Pagina 2 di 2
Inviato: mar, 09 feb 2010 10:43
di Carnby
Sospetto che un ruolo importante l'abbia giocato la storica (e deleteria) separazione italiana tra cultura umanistica e cultura scientifica. I linguisti tradizionali, quelli per cui la tecnologia poteva essere al massimo una macchina da scrivere meccanica, si sono trovati di fronte un mondo, quello della scienza moderna e dell'informatica, ipertecnologico e praticamente tutto in lingua inglese: inizialmente l'hanno ignorato e considerato qualcosa di poco importante; poi si sono accorti dell'errore e hanno tentato di rimediare proponendo senza successo qualche traducente; infine si sono arresi all'incredibile quantità di parole inglesi o semi-inglesi che provenivano da quel campo a loro praticamente sconosciuto.
Inviato: mer, 10 feb 2010 1:11
di Marco1971
Intende dire che la mancanza di prescrittivismo da parte dei linguisti e delle opere di consultazione, a proposito di fatti riguardanti tutti gli aspetti della lingua (morfologia, sintassi, fonetica – e non solo lessico) è dovuta all’informatica?
Inviato: mer, 10 feb 2010 8:54
di methao_donor
Marco1971 ha scritto:Sí, tutto vero. Ma in questo filone non si tratta delle parole straniere, si tratta del mutato atteggiamento dei linguisti nei confronti della lingua.
Ma direi che il processo è, fondamentalmente, lo stesso.
Riguardo a quanto scrive Carnby, cosí su due piedi non saprei che dire... puó darsi che lo sviluppo informatico abbia influito, ma non saprei dire fino a quale punto.
Inviato: mer, 10 feb 2010 14:53
di Carnby
Per quanto riguarda il lessico, i campi nei quali si è avuta un'autentica invasione di forestierismi non adattati sono stati sicuramente l'informatica e la cultura pop, in particolare la musica cosiddetta "leggera" (mentre la terminologia della musica classica è quasi tutta in italiano e così rimane anche nelle lingue straniere). Per un discorso più generale sulla moderna assenza di prescrittivismo, si può ipotizzare che le moderne teorie linguistiche (dallo strutturalismo alla grammatica generativa) possono aver messo in crisi le fondamenta (principalmente basate sul confronto con le fasi precedenti e con le lingue classiche) su cui si basava la grammatica normativa tradizionale.
Inviato: mer, 10 feb 2010 15:11
di Marco1971
Come mai, allora, questo fenomeno è presente essenzialmente in Italia, mentre le istituzioni linguistiche, ad esempio, francesi e spagnole, continuano ad avvertire, nelle loro opere, di usi sconsigliati?
Inviato: sab, 13 feb 2010 12:50
di Carnby
In Italia l'istituzione preposta al controllo della lingua (l'Accademia della Crusca) si è distinta sempre per un purismo assoluto. A un certo punto la lingua non è stata più controllabile perché, da lingua colta e scritta è diventata lingua parlata, e quella politica non è stata più possibile. Invece di far adeguare in modo controllato la lingua alle nuove esigenze, con soluzioni originali (magari pescando dal greco, risemantizzando termini disusati, armonizzando il lessico con quello delle altre lingue romanze), la Crusca si è trincerata dietro il solito conservatorismo linguistico toscaneggiante. Questo appariva ormai stantio agli stessi toscani, figuriamoci che effetto doveva fare ai settentrionali, più o meno consciamente smaniosi di avere una lingua simile anche "visivamente" al francese o allo spagnolo; del resto il loro sistema linguistico nativo si avvicina al gruppo galloromanzo. La Crusca tra l'altro, per quanto ne so io, non ha mai ottenuto un riconoscimento ufficiale come organo normativo; recentemente è stata riproposta la costituzione di un " Consiglio superiore della lingua italiana" che dovrebbe tutelare (ma come?) la nostra lingua in Italia e all'estero.
Inviato: lun, 15 feb 2010 13:12
di Ladim
La questione ha un ampio spettro, e forse [semplificare è d’obbligo] andrebbe osservata riandando certa insofferenza (del resto plausibile) nei confronti del conservatorismo scolastico dell’Italia fatta. Molti, e per molto tempo, lamentarono l’astrattezza di un insegnamento pedante e poco incline a vedere nell’Uso un fondamentale strumento di studio e di apprendimento. Per [e]semplificare – forse troppo –, basterà ricordare la colorita voce del Milani, il Don, che vedeva nella norma un mezzo di sopraffazione sociale, in un paese in cui la miseria aveva precisi connotati linguistici. Di qui l’attitudine scolastica italiana – direi diffusamente – variò il proprio riferimento disciplinare, e iniziò una mitigata didassi che prendeva le distanze – senza però riflettere sul «torto e il diritto del non si può» – dagli eccessi puristici di una lingua quasi ‘morta’. Ne scaturì un’incertezza sull’idea di norma, e quasi un risolutivo misconoscimento grammaticale. Già negli anni Ottanta si accusavano le falle di un italiano divenuto «selvaggio», e l’esigenza di porre un qualche rimedio avrebbe dato frutti comunque notevoli (la Grammatica di Serianni, uno su tutti, raccoglie il principio autoritario, vivificato da un corpus esteso di esempi letterari anche novecenteschi e giornalistici). Ma pare che l’apprendimento di una coscienza linguistica meglio sorvegliata dovesse/debba rimanere all’iniziativa non istituzionale (nel frattempo la scienza linguistica si è fatta disciplina universitaria, in un’Università sempre più dedita a un proletariato culturale): forse si è troppo inclini a «osservare» e a «descrivere», quindi ad «accogliere», e poco a ‘ragionare’ e a ‘insegnare’: l’attenzione del discente è sempre troppo debole per ricevere un giudizio consapevole, là dove la scelta tra una forma e un’altra, entrambe grammaticali, può essere soltanto suggerita – l’uso irriflesso della lingua, le esigenze mercatali (specie lessicografiche), l’inerzia istituzionale, l’incoscienza culturale, l’immaturità intellettuale delle tante persone che fanno l’Italia non permettono un arricchimento radicale della nostra lingua, e confinano in un esoterismo guardato con sospetto o con inefficace ammirazione chi vorrebbe promuovere una preferibile e pensata identità.