u merlu rucà ha scritto:ippogrifo ha scritto:[È] l'autore citato dal Merlo - per quanto si tratti, globalmente, di un buon contributo - a non risultare del tutto attendibile.

L'autore citato è noto - nella ristrettissima cerchia degli appassionati - per queste sue "ingenuità". Mi spiego: non è possibile che, durante il breve corso di non molti anni che separano le due edizioni del Casaccia, la pronuncia urbana si sia evoluta - tra l'altro, al contrario ! ! ! - da "abæn" ad "abaen" ! ! ! Non è proprio credibile!

Si tratterà - piuttosto - di difficoltà o "idiosincrasie" tipografiche ottocentesche.
Quando si riportano forme tratte da dizionari o vocabolari, vengono riportate come risultano nel testo. Conosco personalmente l'autore e mi sembra strano che sia noto per queste 'ingenuità'. Nella Val Polcevera il dittongo ai non si chiude anche in posizione accentata in termini in cui è caduta la -r- intervocalica (evidentemente in epoca tarda e quando il fenomeno della chiusura si era già esaurito): màin-a; fàin-a; àin-a (mare, farina, sabbia).
Mi scusi, abbia pazienza, ma le osservazioni che lei fa non riguardano affatto quanto da me scritto nella parte del mio messaggio da lei citata.
I) Anche lei sa che i dittonghi ancora aperti della val Polcevera da lei citati provengono dalla “caduta” - storicamente “recente” - dell’-ř- intervocalico e non hanno nulla a che fare colla chiusura - più antica - di dittonghi quali quello di “abæn”<abàin in cui non c’è mai stata nessuna -ř-. Si tratta proprio - linguisticamente - di due parrocchie diverse! Inoltre, come appena scritto, ci sono secoli di mezzo - anche in val Polcevera - tra i due fenomeni linguistici - tra loro diversi -.
II) Sappiamo entrambi - come chiarito al punto I) - che i dittonghi quali “abæn”<”abàin” e “fætu” <”faitu”- quindi, non provenienti da -ř- - sono chiusi tanto in val Polcevera quanto a Genova. E da molti secoli! Se si mischiano così argomenti che non c’entrano nulla tra loro, nessun lettore - ammesso che le nostre considerazioni possano risultare d’interesse a qualcun altro - potrà mai capire nulla. Nella divulgazione di argomenti specifici e poco noti occorrerebbe essere sempre estremamente chiari.
III) Il brano da me scritto e da lei citato non riguarda specificamente l’apertura o la chiusura di dittonghi. Sto affermando altro. Molto semplicemente sto solo dicendo che una voce quale “abaen” - cioè con “a” ed “e” pronunciate singolarmente - non poteva esistere nel genovese dell’epoca del Casaccia - II metà dell’Ottocento - né è mai esistita in genovese.
Semplicemente perché un singolare maschile in “-en” non è ammissibile né mai lo fu anticamente in genovese né in nessuna varietà linguistica di tipo genovese.
Lei sa bene quanto me che si tratta semplicemente di una sciocchezza.
Se anche un tipografo dell’Ottocento avesse, ad es., sciolto la legatura “æ” di “fætu” e stampato “faetu”, ciò non potrebbe implicare assolutamente nulla di diverso rispetto alla pronuncia effettiva. Infatti, la “legatura” “æ” rappresenta semplicemente un mero espediente grafico utilizzato per indicare il timbro -intermedio - di “e” aperta (e lunga) su cui s’è “assestata” la monottongazione del dittongo formato da “a” + “i” dell’antica forma “faitu”, in cui - prima, appunto, della monottongazione - “a” e “i” erano pronunciate singolarmente e separatamente e in cui non esisteva nessun timbro di “e”. Proprio come non c’è mai stata nessuna “e” in “abàin”, che è l’antecedente della forma contratta ”abæn”. Detto ancora più semplicemente: “a” ed “e” contemporaneamente non ci sono mai state.
Se si vede scritto in un testo di geometria scolastica che la somma degli angoli interni di un triangolo è di 18 gradi, si pensa a una nuova ipotesi o a un banale refuso o difficoltà di stampa? E, inoltre, mi scusi, non può risultare assolutamente credibile che si abbia la forma contratta “abbæn” nel 1.851 - il Casaccia (tra l’altro) riporta nella grafia la geminata etimologica già all’epoca non più pronunciata - e “abbaen” nel 1.876 che - oltre a essere impossibile per le ragioni chiaramente su esposte – contrasterebbe (se le vocali fossero state pronunciate singolarmente) coll’evoluzione “naturale” del genovese. La direzione dell’evoluzione fonetica naturale del genovese - e non solo - è verso la chiusura, non certo verso la “riapertura” dei dittonghi già chiusi! E - inoltre - non s’è certamente compiuta nel corso di 25 anni! Sono occorsi secoli . . . Se intendessimo avvalerci del concetto da lei esposto - d’intangibilità della grafia dei testi -, dovremmo ammettere che l’autore dell’opera citata - Marco Cuneo - non osserva affatto questo criterio. Infatti, l’accento su “abaén” è dovuto a lui, non certo all’ottocentesco vocabolarista né ai tipografi dell’epoca. Il vocabolario - infatti - non lo riporta. E nessun altro vocabolario del genovese - ho controllato fino agli anni Cinquanta del Novecento - riporta la grafia “slegata” “abaen”.
Contengono tutti “abbæn”. Quindi, “abaén” - sic ! - non compare in nessuna fonte. Dunque, l’autore non aderisce all’impostazione da lei citata. “Integra”, “interpreta”. Tant’è vero che l’autore non riporta la doppia “b” dell’ “hapax” “abbaen” - ripeto, senz’accento sull’ “e” nel testo originale -, ma neppure la doppia “b” di tutte le altre ricorrenze, che sono tutte “abbæn” - tutte quante colla “legatura” “æ” -.
Infatti, l’autore cita perfino la pagina dei dizionari consultati, ma non riporta le voci nella loro integrità testuale. Elimina la doppia “b” perché ritiene non fosse più pronunciata o - più semplicemente - perché ritiene che le doppie non abbiano - in genovese - valore fonologico. Comunque sia, non riporta assolutamente le grafie testuali “telles quelles”. Bene. E fin qui . . .
Però nel porre l’accento sull’ “e” - che nel dizionario non c’è (né in nessun altro dizionario, come sopra chiarito) - sbaglia.
Semplicemente perché sembra non tenere in alcun conto la struttura linguistica del genovese. O non essersene reso conto. E - ancora più semplicemente - non aver verificato con nessun informatore. E sono fonti di questa tipologia che “inquinano” i dati riportati - ad es. - dalla Treccani. Come l’inesistente “abaén”! Mai esistito!
Che vuole che sappiano e quanto possiamo pensare s’interessino di genovese alla Treccani? Si avvalgono e si fidano dei dati degli autori. Ma, fidandosi, - in definitiva - finiscono per riportare - a beneficio di tutti - sciocchezze. Lasciamo pure perdere l’aspetto semantico di “abatino” sul quale non esistono attestazioni e che certamente la forma contratta “abæn” non ha mai significato.
La forma “abaén” – sic ! accentata sull’ “e” ! - riportata dalla Treccani è solo un abbaglio, un miraggio!
Non è, non può essere - è stato chiarito “ad abundantiam”- e non è mai stato genovese.
Anche se - ormai - su Internet il totalmente erroneo - e mai esistito - “abaén” può vantare un significativo numero di ricorrenze di cui - ovviamente - nessuno si cura.