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È possibile descrivere il mondo attraverso l'italiano
Inviato: lun, 10 mar 2008 14:18
di Ladim
Un titolo che ospita, più o meno grossolanamente, una convinta petitio principii; oppure una domanda che coinvolgerebbe i meccanismi di una retorica ordinatissima e, per certi versi, pregiudiziale; e si tratterebbe di una rivendicazione, ancora uno sfogo impotente che, forse surrettiziamente, vorrebbe offendere quel pessimo razionalismo che c’impone un uso impersonale del linguaggio, facilissimo e superficiale.
Bisognerebbe cominciare a dire che la «lingua» non è un’entità, ma un insieme di regole via via adottate da uno stesso gruppo, e che il suo apprendimento, in realtà, non consisterebbe soltanto nell’imparare a riconoscere le unità lessicali pre-esistenti, ciò che ci precede e che molti prima di noi hanno usato in modo determinato; quanto imparare a pensare e a riflettere attraverso queste unità. Comunicare vorrebbe dire quindi non solo applicare delle regole condivise, ma anche rielaborare parte di queste regole per produrre significati nuovi, intelligenti e finalmente individuali. Un aspetto fondamentale è dunque ricoperto dall’iniziativa intellettuale, dall’identità culturale dell’individuo che impara a manifestare e a conoscere sé stesso attraverso un’intima conoscenza della lingua: un’intimità che si dà soprattutto nella rielaborazione creativa e consapevole. L’apprendimento della lingua, per tanto, vorrebbe proprio questo: l’uso non solo strumentale delle parole, ma anche l’acquisizione di un comportamento morale e intellettuale che renda più responsabile e consapevole il parlante, ovvero l’individuo che pensa per verba (e la conoscenza delle parole, dell’intelligenza di esse – anche e soprattutto quando è spontanea –, è una condizione indispensabile).
Questo, se vogliamo considerare come un valore l’unica libertà che davvero ci può appartenere: quella che altrimenti un animo non laico potrebbe chiamare «spirituale», e che qui risponderebbe comunque ai requisiti di una dignità umana consapevole.
A me pare proprio che l’uso rispettoso, ipertrofico e pedissequo degli anglismi si avvicini troppo a una rozza gestualità, e che poco si discosti da un’indole abbacinata e superficiale: è di sicuro, oggi, il modo meno sorvegliato di esprimersi, che denuncia e promuove a un tempo un conformismo divenuto autorevole.
Il dovere di ognuno, specie degl’intellettuali, sarebbe allora di proporre sempre e comunque una descrizione del mondo che possa implicare un’esperienza sentita e profondamente partecipata, pur lasciando aperte le ipotesi più superficiali, in qualche modo divertite della comunicazione: educare il pensiero e il linguaggio affinché questi possano appropriarsi i concetti per rielaborarli creativamente – se si vuole. Diversamente, imparare un formulario di etichette putativamente prestigiose (e l’uso sociale del linguaggio, per certi versi indispensabile, vìola e consuma l’individualismo) educa il linguaggio a simulare un’attività intellettuale, il pensiero a perdere il sapore delle proprie capacità, la fiducia di poter costruire autonomamente un’identità irripetibile.
Beninteso: non è l’anglismo in sé a comportare questo conformismo, quanto il suo uso, questo sì, vacuamente strumentale e d’effetto. In altre situazioni, qualcuno ebbe a contestare giustamente l’uso pletorico del nostro linguaggio letterario, allora consumato e vuoto, già conforme e privo di vitalità etc. E l’allarme, allora, non è per la lingua. Il coraggio pubblico di rendere intelligente il proprio eloquio, anche se richiedesse una volontà e una capacità onomaturgica non da poco (ma ‘non da poco’ per noi, che viviamo in un nostrano bozzolo linguistico), dovrebbe equivalere a un impegno esattamente intellettuale, solo potenzialmente sociale perché, tutto sommato, ‘oggi’ fin troppo civile.
Tradurre sempre e comunque, cercare di stimolare la fantasia linguistica e quindi la proprietà di linguaggio, togliere l’opacità del linguaggio per far acquisire una maggiore sicurezza nei confronti di sé stessi, promuovere la parola e considerarla come un gesto più efficace, e declassare quindi a gesto rozzo e volgare quella parola che non dice nulla, specie quando domina il comportamento del pensiero: è qualcosa che solo accidentalmente (ma essenzialmente) coinvolge il linguaggio.
