Inviato: dom, 01 dic 2013 10:56
Vede, caro Scilens, il fatto è questo: «Prima […] di misurare e giudicare tutta la lingua col metro di una grammatica del discorso logico, bisogna pensare che accanto ad essa c'è anche la grammatica del discorso affettivo, ad una grammatica del parlato accanto a quella dello scritto. O meglio, c'è una lingua sola, ma che adempie funzioni comunicative ed espressive diverse, di tutte le quali una grammatica moderna deve render conto».
Insomma, la lingua italiana, oggi, è completa di tutti i registri comunicativi; da libresca e cólta è diventata finalmente una lingua popolare. Non si può dire allora che l’uso di «a me mi» in alcuni autori celebri sia errato; men che meno in Manzoni, che adoperò questo modulo con sapienza. È una possibilità che la lingua offre, e va usata con criterio.
Ora, sappiamo bene che l’italiano nasce come lingua fortemente normalizzata. Se in toscano non si dice «a me piace» (e questo è vero anche per altri dialetti, come il mio: suonerebbe foresto chi dicesse *«a mi piaxe»), è perché l’uso vivo e spontaneo privilegia la messa in rilievo, la ridondanza, l’accumulo. La lingua scritta, in ispecie se, come nel nostro caso, è stata esposta per secoli all’influsso del latino, tende invece a rispettare la logica.
«A me piace» è grammaticalmente ineccepibile. Tanto piú che, se spostassimo quel sintagma preposizionale dopo il verbo (mutando del tutto il suo valore pragmatico, che ora diverrebbe rema, cioè informazione nuova), non avremmo del pari alcun errore grammaticale: «Piace a me (non a te, ecc.)». Che «a me piace» sia una forma che appartiene al parlato piú sorvegliato è indubbio; che sia estranea al dialetto, è altrettanto pacifico. Ma il dialetto si usa solo quando si può: in situazioni comunicative molto informali. E pure nel parlato esistono diversi gradi di formalità.
Insomma, la lingua italiana, oggi, è completa di tutti i registri comunicativi; da libresca e cólta è diventata finalmente una lingua popolare. Non si può dire allora che l’uso di «a me mi» in alcuni autori celebri sia errato; men che meno in Manzoni, che adoperò questo modulo con sapienza. È una possibilità che la lingua offre, e va usata con criterio.
Ora, sappiamo bene che l’italiano nasce come lingua fortemente normalizzata. Se in toscano non si dice «a me piace» (e questo è vero anche per altri dialetti, come il mio: suonerebbe foresto chi dicesse *«a mi piaxe»), è perché l’uso vivo e spontaneo privilegia la messa in rilievo, la ridondanza, l’accumulo. La lingua scritta, in ispecie se, come nel nostro caso, è stata esposta per secoli all’influsso del latino, tende invece a rispettare la logica.
«A me piace» è grammaticalmente ineccepibile. Tanto piú che, se spostassimo quel sintagma preposizionale dopo il verbo (mutando del tutto il suo valore pragmatico, che ora diverrebbe rema, cioè informazione nuova), non avremmo del pari alcun errore grammaticale: «Piace a me (non a te, ecc.)». Che «a me piace» sia una forma che appartiene al parlato piú sorvegliato è indubbio; che sia estranea al dialetto, è altrettanto pacifico. Ma il dialetto si usa solo quando si può: in situazioni comunicative molto informali. E pure nel parlato esistono diversi gradi di formalità.