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Inviato: lun, 08 apr 2013 14:11
di domna charola
Da un sito di prodotto italiano DOP, che lancia un concorso aperto a residenti in Italia...

titolo del concorso: "Asiago, cheesfida"...

che sarebbe più o meno una sfida all'ultimo formaggio... :roll: ohimé...

http://www.asiagocheese.it/it/asiago-ch ... -concorso/

Inviato: lun, 08 apr 2013 14:17
di Andrea Russo
Non è un prodotto italiano, ma meidinitali...
A proposito, ieri parlavano del Salone Internazionale del Vino e dei Distillati, ovviamente si chiama Vinitaly. :?

Inviato: lun, 08 apr 2013 14:42
di Animo Grato
domna charola ha scritto:titolo del concorso: "Asiago, cheesfida"...
Devo dire che, svaporati i fumi dell'ira, provo quasi un'attonita ammirazione per questo osceno contorsionismo verbale, il cui fine dovrebbe essere - credo - un doppio gioco di parole: uno grafico (Asiago, che sfida!) e uno "fonetico" (Asiago ci sfida - la virgola, in effetti, è assente dal "testo" originale). Forse ce n'è anche un terzo, tra "cisfida" e disfida... Rivisitazioni storiche: la disfida di Barletta diventa la cheesfida di Asiago, in cui le "eccellenze casearie" italiche giostrano con i tradizionali rivali d'Oltralpe.
Zabob ha scritto:Esaurita la fase A (non tradurre i titoli dei film e telefilm in inglese, ché si fa peccato), è iniziata la fase B (produrre film o serie TV italiane con titoli in inglese)?
La sua bipartizione mi pare fin troppo ottimistica, ché esclude una terza opzione: sostituire il titolo originale inglese con un altro titolo inglese, ad uso delle platee italiane. Tra gli esempi più recenti, A Royal Weekend, il cui titolo originale è Hyde Park on Hudson. Qui si rasenta la follia, ed è un caso tutt'altro che isolato: fortunatamente (per la mia salute mentale) e sfortunatamente (per la documentazione) ho rimosso dalla memoria i molti casi analoghi, ma se dovessero riaffiorarmi alla coscienza non mancherò di farvene partecipi. :wink:

Inviato: lun, 08 apr 2013 14:43
di Carnby
domna charola ha scritto:"Asiago, cheesfida"...
Ci ho messo qualche secondo a capire che era un gioco di parole tra cheese e che sfida... anche perché il suono iniziale delle due parole/locuzioni non è affatto uguale.

Inviato: lun, 08 apr 2013 15:04
di Ferdinand Bardamu
Concordo con Carnby: sulle prime non avevo affatto còlto il gioco di parole. Mi domando se non ci si stufi a ricorrere sempre all’inglese per essere originali… :roll:

Inviato: lun, 08 apr 2013 17:38
di domna charola
Concordo sia con Animo Grato che con Carnby e Ferdinand.
Anch'io ho strabuzzato un attimo gli occhi, tornando sulla pagina in cui avevo visto il richiamo e che avevo chiuso prima di mettere a fuoco compiutamente (qui mi verrebbe proprio il biasimato "realizzare": da una nuvola confusa di idee e sensazioni, è divenuto improvvisamente reale e concreto in tutto il suo orrore...).
Poi, andando al sito direttamente, prima è stato sconforto nel verificare che sì, era come mi era sembrato di capire (ma non ci credevo...); quindi è subentrata una vaga, inquietante ammirazione per chi riesce a guadagnarsi da mangiare con tale creti... ehm... creativa genialità...

Consoliamoci: tra breve per distinguersi e vendere, occorrerà dare nomi ai prodotti e creare frasi in obsoleto italiano!!!!

Inviato: lun, 08 apr 2013 18:06
di Freelancer
Animo Grato ha scritto:La sua bipartizione mi pare fin troppo ottimistica, ché esclude una terza opzione: sostituire il titolo originale inglese con un altro titolo inglese, ad uso delle platee italiane.
La tendenza degli editori o redattori italiani a cambiare i titoli delle opere, scritte o cinematografiche, ha una lunga tradizione e s'inquadra in un modo di pensare, a mio parere, secondo il quale il fruitore non è in grado di decidere, ma bisogna scodellargli cosa si ritiene sia meglio per lui.