Inviato: mer, 12 mar 2008 23:51
di Marco1971
Bellissime e profonde le sue parole, carissimo Ladim (vorremmo avere la gioia di leggerla piú spesso!). Parole d’una sensatezza immane e da me interamente condivise ma, purtroppo, di cui pochi capirebbero l’importanza, proprio per i motivi da lei cosí lucidamente posti in evidenza. Gli stessi intellettuali, gli stessi linguisti (non dico tutti, ma quasi), si lasciano prendere al gioco delle abitudini e alle «regole» oggi di moda (evoluzione a tutti i costi, ecc.). Non vorrei essere pessimista, ma ammetto di non nutrire grandi speranze.
Inviato: gio, 13 mar 2008 10:25
di bubu7
A me l’intervento del caro Ladim mi ha molto deluso.
Questo insistere nel demonizzare gli anglicismi (seppure solo nel loro uso poco consapevole) significa dare troppa importanza ad un effetto marginale rispetto alle cause.
Rilevo anche un appiattimento sul presente e una limitata considerazione della nostra storia linguistica. Guardiamo qual era, ad esempio, la capacità della maggior parte degli italiani di descrivere il mondo in italiano, cinquanta settanta cent’anni fa. Il progresso è incontestabile.
Una lingua è in buona salute principalmente se viene usata dai parlanti. È normale che la lingua si modifichi, si semplifichi, ma si tratta di quelle modificazioni che subisce qualsiasi strumento con l’uso diventando più efficiente. Le antiche chiavi di casa, senz’anima appena uscite dalle mani del fabbro, diventavano lucide e levigate con l’uso, e tristi e arrugginite quando non venivano più impiegate.
La semplificazione non è di per sé un male. Lo diventa se rappresenta un segno di involuzione. E l’involuzione linguistica è un problema culturale che si dovrebbe inserire sempre in quello più ampio della carenza di cultura generale.
Queste periodiche querimonie mi risultano sempre più avvilenti.
Inviato: gio, 13 mar 2008 11:31
di Infarinato
bubu7 ha scritto:A me l’intervento del caro Ladim mi ha molto deluso.
A me, invece, è piaciuto molto, ma bisogna stare attenti a non fraintendere l’àmbito delle considerazioni di Ladim, che sono di natura
estetica.
Per esempio,
esteticamente io aborro una costruzione come la sua: «
a me… mi
ha molto
deluso», che pure è oggi ammessa da quasi tutt’i linguisti, [asetticamente?] fiduciosi nelle «magnifiche sorti e progressive».
bubu7 ha scritto:Rilevo anche un appiattimento sul presente e una limitata considerazione della nostra storia linguistica. Guardiamo qual era, ad esempio, la capacità della maggior parte degli italiani di descrivere il mondo in italiano, cinquanta settanta cent’anni fa. Il progresso è incontestabile.
Questa considerazione si basa s’un [noto] equivoco: non ha senso parlare di «maggior parte degl’italiani», ma bisogna parlare di «maggior parte degl’
italofoni», per i quali l’affermazione è falsa, in quanto «la capacità della maggior parte degl’italofoni di descrivere il mondo in italiano» è [tautologicamente] assoluta. Certo, piú si va indietro nel tempo, piú il numero degl’italofoni si restringe, ma… questo è un altro discorso. Il «male» di ciò —ammesso che di «male» si possa parlare— non è un male «linguistico», e sicuramente esula dall’àmbito di considerazioni di natura estetica.
Inviato: gio, 13 mar 2008 12:39
di bubu7
Infarinato ha scritto: non ha senso parlare di «maggior parte degl’italiani», ma bisogna parlare di «maggior parte degl’italofoni»...
Perché non ha senso, caro
Infarinato?
Era proprio di quello che intendevo parlare: oggi la maggior parte degli italiani descrive il mondo in italiano, a differenza di quanto accadeva cent'anni fa: il bacino dei parlanti si è di molto ingrandito e questo è un bene per la vitalità di una lingua.
Infarinato ha scritto: Per esempio, esteticamente io aborro una costruzione come la sua: «a me… mi ha molto deluso»...
Naturalmente la scelta era studiata per rendere manifesto nella forma quanto ho espresso nella sostanza.

Inviato: gio, 13 mar 2008 15:14
di Marco1971
bubu7 ha scritto:Queste periodiche querimonie mi risultano sempre più avvilenti.
Può sempre avvalersi del diritto di non leggerle.
Se non ci si può sfogare neanche in questa nostra isola felice della lingua...

Inviato: gio, 13 mar 2008 15:30
di bubu7
Marco1971 ha scritto: Può sempre avvalersi del diritto di non leggerle.

Non leggere un intervento di
Ladim?
Non lo dica nemmeno per ischerzo!
