Scusate la seccatura e le inevitabili ripetizioni, ma non resisto…

(La citazione – grassetti miei – è dal solito libro del 2006,
Per difesa e per amore, pp. 187-194. Parentesi nella parentesi: il Nostro è solo «socio» dell’Accademia, non «accademico», almeno cosí sul sito della Crusca.)
Beccaria ha scritto:Per ora, nessuna struttura fondamentale dell’italiano, fonetica, sintattica, morfologica è stata corrosa vistosamente. […] Ma tutti questi influssi non hanno snaturato la nostra lingua. Neppure il gran numero di parole con terminazione in consonante, un elemento di struttura fonetica opposto al tipo italiano. […] Ma la lingua degli italiani è stato per secoli il dialetto, e la chiusa consonantica, in tutti i dialetti del Nord almeno, è strutturale; la parola straniera non ha perciò alterato con disfonie un quadro fonologico preesistente. Quando nacque transistor (1950), il tentativo di tradurre in «transistore» non fu affatto ritenuto necessario.
L’italiano dunque non corre rischi per ora, non c’è da temere delle sue sorti. […] L’italiano non corre per ora dei rischi. […] Dell’invadenza dell’inglese non dobbiamo per ora troppo temere, né temere della nostra scomparsa. […] Se dunque l’italiano comune, come lingua parlata e scritta, non è affatto in pericolo, le lingue scientifiche nazionali, queste sí che lo sono. […] Ma il colpo decisivo alla lingua sarà inferto il giorno in cui si deciderà di scegliere l’inglese come lingua in cui tenere le lezioni universitarie. Mi auguravo che non lo si facesse. Vedo ora che nella superselettiva Alta Scuola Politecnica dei Politecnici di Milano e Torino, tenuta a battesimo nel febbraio 2005, i corsi saranno esclusivamente in inglese. Questa scelta sta segnando un primo passo per accelerare la fine della nostra lingua come lingua di cultura. Decadrà sempre piú a lingua familiare, affettiva, dialettale.
Tralasciando le fastidiose ripetizioni (che sembrano, a tratti, ipnosi, autopersuasione), in questo discorso, sebbene tagliato, io scorgo prima di tutto una contraddizione di fondo: non preoccupiamoci, l’italiano gode ottima salute (a livello di lingua comune, parlata e scritta [e neanche questo mi par vero]); ma no, attenti, l’italiano, come lingua di cultura (e la lingua comune, parlata e scritta, non rientra nel quadro generale di lingua di cultura?) è moribondo.
Ma vorrei soffermarmi sulle parti che ho evidenziato in grassetto.
Per fortuna, l’avverbio
vistosamente riscatta in parte la prima affermazione. Sintatticamente, siamo d’accordo; ma foneticamente no (e siccome la cosa è ovvia e su questo Infarinato e io ci siamo ripetutamente diffusi, non insisto).
Va notata però un’inesattezza assai vistosa: non è vero che in tutti i dialetti settentrionali la finale consonantica è strutturale (in veneto, ad esempio, non è – se non erro). Ma quel che piú colpisce è l’equiparazione tra dialetti del Norde (che, ricordo, sono piú vicini alle parlate gallo-romanze) e italiano (il quale, ricordo, è di base fiorentina, dialetto di tipo centro-meridionale), quasi a suggerire che non esistono, o contano poco, il Centro e il Mezzogiorno… (Tra parentesi, Beccaria scrive
né, perché, granché – conformandosi alla grafia ormai stàndara rispecchiante la pronuncia modello – ma
potè [p. 187].)
Per concludere queste mie maldestre riflessioni a caldo s’una nota, per cosí dire, neutra, si nota che il Nostro, dopo aver detto delle proposte del Castellani che sono «curiosità, divertimenti eleganti del linguista» (p. 182), parla di decadimento a «lingua familiare, affettiva, dialettale» e in questo sembrerebbe dire esattamente quello che affermava il Castellani nel 1987 (
Morbus anglicus, SLI, p. 142; grassetto mio): «C’è purtroppo il rischio che questo italiano finisca col perdere la propria identità, col creolizzarsi, col diventare
un dialetto usato solo in certe circostanze o per finalità pittoresche da una piccola minoranza della grande comunità anglofona. Non è un pericolo teorico o lontano». E che non sia né teorico né lontano è dimostrato da quanto riportato dal Beccaria sulle lezioni universitarie tenute in inglese presso l’Alta Scuola Politecnica.