Mi piace qui ricordare solo due esempi, il primo di livello più basso, diciamo così: in una collana Mondadori di gialli o spionaggio (non mi ricordo bene) la traduzione del titolo di un romanzo, "Such men are dangerous" di Lawrence Block (ovvia citazione dal Giulio Cesare di Shakespeare), quindi "Uomini così fatti sono pericolosi" era "Amico esci dal branco" con l'esplicita spiegazione che a parere della redazione quest'ultima (anch'essa una citazione dal Giulio Cesare) 'faceva più titolo' in italiano (qualunque cosa questo significhi).

Il secondo esempio è di tono più elevato, riguarda il famoso romanzo "The Catcher in the Rye" di Jerome Salinger. Nel retro di copertina della prima traduzione (la più famosa credo) si spiegava che letteralmente il titolo significava "L'acchiappatore nella segale" ma come semplice accostamento di parole avrebbe anche potuto tradursi con "Il terzino nella grappa" e quindi, vista l'impossibilità di tradurlo, si era deciso per "Il giovane Holden" come simbolo di una generazione. Quando è ovvio, leggendo il romanzo e il 'desiderio' spiegato da Holden Caulfield di ciò che lui vorrebbe veramente essere (acchiappare i ragazzini che giocano in un enorme campo di segale prima che cadano dai bordi), che il titolo inglese significa proprio "L'acchiappatore nella segale".

Oggi l'inglese entra molto in gioco, mentre prima i titoli si traducevano, ma l'atteggiamento resta lo stesso: il lettore (o lo spettatore) non capirebbe, noi ne sappiamo più di lui.

Inviato: mar, 09 apr 2013 0:33
di Andrea Russo
Se volete farvi due risate in nome della beata ignoranza che regna in Italia o se volete arrabbiarvi un po' (come ho fatto io), leggete quest'articolo.
Io non ho parole, e non commento. Se volete farlo voi...

Inviato: mar, 09 apr 2013 8:16
di domna charola
Mi deprime un po' vedere come anche fra i "creativi" vige la "regola della pecora" (ma non dovrebbero essere "creativi"?): adesso va di moda fare il marchio di una città incastrando le lettere in modo che creino la sagoma di qualche monumento-simbolo o del profilo dell'insieme edificato (la "skyline"...!), e quindi, dopo il primo che l'ha lanciato, ed era veramente una novità, tutti dietro a imitare; e ogni Comune o Proloco, non essendo abbastanza addentro nell'ambiente, se lo beve come un'assoluta esclusiva, premiandolo... risultato finale, l'appiattimento dell'immagine dei singoli luoghi su di un unico schema "italiota" (credo... non ho mai verificato nel campo estero queste questioni di grafica).
A parte i commenti sulla grafica, resta il fatto che queste nostre città d'arte si vendono soprattutto all'estero: sono un richiamo forte per un turismo internazionale che porta soldi. Mentre gli italiani vanno nei mari altrui, il resto del mondo viene qui a conoscere il nostro patrimonio artistico. E' inevitabile quindi che le campagne di immagine e i marchi vengano sviluppati rivolgendosi primariamente al settore estero, e in maniera comprensibile ed evocativa per un turismo che ha come elemento in comune la conoscenza della lingua inglese.
Qui non c'entriamo noi e l'uso (o il non uso) scellerato che facciamo del nostro patrimonio linguistico. Qui c'entra il fatto che siamo alla disperata ricerca di catàr su un po' di spiccioli europei per campare, e per raggiungere il cliente occorre parlare la sua lingua (persino i lavavetri lo hanno capito, e le uniche parole italiane che spiccicano sono "tu da me moneta perché ho fame")...

Inviato: mar, 09 apr 2013 8:50
di Andrea Russo
Certo, ma scusi eh, per capire Pisa è unica non mi pare ci voglia una laurea in astrofisica! Pisa è Pisa, unica è praticamente uguale a unique, e che cosa sia quella misteriosa particella nel mezzo lo scopre anche un idiota. E se bisogna attrarre i turisti puntiamo più sull'immagine che su un motto "creativo".
Se fossi uno straniero vorrei venire in Italia per vedere le cose italiane, e non m'interesserebbe vedere tutte le scritte in inglese: quelle ce l'hanno pure loro! E non mi pare un grande sforzo impararsi un paio di frasi e portarsi dietro un dizionaretto: quando uno ha imparato scusi, come arrivo a X?, grazie, volevo un X, e poco altro basta, non è che deve intervenire in un dibattito sulla filosofia neoplatonica...

Inviato: mar, 09 apr 2013 10:19
di Carnby
Che schifo quel P-is-(a)-unique. A me mi garba parecchio l'araldica civica tradizionale e detesto questi loghi disegnati da qualche grafico senza nessuna cognizione storica. Per me questo sarà sempre il solo e unico marchio della città di Pisa.

