Bue ha scritto:Per quale motivo lei può usare una locuzione non italiana come ipso facto, che per un autentico italofono centromeridionale presenta ben due ostacoli fonetici (Massimo Ravel del Tg1, ad esempio, la pronuncerà ìppesso fàccheto) e io non posso usare wok che al suddetto Ravel ne presenta solo una (uòcche)?
Bue, forse si è perso un passaggio fondamentale della discussione:
umanista89 ha scritto:Per carità, il gusto del singolo è, in ultima analisi, insindacabile[...], perché in ultima analisi è il singolo che deve compiere la propria scelta linguistica.
Io, lei, Massimo Ravel e chiunque altro, possiamo usare quel che ci pare. La discussione non verte intorno alla
liceità dell'espressione. Chi lo preferisce, può benissimo dire
bye in luogo di
ciao, se gli garba. Ciò su cui stiamo discutendo è, anzitutto, se le parole
guò e
wok siano, e perché, adatte al sistema linguistico italiano, e piú in generale se è ancora giusto oppure no italianizzare i vocaboli stranieri anziché introdurli in italiano nella loro veste originale.
La risposta a tali quesiti potrebbe tradursi, nella migliore delle ipotesi, in un normativo «è meglio cosí». Ciascuno di noi, poi, si regolerà come meglio crede. Non mi pare che qualcuno abbia intenzione di riprenderla se dirà
wok, come lei non si permetterà di riprendere me perché dico
ipso facto, proprio perché, di là dalle indicazioni normative ufficiali (la trasgressione ad una norma grammaticale è un reato depenalizzato da tempo, in Italia), l'arbitrio del singolo è insindacabile.
Se poi è curioso di sapere perché io, che mostro scarsa simpatia per
wok, scriva «ipso facto», glielo chiarisco subito: preferisco di gran lunga le locuzioni latine a quelle inglesi, per ragioni non solo eufoniche, ma anche culturali; studio (e quindi scrivo e pronunzio) il latino quotidianamente, sicché non mi viene per nulla innaturale pronunziare una locuzione latina nella sua veste originaria (ma per inciso le faccio notare che esiste anche l'italiano adattamento
issofatto, che viene incontro alle esigenze di chiunque). Tuttavia – uno scrupoloso osservatore come lei non avrà mancato di notarlo – preferisco, proprio a sottolineare l'estraneità della locuzione alla lingua italiana, scriverla in corsivo. Come vede, queste sono le mie
scelte: non è sulle scelte che qui, vivaddio, si discute: è bene che si discuta, ci si confronti, si leggano pareri (piú o meno) autorevoli, e poi si faccia la propria
scelta, ciascuno secondo i proprî gusti.
Eppure – sarà un caso? – mi accorgo sempre piú spesso (ma badi che questa non è una critica nei suoi confronti, ma una semplice riflessione di carattere generale) che mostrano un certo normativismo pedante e intollerante non coloro che, dietro annose e meditate riflessioni, cercano con raziocinio di scegliere la forma piú acconcia (cioè quella che sembra essere storicamente e logicamente piú attendibile), ma coloro che, al contrario, senza alcuna riflessione sono ancorati a ciò che «va per la maggiore», cioè quello che hanno insegnato certi
idōla scholae perpetratisi nei decenni e quello che insegnano, oggi, la tivvú e i giornali.