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Inviato: sab, 19 feb 2011 20:34
di slaros
Grazie per la spiegazione.
Ho anche letto le prime parti della "anticaglia" di Marco1971: interessantissimo e piacevole, finirò di leggerlo con adeguata attenzione.
Mi chiedo, e chiedo, sempre nell'argomento: qual è il confine tra "regola" e "non regola"? Se è vero che le regole linguistiche non possono costituire una gabbia per i diretti consumatori, è allora anche vero che domani mi possa aspettare di sentir dire, con il plauso generale, qualcosa come: "Se andrei a Roma, voglio visitare prima di tutto il Colosseo". Grazie.
Inviato: sab, 19 feb 2011 21:24
di Marco1971
Evitiamo di accelerare l’evoluzione della lingua, spingendola e spintonandola senza criterio. Io sono sempre stato per il rispetto delle norme, e delle forme piú illustri (su questa linea è impostato il mio Dizionario Normativo della Lingua Italiana, siglato in DiNo, di cui si può leggere nella sezione Inter nos).
Ci sono però anche usi consacrati da oltre un secolo, e quelli vanno accettati tranquillamente quando sono attestati presso i nostri maggiori scrittori, quelli della tradizione. È il caso di cosa interrogativo, che, come s’è visto, rimane però, a tutt’oggi, di registro medio.
Oggi i mutamenti interessano soprattutto il lessico (l’afflusso inutile di parole inglesi), ma le strutture portanti della lingua, come l’uso dei modi e dei tempi verbali, non subiscono grandi stravolgimenti, perché supportate dalla lingua scritta. Sono ormai poche, direi, le persone che non sanno che *Se potrei, lo farei è agrammaticale.
In conclusione, il consiglio che darei è questo: nello scegliere una parola o un costrutto egualmente grammaticali, bisognerebbe valutare bene quali siano i piú idonei nel contesto comunicativo (parlato/scritto, formale/informale, letterario/popolare, ecc.). Solo una buona padronanza dei registri può garantire l’efficacia della comunicazione tra persone che condividono lo stesso codice linguistico, ossia la stessa madrelingua.
Inviato: dom, 20 feb 2011 9:07
di slaros
Pienamente d'accordo, in definitiva (rassegnato ma convinto).Tengo solo precisare che, ovviamente, il mio esempio del post precedente, basato sulle forme verbali, era estremo e provocatorio, e che sono altrettanto sicuro che l'odierno livello culturale-linguistico sia superiore rispetto al passato.
Grazie per questa fantastica rubrica, perché è proprio quello che da tempo cercavo, e complimenti per la squisita preparazione: ne approfitterò senza scrupoli!

Inviato: lun, 21 feb 2011 0:35
di Marco1971
Prego.
Se posso muoverle un appunto,
post non è necessario in italiano, basta
intervento (o
messaggio, ecc.).

Inviato: lun, 21 feb 2011 18:07
di slaros
Apprezzo la finezza, anzi: la correzione.
P.s.: pensavo che "post" fosse d'obbligo...!
Grazie.
Inviato: gio, 09 mag 2013 13:07
di Ferdinand Bardamu
[
Prendendo spunto da questo intervento di Zabob, aggiungo questo contributo su cosa
usato come pronome interrogativo]
Il Rohlfs (
Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, vol. II «Morfologia», Einaudi, Torino, 1968, § 488) scrive:
Con valore neutro è assai comune che cosa (che cosa vedi?), donde anche, nell’uso familiare, l’abbreviato cosa, d’uso oggi assai frequente: cosa pensi?, non so cosa farmene, guarda cosa ho comprato.
Il traduttore del testo, a questo proposito, aggiunge una nota:
Il tipo della Penisola è tuttora il semplice che, validissimo a Firenze e in buona parte della Toscana. L’espandersi di cosa dovrà considerarsi d’origine settentrionale (si consideri che per esempio nel Veneto si ha parcosa? in luogo del toscano perché?).
La
GGIC (
Grande Grammatica Italiana di Consultazione, vol. III, p. 78
) considera il tipo
cosa come «piuttosto settentrionale e toscano».
Re: «Cosa» ~ «che cosa»
Inviato: dom, 07 lug 2024 16:17
di G. M.
u merlu rucà ha scritto: ven, 18 feb 2011 16:32
Da Ponte non so, ma il Manzoni non era andato a risciacquare i panni in Arno? Forse ha avuto qualche problema ad usare l'icché del fiorentino

.
La grammatica italiana Treccani (2012) lo attribuisce proprio al fiorentino colto:
La forma che nella storia dell’italiano si è affermata più tardi è stata proprio cosa, considerata dai grammatici una forma da evitarsi. La fortuna di cosa è cominciata alla metà dell’Ottocento, quando Manzoni – seguendo il modello del fiorentino parlato dalle persone colte – corresse in cosa i che cosa usati nella prima edizione dei Promessi sposi.