Inviato: mar, 09 apr 2013 12:24
di domna charola
Ma sull'araldica e la tradizione non ci piove. Concordo pienamente. Però se si vuole vendersi all'estero, il pieghevole illustrativo glielo traduci in inglese, e anche i toponimi della carta (cosa per me discutibile).

E' il solito problema della comunicazione. L'emittente ha tutto l'interesse a raggiungere il destinatario, e se il destinatario non è di suo già interessato e recettivo, è l'emittente che deve studiarsi un codice per raggiungerlo.
Nel senso: può benissimo arroccarsi sul suo linguaggio e sulle sue posizioni, però non può poi lamentarsi che l'altro non lo capisce o non lo ascolta. Il destinatario del suo messaggio infatti non ha in partenza interesse ad ascoltare quel messaggio, e vive felice lo stesso.
Quindi, alla fine il problema è solo dell'emittente: può scegliere se usare un codice condiviso, e raggiungere il suo destinatario, oppure può scegliere di rinunciare e mantenersi fedele ai suoi canoni comunicativi.

Rivoltando il discorso: per invitarci a visitare i monumenti della Grecia classica, dovrebbero inviarci la pubblicità in alfabeto greco moderno... non mi sentirei però particolarmente incentivata a leggere tali comunicazioni.

Inviato: mar, 09 apr 2013 12:34
di Andrea Russo
Son cose diverse. È chiaro che le guide devono parlare piú lingue, che i cartelli turistici devono essere scritti anche in inglese, ma non è che un inglese visita Pisa dopo aver visto quello schifo: «Oh, ma che bravi! Vado subito a Pisa»...
Il pieghevole illustrativo glielo traduco anche, ma perché il marchio/motto o quello che è dev'essere in inglese? Allora ne va fatto uno per gli spagnoli, per i francesi, per i tedeschi... E se ci rimane tempo e voglia anche per gl'italiani.

Inviato: mar, 09 apr 2013 12:55
di Fabio48
E meno male che Pisa è unica!
Ci mancava anche che ce ne fossero tre o quattro... :wink: :wink: :wink:

Inviato: mar, 09 apr 2013 15:43
di domna charola
Quando fai un logo, guardi soprattutto la valenza grafica. Oggi ormai è di moda giocare anche sulle suggestioni testuali. Che vengono scelte quando sono di immediata percezione e brevi.
L'immediata percezione in questo caso scavalca qualsiasi lingua e sintassi, perché il cervello percepisce un'immagine, a cui associa un significato. Senza ragionare in quale lingua sia. Un parlante qualsiasi che conosca anche l'inglese gli dà in automatico quel significato. E l'inglese è ormai una base comune a quasi tutti gli europei.
Il giochino di parole con il nome "Pisa", sgranato verticalmente, graficamente funziona. Pisa "è", questo è quasi scontato leggendo quel nome (analogamente se si prende il marchio UBI, si percepisce subito l'idea di luogo e quindi di presenza, legata alla percezione subconscia del noto sintaagma latino).
Quello che mi sembra una forzatura (leggi: copiato da altri loghi imitando lo stile, poi non sapevano come uscirne…) è invece il termine inserito per completare la frase. Non mi convince, non ha forza secondo me nemmeno in inglese. Personalmente avrei seguito un'altra strada cercando una soluzione più originale e meno tirata per i capelli.

Alla fine, quello che serviva era un disegnino indissolubilmente legato al nome della città e che non si confondesse con nulla (le araldiche dei vari comuni sono invece molto simili tra loro, spesso), abbastanza incisivo da indurre i turisti a comperare la maglietta come prova e ricordo di essere stati in quel luogo.
Non si sarebbe nemmeno potuto usare lo stemma della città, perché è un marchio istituzionale legato all'Amministrazione Comunale. Queste campagne di immagine sono gestite invece dalle Pro Loco, che sono enti diversi e che devono usare un proprio marchio, le quali a loro volta affidano a ditte esterne l'appalto delle campagne di immagine. Ovviamente queste ditte esterne non possono nemmeno usare il marchio della Pro Loco stessa (che designa i documenti prodotti direttamente da essa, e non può essere usato al di fuori di questi se non in associazione, come patrocinio), e quindi una campagna di immagine per promuovere una città deve avere un marchio a sé stante, molto ben distinguibile da quelli degli enti istituzionali locali.
Questo il profilo formale, più o meno. Quindi qualcosa andava comunque inventato ex-novo.
Si poteva fare meglio, secondo me.