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Inviato: gio, 03 apr 2014 11:11
di Ferdinand Bardamu
Scilens ha scritto:A Ferdinand: Il Vico non era toscano e secondo me gli è rimasta un'acca nella penna.
La scrittura della lingua non ha nulla che fare colla provenienza geografica dello scrivente. ;) Le faccio due esempi di poeti toscani:

escon bene spesso anch’i ranocchi
e gli altri pesci c’hanno della frasca.
(Francesco Berni, Rime)

O ch’egli più di me non si ramenta,
o c’hanno in voi le sorti ladre e sporche
la partita del mio credito spenta;
(Pietro Aretino, Rime d’encomio)

Quanto alla giustificazione di quest’elisione «per ragioni metriche», riporto qualche occorrenza in prosa:

e il nostro Giove è di tutte queste cose contento, però c’ha preso isdegno, veggendo a gente portare per insegna quello uccello nella cui forma già molte volte si mostrò a’ mondani, che più a’ sacrifici di Priapo intendono che a governare la figliuola d’Astreo, loro debita sposa. (Giovanni Boccaccio, Filocolo)

Colui da cui ella è venuta, cioè quello maladetto corbacchione, se ce lo potrò avere, punirò lui, e uno c’ha nome Luisi barattiero che lo tiene, in forma che sarete contenti. (Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle)

Poi mi pare che, in taluni italiani regionali, quest’elisione sia abbastanza comune: in particolare nella variante romana. Rimane il fatto che, oggi, elidere che non è comune.

Inviato: gio, 03 apr 2014 11:47
di Andrea Russo
Scilens ha scritto:
Andrea Russo ha scritto:c'ho, scritto cosí, non può essere letto come /tʃɔ/, ma dev'esser pronunciato /kɔ/.
Allora anche "c'è" va letto "chè" ("che è", che però dovrebbe scriversi "ch'è").
:?:

A quanto mi risulta c'è è la forma elisa di ci è, non di che è...

Inviato: gio, 03 apr 2014 11:57
di Scilens
Andrea Russo ha scritto:A quanto mi risulta c'è è la forma elisa di ci è, non di che è...
Infatti, lo stesso risulta anch'a me. Come si fa a leggere come dura un c apostrofata?

A Ferdinand:
Sono incerto sull'ultimo esempio, che dovrei cercare, quello del Sacchetti, ma per gli altri credo che si tratti di contrazioni da ci, non da che.

Qui trovo qualche altro caso http://www.treccani.it/enciclopedia/ci_ ... aliana%29/

Inviato: gio, 03 apr 2014 12:43
di Infarinato
Scilens ha scritto:Come si fa a leggere come dura una c apostrofata?
È facile: basta fare come si fa in assenza di apostrofo (dura davanti a, o, u e h, e dolce davanti a e e i). ;)

Inviato: gio, 03 apr 2014 12:44
di fiorentino90
Carnby ha scritto:
Scilens ha scritto:Che io -> ch'io (documentato)
E che ho come lo eliderebbe? Ch'ho? :?
Io sí. Al cellulare però uso , cài, cànno. In sostanza, c'ho, c'hai e c'hanno non li uso mai!

Inviato: gio, 03 apr 2014 12:59
di Scilens
Infarinato ha scritto:
Scilens ha scritto:Come si fa a leggere come dura una c apostrofata?
È facile: basta fare come si fa in assenza di apostrofo (dura davanti a, o, u e h, e dolce davanti a e e i). ;)
Allora forme come "c'andrò" (ci andrò) vanno lette "candrò"?

L'esempio del Sacchetti l'ho trovato così scritto
"e uno ch'ha nome Luisi barattiere che lo tiene" (Google Libri)

Inviato: gio, 03 apr 2014 13:12
di Infarinato
Scilens ha scritto:Allora forme come "c'andrò" (ci andrò) vanno lette "candrò"?
Sí, come del resto leggiamo /k/ le c’ di poc’anzi e di Marc’Antonio;) ed è proprio per questo che una grafia come c’ho, per quanto diffusa, non è ammissibile per rendere /ʧɔ/.

Inviato: gio, 03 apr 2014 13:48
di Scilens
Mi scuso se sembra che voglia insegnare, dico solo il mio parere e cerco una logica.
Negli esempi che lei ha fatto quella c precede solo vocali dure (non so come si chiamano), cioè a o u (poco anzi e Marco Antonio) e le vocali elise sono dello stesso tipo, mentre nel caso della c isolata, in compagnia del solo apostrofo (c') non si può immaginare altro che non sia una c dolce, perché si trovava davanti ad una e o una i. Non esistono altri casi e se esistono non li conosco.

Lei dice per scherzo. Se rispondessi "candrò" nessuno potrebbe immaginare che domanda m'è stata fatta, non c'è un verbo "candrare".

Perché non c'uniamo in quest'impresa? Non c'interessa.
In questi due casi la sua regola renderebbe incomprensibile la prima. Dunque scherza. :)

E se si volesse citare un famoso politico, non si dovrebbe scrivere "che c'azzecca"?
Leggere checcazzecca potrebbe essere, al meno, malinteso.

Inviato: gio, 03 apr 2014 13:53
di Carnby
Scilens ha scritto:E se si volesse citare un famoso politico, non si dovrebbe scrivere "che c'azzecca"?
No. :)

Inviato: gio, 03 apr 2014 13:54
di Ferdinand Bardamu
Ma, caro Scilens, la regola ortografica che s’impara alle elementari (e che è valida, sempre) è questa: il grafema ‹c› si legge /ʧ/ solo se seguíto da ‹i› o ‹e›. Fine della questione.