Marco1971 ha scritto:Se non ci si può sfogare neanche in questa nostra isola felice della lingua...
Ma certo che ci si può sfogare! ma a mia volta mi avvalgo del diritto di
steccare.

Inviato: gio, 13 mar 2008 17:41
di Marco1971
bubu7 ha scritto:Ma certo che ci si può sfogare! ma a mia volta mi avvalgo del diritto di
steccare.

E il risultato è un po’ simile a un tentativo d’imbavagliamento, e non troppo dissimile da un desiderio, alquanto misterioso, di soffocare – nel tempio stesso della lingua –, tutto quanto non sia in chiave con l’attuale realtà linguistica, insolitamente divinizzata. Ma sarà solo un sentimento mio.
Inviato: ven, 14 mar 2008 11:41
di Ladim
Caro Infarinato, mi permetta di apporre una breve noterella.
Riterrei che la sensibilità estetica sia sempre operante in ogni nostra affermazione; ma ciò sarebbe per ogni affermazione del nostro modo di essere – così una valutazione orientativamente scientifica esclude metodologicamente l'estetica dall'indagine (per vedersela, io credo, rientrare di soppiatto nell'analisi e nella sintesi, ché la 'bellezza' [e il piacere logico gratifica etc.] di un ragionamento è ciò che fa procedere il ragionamento stesso).
Quindi, per questo e per altro, vi è dell'estetico in quel mio pensiero. E tuttavia pensavo soprattutto agli aspetti intellettuali lato sensu, ma intrecciati coll'uso del linguaggio. Vi è una persuasione a monte: quella di possedere la «sostanza» proprio attraverso le consuetudini che guidano l'apprendimento della «forma» – ed escludo immediatamente che l'acquisizione di una forma consuetudinariamente complessa e ricca debba necessariamente comportare una visione del mondo eticamente condivisibile sul piano del contenuto: ciò che questa acquisizione garantirebbe, per così dire, sarebbe proprio la complessità, una certa consapevolezza da parte dell'individuo di riconoscere quegli aspetti umani culturalizzati dalla tradizione e dall'intelletto, questo sì, storicamente determinato.
Non son cose semplici (e il parlarne non implica essere in grado di farlo bene: di questo mi scuso): mi sembrava interessante, però, offrire anche questo spunto, da molti pensato, ma, io credevo, da pochi tematizzato (e questo è per il caro amico bubu7).
Prima di fare punto: un intellettuale ragiona per verba, necessariamente. Un individuo che dialoga con sé stesso (pur non comprendendosi), altrettanto. Lo stesso individuo che ignora sé stesso si abitua a far esperienza di sé in modo acriticamente irriflesso (e qui vi è un assioma: che questa irriflessione è sempre un male, per un essere umano). Un linguaggio, non volutamente «semplice», ma connaturatamente «semplice» offre [slegandosi in «diacronia»] una descrizione del mondo «semplice», ancora troppo superficiale e suscettibile al nulla. E gli anglismi, com'è ovvio, costituiscono solo uno dei moltissimi dominî formali.
Inviato: lun, 17 mar 2008 9:47
di bubu7
Ladim ha scritto: ...ciò che questa acquisizione garantirebbe, per così dire, sarebbe proprio la complessità, una certa consapevolezza da parte dell'individuo di riconoscere quegli aspetti umani culturalizzati dalla tradizione e dall'intelletto, questo sì, storicamente determinato.
Caro
Ladim, escluderei che la consapevolezza delle proprie tradizioni linguistiche si possa raggiungere solo attraverso l’acquisizione di una forma complessa, forma che ne ha permesso l’espressione in passato.
Ladim ha scritto:Lo stesso individuo che ignora sé stesso si abitua a far esperienza di sé in modo acriticamente irriflesso (e qui vi è un assioma: che questa irriflessione è sempre un male, per un essere umano). Un linguaggio, non volutamente «semplice», ma connaturatamente «semplice» offre [slegandosi in «diacronia»] una descrizione del mondo «semplice», ancora troppo superficiale e suscettibile al nulla.
Una descrizione semplice non è necessariamente una descrizione superficiale e potrebbe risultare più efficiente di una descrizione complessa per quanto riguarda la comprensione del messaggio (che è l’obiettivo fondamentale del nostro comunicare). E questa possibile bontà della semplificazione è indipendente dal fatto che quest’ultima sia una scelta cosciente del parlante.
