u merlu rucà ha scritto:Premetto che, terminologia a parte, io cerco di dare una spiegazione ad un caso che sembra costituire un'eccezione ad uno sviluppo normale, fornendo elementi che possono essere anche del tutto contestabili o errati, ma che devono essere contestati con motivazioni che vadano oltre affermazioni: Che olio - in italiano - sia voce dotta o semidotta, se si preferisce - è autoevidente. Insomma dall'ad hoc passiamo all'assioma. A me, personalmente, non sembra così autoevidente. Magari sbaglio, ma preferisco sbagliare ricercando che accontentarmi di una spiegazione che non mi soddisfa.
La prima frase risulta d’immediata comprensione. Effettua semplicemente una fotografia della forma linguistica “olio”. Che non ha effettuato - a differenza di tante altre parole italiane di origine e fonetica assimilabile - la completa evoluzione fonetica che ci si aspetterebbe. E che sia evidente che “olio” sia forma “semidotta” non lo dico io. Lo dice l’evidenza stessa. Infatti, esistono anche altre forme linguistiche che riportano tutti i possibili esiti fonetici: “oleico”, “oleario”, “capodoglio (capo d’oglio)” oltre alla pronuncia toscana più spontanea - riferita in questo stesso filone -, fondamentale - come sempre - per una comprensione completa dell’evoluzione linguistica intercorsa a partire dal vocabolo latino corrispondente. Questa è la fotografia, il sintomo. E da qualche punto si deve pur partire . . .
Ma non ho affatto scritto che ci si debba fermare.
Ho semplicemente osservato che gli studiosi non ci dicono precisamente il perché. Cioè, non ci propongono una chiara diagnosi, che risulti congruente coll’aspetto fonetico “semidotto” di olio.
Ma - ribadisco - non ho affatto scritto che ci si debba fermare.
Quindi, attribuire una critica di “assiomaticità” - nell’accezione non positiva di “verità non sottoponibile a dimostrazione” - al mio pensiero, dopo averne citato solo la metà, non corrisponde alla banale semplicità e alla linearità delle due frasi che ho scritto. Cosa di cui chiunque si può rendere facilmente conto.
In precedenza, io mi ero comportato in modo estremamente corretto. Non condividendo la motivazione all’esito ligure di “olio” da lei proposta, ho fatto un intervento. Le regole del gioco sono chiare per tutti: libertà di esporre una motivazione - di tipo fonetico o altro -, libertà di fare osservazioni in merito. Per altro, lei non citava la fonte proponendo la motivazione come propria, ma io - conoscendola - non ho criticato il suo intervento e - per correttezza - ho rivolto la critica all’autore. Perché l’ho criticato?
In sintesi, semplicemente perché non è ragionevole ipotizzare che la forma latina originaria “oleum” possa aver avuto caratteristiche fonetiche (per altro del tutto indimostrabili) e non condivise da nessuno dei vocaboli simili (e, di nuovo, non si capisce quale possa mai essere il perché di questa differenza di comportamento) tali da impedire la completa evoluzione fonetica della parola. In questo caso non conta la diversità tra dialetto e italiano perché si sta trattando dell’originaria voce latina - “oleum” -. Che quest’ipotesi sia fallace e che non esista un vincolo fonetico di tale tipo lo dimostrano una forma linguistica quale “capodoglio” e la pronuncia “genuina” del parlato toscano meno “formale”.
Che, invece, il comportamento manifestato, nella loro “variabilità”, dalla famiglia di voci “derivate” di “oleum” - “oleico”, “oleario”, “olio” e “capodoglio” - sia assolutamente “normale” (come succede, in misura minore o maggiore, in tutte le lingue del mondo) è altrettanto chiaro. L’italiano - in un’infinità di casi - possiede - almeno - una “duplicità” di esiti fonetici che lo provano: pluviale/pioggia, glande/ghianda, glaciazione/ghiaccio, clamore/chiamare, vizio/vezzo . . . E’ evidente che si tratti di motivazioni “socio-linguistiche” che differenziano tipologie di “registri” d’uso. La fonetica non c’entra per nulla. Sarebbe come sostenere che l’ [l] di “clamorem” avesse particolarità ineffabili e indimostrabili tali per cui l’evoluzione fonetica s’è bloccata. Nient’affatto. Tant’è vero che esiste chiamare, che esiste clero, ma anche chierichetto e così via quasi all’infinito . . .
Quindi, ad es., l’ipotizzare una “protratta” “trisillabicità” di “oleum” per spiegare esiti comparabili con “olio” risulta essere una mera illazione “antiscientifica”. L’effetto del fenomeno generale che causa e spiega l’evoluzione linguistica sarebbe stato sospeso - ad opera di chi? - nel caso particolare di “oleum” . . . E perché mai? Per far piacere all’autore cui - dopo molti secoli - non sarebbe venuto in mente nulla di meglio? No, le cose in linguistica non funzionano così.
E queste situazioni sono, invece, ben comprensibili in italiano se si accetta di riflettere anche sugli aspetti “socio-linguistici”. L’ipotesi della “sacralità” dell’olio potrebbe anche non essere condivisa da tutti, ma risulta perfettamente scientifica e scientificamente accettabile perché non formula ipotesi fonetiche indimostrabili e si avvale di considerazioni di tipo “socio-linguistico” che - come abbiamo visto - si dimostrano particolarmente appropriate alla “flessibilità” semantica e di “registro” d’uso e alla “variabilità” fonetica della lingua italiana.
Certo, tutti saremmo più tranquilli se le critiche a un’opinione venissero effettuate con argomenti adeguati e rispettando l’opinione stessa senza fornirne una versione difforme e distorta rispetto a quella originariamente espressa. Io ho cercato di farlo e mi sarei aspettato - ingenuamente - reciprocità.