica “lingua franca” del Mediterraneo mantiene ancor oggi un’inaspettata vitalità, può costituire un importante fattore di promozione economica e commerciale in molti mercati e può aiutare il mondo produttivo a misurarsi con le nuove sfide della globalità. Nonostante tutto, forse al di là dei nostri meriti, c’è voglia di italiano nel mondo e molti vengono in Italia a studiare l’italiano, come sanno bene coloro che organizzano, non sempre in modi scientificamente ineccepibili, corsi di italiano per stranieri.

La lingua non si governa a colpi di decreti legge, senza dubbio. Spetta alle classi culturalmente piú attrezzate del paese, secondo la lezione che viene dai grandi del passato, cercare di incanalare le spinte e le controspinte cui è sottoposta ogni lingua viva. Appare ingenua la posizione di quanti si limitano a tuonare contro l’invasione delle parole inglesi e contro l’opera di depauperamento e imbastardimento operata sull’italiano, e invocano epurazioni di massa di questi corpi estranei dall’italiano; ma sempre meno sostenibile appare quel “lasciar fare” a metà tra il rassegnato e lo snobistico che ha caratterizzato larga parte del mondo intellettuale italiano negli ultimi decenni. Peggiore tra tutte è naturalmente la posizione di chi semplicemente ignora l’esistenza del problema, rivelando cosí la propria inettitudine a riflettere su uno dei nodi culturali di maggiore importanza dell’epoca contemporanea.

Non è una battaglia di retroguardia, e abbiamo a un passo esempi a cui guardare [;)]. Paesi vicinissimi a noi come la Francia, la Germania, la Spagna si misurano con le stesse questioni e lo fanno in maniera enormemente piú efficace. Non so dire se questo dipenda da una piú avvertita coscienza della propria identità di quei paesi, o da particolare orgoglio nazionale, o da altro. Diversamente accade tra noi: la superficialità in argomento è un tratto tutto italiano, di quella parte della collettività che non ha ben riflettuto sulla nostra storia. Se diventassimo piú vigili e meno corrivi, potremmo guardare agli sviluppi di questa competizione culturale e civile con moderato ottimismo.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Federico
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Una noterella.
la RAI (la Radiotelevisione italiana) dà vita a trasmissioni come Rai educational ed ha un segmento operativo chiamato Raifiction
A proposito: recentemente ho visto che il nome ufficiale Rai Educazione è uscito dagli uffici ed è stato adottato per la grafica di alcuni brevi intermezzi che vengono trasmessi ogni tanto (solo in quelli piú semplici, naturalmente).
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Ferdinand Bardamu
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Federico ha scritto:Una noterella.
la RAI (la Radiotelevisione italiana) dà vita a trasmissioni come Rai educational ed ha un segmento operativo chiamato Raifiction
A proposito: recentemente ho visto che il nome ufficiale Rai Educazione è uscito dagli uffici ed è stato adottato per la grafica di alcuni brevi intermezzi che vengono trasmessi ogni tanto (solo in quelli piú semplici, naturalmente).
Qui chi in Rai ha tradotto l'inascoltabile educhéscional (sant'uomo o santa donna) ha preso un granchio. Se non ricordo male, education è un falso amico, che significa in realtà istruzione. Quindi Rai Istruzione sarebbe piú corretto. Ne convenite?
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