L’irriflessione è sempre un male, sono d’accordo, ma se ci fosse una maggiore irriflessione da parte delle persone (cosa di cui io non sono convinto) ci troveremmo di fronte a un problema squisitamente culturale e non linguistico. Non è l’uso irriflesso di una lingua priva di forestierismi (irriflesso perché promosso da qualche ente istituzionale) o l’uso di una sintassi o di un lessico più complesso (anch’essi acquisiti in maniera automatica) che consentirebbe la diminuzione dell’incoscienza.
L’attitudine a pensare, a chiedersi il perché delle cose, a riflettere sulle proprie scelte, è un problema culturale, è il problema di dotare le persone, i nostri figli, di un metodo, di una particolare disposizione ad affrontare le diverse esperienze della vita.
Inviato: lun, 17 mar 2008 11:20
di Ladim
La complessità sarebbe nella struttura del pensiero (e non nella lingua in sé); e la consuetudine: in un certo uso del linguaggio e nel suo apprendimento – la forma è mezzo con il quale accediamo ai contenuti, e i contenuti sono gli aspetti umanizzati del mondo.
Una realtà complessa (ovvero, osservata in modo complesso) produce un linguaggio complesso: la complessità ci educa a riconoscere le differenze, sottili e variamente comprensibili, ad articolarle in un linguaggio consapevole i cui requisiti non siano soltanto l'effetto espressivistico, le coloriture suggestive e immediate, la presa su un uditorio distratto e atono etc.
La semplicità della forma, ovviamente, può guardare a una notevolissima complessità del pensiero: la semplicità del pensiero e dell'uso (un uso altisonante), seppure espressa in una forma complessa (e l'anglismo di per sé mostra una sua complessità), potrebbe «descrivere» poco e semplicemente perché «vedrebbe» poco e nulla (e il linguaggio, allora, svolgerebbe solo una funzione sociale, esattamente come, il più delle volte, la proprietà e il denaro). Quindi, non semplicità espressiva: se vuole, sarebbero in questione le categorie con cui osserviamo il mondo – e la mia idea è che queste categorie si acquisiscono proprio attraverso l'apprendimento del linguaggio [e viceversa!], in un suo uso determinato (qual è l'uso che la televisione fa degli anglismi, ad esempio? qual è l'uso che ne fa il giornalismo? quali sono le realtà da essi descritte?): anzi, per essere precisi, in determinati contesti, l'anglismo servirebbe solo a sofisticare.
I sottocodici non acclimati coinvolgerebbero un altro aspetto: la perdita di un'abitudine, quella di pensare le 'cose' colla propria lingua etc.
Se noi apprendessimo un linguaggio filosofico per descrivere la sedicente proprietà «pulitiva» di un detersivo (e soltanto questa), non avremmo al riguardo un vero e proprio discorso complesso: le parole, una volta salvati i rapporti di equivalenza e di opposizione, sarebbero 'solo' etichette, e da questo punto di vista un'etichetta non avrebbe più valore di un'altra: la scelta di usare una parola e non un'altra avrebbe un senso culturale senz'altro.
Ma un avvicinamento pragmatico ci direbbe forse che l'uso spregiudicato di alcuni anglismi è accompagnato da un determinato comportamento, da un certo modo di osservare il mondo e di pensare il linguaggio.
Inviato: mar, 18 mar 2008 21:30
di Federico
bubu7 ha scritto:Guardiamo qual era, ad esempio, la capacità della maggior parte degli italiani di descrivere il mondo in italiano, cinquanta settanta cent’anni fa. Il progresso è incontestabile.
Questo se lei considera un valore solo la quantità di persone parlanti l'italiano; ma rispetto alla bella riflessione di Ladim credo che sarebbe piú pertinente chiedersi quale fosse la capacità della maggior parte degli italiani di descrivere il mondo
nella propria lingua, cinquanta settanta cent’anni fa.
(Probabilmente, in media, molto inferiore: non vorremo certo negare l'utilità dell'istruzione pubblica. Ma questo è un altro discorso.)
bubu7 ha scritto:Una descrizione semplice non è necessariamente una descrizione superficiale e potrebbe risultare più efficiente di una descrizione complessa per quanto riguarda la comprensione del messaggio (che è l’obiettivo fondamentale del nostro comunicare).
Lei dà per scontato ciò che scontato non è affatto: lo scopo delle parole è sí comunicare, ma per comunicare ed essere compresi bisogna avere qualcosa da trasmettere; perciò le parole servono prima di tutto a comprendere la realtà, ad astrarre.
Altrimenti, non si vedrebbe differenza fra il nostro linguaggio e quello di un animale, o addirittura di una pianta: che è efficacissimo, perché comunica in modo perfettamente comprensibile e infallibile la presenza di un pericolo ai compagni, permettendo loro di mettersi in salvo – per fare un esempio –.