In effetti,
secondo la grammatica tradizionale le cose sono piuttosto complicate in virtú della cervellotica [metrico-etimologica, grafomorfologica,
non fonetica] definizione di «
dittongo e iato», e
quindi di «sillaba».
Per questo io, seguendo il Canepàri, preferisco parlare di parole
ultimali (
e.g.,
capitò,
portò),
penultimali (
capíto,
capitàno,
pòrta),
terzultimali (
càpita,
pòrtano),
quartultimali (
càpitano,
dóndolano),
quintultimali (
àpplicagliela) e
sestultimali (
fàbbricamicelo) quando le considero foneticamente, anziché di
tronche (od
ossitone),
piane (o
parossitone),
sdrucciole (o
proparossitone),
bisdrucciole,
trisducciole e
quadrisdrucciole, termini che adopero solo quando intenda riferirmi alla definizione tradizionale di quei concetti.
Quindi,
secondo la grammatica [
e la metrica]
tradizionale (seguo il Serianni), «dittonghi» sono
solo i «dittonghi discendenti» /ai, ɛi, ei, ɔi, oi, ui, au, ɛu, eu/ quando,
ovviamente, l’accento cada sul primo elemento: essi contano per una sola sillaba
a meno che non si trovino in fin d’enunciato (e quindi
anche nelle parole isolate), nel qual caso si ripartiscono in due sillabe.
«Dittonghi» sarebbero anche i cosiddetti «dittonghi ascendenti», cioè le sequenze eterofoniche /ja, jɛ, je, jɔ, jo, ju, wa, wɛ, we, wɔ, wo/, che contano ovviamente per una sola sillaba.
Quanto ai «trittonghi», il loro valore sillabico si deduce facilmente da quelli di cui sopra, ché sono sempre formati da /j/ o /w/ + dittongo discendente, da /jw/ + vocale o da /wj/ + vocale.
Tutte le altre combinazioni vocaliche (o vocalico-semiconsononantiche) sono,
per la grammatica tradizionale, degl’«iati», e quindi si ripartiscono sempre in due o piú sillabe, a seconda dei casi (
ovviamente, ai fini del computo, non si considerano le
i meramente diacritiche o «etimologiche» come,
e.g., in
ciò,
cielo,
maglie,
sogniamo o
scialle).
Un po’ d’esempi:
mai (foneticamente: ultimale, dittongo, una sillaba; tradizionalmente: «dittongo discendente», quindi normalmente una sillaba, ma due in fin d’enunciato e quindi come parola isolata,
ergo «piana»),
mia (foneticamente: ultimale, dittongo, una sillaba; tradizionalmente: «iato», due sillabe,
ergo «piana» anch’essa),
miei (foneticamente: ultimale, approssimante + dittongo, una sillaba; tradizionalmente: «trittongo» formato da /j/ + dittongo discendente, quindi normalmente una sillaba, ma due in fin d’enunciato e quindi come parola isolata,
ergo «piana» anch’essa). Insomma, per la grammatica tradizionale sono «tronche»
solo le parole uscenti in vocale [
singola]
accentata, eventualmente seguita da una coda consonantica:
e.g.,
ciò,
però,
virtú,
piú,
do,
qui,
là,
tradí,
cantiam,
amor.
Bugia (foneticamente: ultimale, dittongo nell’ultima sillaba, disillabica) e
baita (foneticamente: penultimale, dittongo nella prima sillaba, disillabica), come ricordava giustamente Carnby, sono entrambe «piane» secondo la grammatica tradizionale (la prima con un «iato» finale, trisillabica; la seconda con un «dittongo discendente» iniziale,
ergo disillabica), ma… come intuiva opportunamente Ivan, le cose non sono sempre cosí «semplici», ché alcuni «grammatici», in base a criteri meramente grafici, possono arrivare all’abominio di considerare
baita e
Laura «sdrucciole» per «distinguerle» da parole [
sempre «piane» e sempre penultimali] come
aita e
paura, che presentano un vero iato fonetico, e sono quindi trisillabiche anche per la fonetica.