Inviato: gio, 03 apr 2014 14:09
di Scilens
Ma come "no" e "fine questione"! Qui abbiamo romanzieri e traduttori che cercano informazioni, non si può chiudere così, "si dice così e basta". Poi ricordo ai gentili interlocutori che stiamo cercando di riprodurre un parlato, l'italiano casalingo informale e che queste cose naturalmente non vanno scritte in una tesi o in qualsiasi scritto dove si richiede una forma aulica.
Il commediocrafo come potrà scrivere ci ho in una frase come "non ci ho fatto caso"?
La Crusca, immagino, certificherebbe l'uso del "c'ho". E per la verità, anch'io, essendo talmente vecchio e talmente comprensibile e logico da essere nei fatti così diffuso.

La regola citata da Ferdinand è vera e s'impara in prima elementare, ma il caso della c apostrofata deve tener conto della natura della vocale caduta, cioè non di quella che la segue, ma di quella che l'apostrofo sostituisce.
Questa è la regola giusta e applicata.

Inviato: gio, 03 apr 2014 14:29
di Ferdinand Bardamu
Scilens ha scritto:Il commediocrafo come potrà scrivere ci ho in una frase come "non ci ho fatto caso"?
Il commediografo di solito non scrive per essere letto.
Scilens ha scritto:La Crusca, immagino, certificherebbe l'uso del "c'ho". E per la verità, anch'io, essendo talmente vecchio e talmente comprensibile e logico da essere nei fatti così diffuso.
Ognuno si comporti come crede. La Crusca però si è espressa a favore di cj ho (pur con l’avvertenza che nemmeno questa è la soluzione ideale), e decisamente a sfavore di c’ho. Dispiacemi. :D
Scilens ha scritto:La regola citata da Ferdinand è vera e s'impara in prima elementare, ma il caso della c apostrofata deve tener conto della natura della vocale caduta, cioè non di quella che la segue, ma di quella che l'apostrofo sostituisce. Questa è la regola giusta e applicata.
Il fatto che tanti applichino una regola sbagliata non vuol dire che questa regola sia giusta. Ci si può elidere solo davanti a i- e e-. Fine della questione, davvero: se si avallassero scritture che c’ha si metterebbe in pericolo la coerenza dell’ortografia italiana.

Inviato: gio, 03 apr 2014 14:59
di Scilens
Ferdinand Bardamu ha scritto:Dispiacemi. :D
Dispiacemi ancammé. :D
Perché la lingua si chiama così perché dovrebbe nascere più parlata che scritta, seguendo regole fonetiche che la grafematica dovrebbe cercare di riprodurre. La regola applicata, giudicata sbagliata è giusta, logica e nei fatti vincente, mentre ogni legge sbagliata sicuramente non viene seguita senza coercizione. Il tener conto della vocale elisa è un logico corollario della regola principe che ha citato sopra ed è contravvenire a questa il sostenere che c'ho debba leggersi ko. La lingua contiene le proprie regole in modo implicito, non evidente, che s'apprende più per induzione inconsapevole che per insegnamento diretto. La formulazione diretta di dette regole è senz'altro d'aiuto, se queste regole saranno coerenti, in caso contrario saranno inutili o dannose. Questo caso è il secondo.

Il commediografo può aver lasciato un inedito postumo, magari opera unica, che l'attore deve leggere come l'autore immaginava e se quest'ultimo deve scrivere 'ci ho' non è per nulla detto che l'attore immagini che volesse scrivere c'ho. Potrebbero sorgere dispute interminabili sulla "fedeltà al testo". Se scriverà "c'ho" tutti capiranno, anche se viene (non da me) considerato sbagliato.
Non sto parlando di elasticità nell'applicazione delle regole, ma della mancata comprensione delle stesse.
Questo è solo il mio parere e non fa testo, ma dovrebbe indurre alla riflessione.

Inviato: gio, 03 apr 2014 15:31
di Ferdinand Bardamu
Scilens ha scritto:
Ferdinand Bardamu ha scritto:Dispiacemi. :D
Dispiacemi ancammé. :D
Perché la lingua si chiama così perché dovrebbe nascere più parlata che scritta, seguendo regole fonetiche che la grafematica dovrebbe cercare di riprodurre.
Appunto! L’ortografia italiana è tra le piú semplici e, a questo riguardo, ha una regola semplicissima, che non andrebbe violata, se non a costo di venir meno, come dice lei, al compito di riprodurre quanto piú fedelmente possibile la pronuncia, senza fraintendimenti.

Ci sono diverse soluzioni per riprodurre la pronuncia del ci attualizzante. La meno appariscente, ci ho, ha il difetto di non essere precisissima. Ciò ha un’aria popolaresca, mentre cj ho è forse troppo colta. Ma ciascuna di queste grafie sarà sempre migliore di una palese violazione delle regole ortografiche italiane, cioè di c’ho.

Inviato: gio, 03 apr 2014 17:57
di SinoItaliano
Regola implicita? Se la lettera non c'è più perché sostituita dall'apostrofo, come fa a dedurre se era una i, una e, oppure una a/o/u?

Io sarei per scriverlo ci'ho, ma forse contravviene alla regola che l'apostrofo si mette solo dopo una consonante.