Aggiungo solo, per soprammercato, che non è obbligatorio che, nel creare un derivato, si rispetti scrupolosamente l’etimo della radice, in ispecie se è latina. Anzi, tutt’altro. L’italiano non è (piú) il latino, benché con esso mantenga strettissimi rapporti di parentela. E ciò che La scandalizza, la sboccata iscrizione di San Clemente, è una forma molto arcaica di romanesco, come ben sa. Si rammarica forse che il patrizio Sisinnio non abbia detto, in questo fumetto ante litteram, «Scortōrum filii, trăhĭte?». Purtroppo l’impero romano s’è dissolto, e non ci possiamo fare niente.

In che senso, poi, «la desinenza [di accorpare] è stata attaccata … brutalmente … alla forma italiana della parola»? Accorpare è una parola ben formata, secondo le regole di formazione delle parole in italiano, perché deriva da corpo, la cui radice è corp- non corpor-. Corpor- si ritrova solo nei cultismi: corporale, corporeo, ecc.
Paradossalmente, la sua critica dovrebbe rivolgersi anche a Dante, il quale, nella sua invettiva contro Firenze nel XXVI canto dell’Inferno, scrive:
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché piú mi graverà, com’ più m’attempo.
Attemparsi è un derivato parasintetico di tempo e non di *tèmpore! Anche Dante si è dimenticato del latino? Per evitare quest’inconvenienti, sarebbe opportuno tener sempre presente la distinzione tra parole di tradizione ininterrotta e cultismi. Per es., incorporare, scorporare, temporale, laterale, litorale introducono tutti radici assenti nello strato ereditario, ovvero corpor- (per corp-, corpo), tempor- (per temp-, tempo), later- (per lat-, lato), litor- (per lid-, lido, anticamente lito).
Lei mi può ribattere che in antico si diceva làtora e còrpora per lati e corpi. Ma si tratta, per l’appunto, di forme antiche, relitti di un plurale in -ora non piú produttivo da parecchi secoli. Insomma, per rispondere alla sua domanda: no, non credo ci siano ragioni [oggettive] per detestare accorpare e derivati.