Della terminologia informatica anglosassone
Inviato: dom, 28 set 2008 0:22
È convinzione diffusa, anche presso molti linguisti d’oggi, che bisogna accogliere tale e quale la terminologia informatica anglosàssone perché le invenzioni in tal campo provengono quasi esclusivamente dagli Stati Uniti. Ecco per esempio quel che si può leggere in questa breve storia della lingua italiana:
Tutta la terminologia dell’informatica è fittamente intessuta di parole inglesi, prestiti o calchi, perché tutta la tecnologia dell’informatica è stata sviluppata lontano dall’Italia: è quindi naturale che il relativo linguaggio settoriale sia di importazione.
Se a prima vista un simile giudizio può sembrare ragionevole, a guardar bene è una visione semplicistica e di comodo. Quasi tutti i termini dell’informatica, in inglese, sono frutto di analogie con la realtà preesistente all’avvento degli ordinatori e della Rete, e solo in pochi casi si tratta di neoconiazioni: file significa ‘fascicolo’ o ‘archivio’, toolbar ‘barra degli strumenti’, thumbnail ‘unghia del pollice’, bookmark ‘segnalibro’, window ‘finestra’, desktop ‘piano di scrivania’, ecc.
Il fatto che un oggetto, come l’ordinatore o elaboratore o calcolatore o computiere, di uso quotidiano in tutto il mondo, sia stato inventato altrove non significa che tutta la nomenclatura a esso legata debba prendersi nella forma originale: non si tratta, infatti, d’un oggetto e d’un’attività indissolubilmente connessi alla realtà locale in cui nacquero, come può essere un piatto tipico o un’usanza folcloristica. Si tratta di realtà ormai in mano al pianeta intero, senza odore o sapore locale. È quindi giusto che ogni lingua si costruisca una terminologia, possibilmente, in linea di massima (e non necessariamente in tutti i casi), in sintonia con le altre lingue sorelle.
Mi si dirà: e la terminologia della musica non è italiana in tutto il mondo? E io risponderò: sí, è vero, è cosí. Ma 1) i termini musicali riguardano i musicisti e non la gente comune; 2) si usano di rado nel parlato e nello scritto quotidiano; e 3) presentano una morfologia che non li rende incompatibili con quella della maggior parte delle lingue di cultura (certamente non contrastano con quella di francese, inglese, portoghese, spagnolo, tedesco e molte altre).
D’altra parte, tornando alla citazione di cui sopra, ci si potrebbe domandare perché alcuni termini vengono tradotti (intestazione e piè di pagina, tastiera, sfondo...) e altri invece no (file, layout, software...): ecco l’incoerenza. O si considera che si riceve il tutto tale e quale, o il tutto viene adattato alle esigenze della lingua degli utenti. Non ci sono scuse del tipo «questa parola è intraducibile», ché tutto è o traducibile o adattabile, e la prova ce l’abbiamo sotto gli occhi guardando quel che succede negli altri paesi europei. Siamo noi a sbagliare.
Tutta la terminologia dell’informatica è fittamente intessuta di parole inglesi, prestiti o calchi, perché tutta la tecnologia dell’informatica è stata sviluppata lontano dall’Italia: è quindi naturale che il relativo linguaggio settoriale sia di importazione.
Se a prima vista un simile giudizio può sembrare ragionevole, a guardar bene è una visione semplicistica e di comodo. Quasi tutti i termini dell’informatica, in inglese, sono frutto di analogie con la realtà preesistente all’avvento degli ordinatori e della Rete, e solo in pochi casi si tratta di neoconiazioni: file significa ‘fascicolo’ o ‘archivio’, toolbar ‘barra degli strumenti’, thumbnail ‘unghia del pollice’, bookmark ‘segnalibro’, window ‘finestra’, desktop ‘piano di scrivania’, ecc.
Il fatto che un oggetto, come l’ordinatore o elaboratore o calcolatore o computiere, di uso quotidiano in tutto il mondo, sia stato inventato altrove non significa che tutta la nomenclatura a esso legata debba prendersi nella forma originale: non si tratta, infatti, d’un oggetto e d’un’attività indissolubilmente connessi alla realtà locale in cui nacquero, come può essere un piatto tipico o un’usanza folcloristica. Si tratta di realtà ormai in mano al pianeta intero, senza odore o sapore locale. È quindi giusto che ogni lingua si costruisca una terminologia, possibilmente, in linea di massima (e non necessariamente in tutti i casi), in sintonia con le altre lingue sorelle.
Mi si dirà: e la terminologia della musica non è italiana in tutto il mondo? E io risponderò: sí, è vero, è cosí. Ma 1) i termini musicali riguardano i musicisti e non la gente comune; 2) si usano di rado nel parlato e nello scritto quotidiano; e 3) presentano una morfologia che non li rende incompatibili con quella della maggior parte delle lingue di cultura (certamente non contrastano con quella di francese, inglese, portoghese, spagnolo, tedesco e molte altre).
D’altra parte, tornando alla citazione di cui sopra, ci si potrebbe domandare perché alcuni termini vengono tradotti (intestazione e piè di pagina, tastiera, sfondo...) e altri invece no (file, layout, software...): ecco l’incoerenza. O si considera che si riceve il tutto tale e quale, o il tutto viene adattato alle esigenze della lingua degli utenti. Non ci sono scuse del tipo «questa parola è intraducibile», ché tutto è o traducibile o adattabile, e la prova ce l’abbiamo sotto gli occhi guardando quel che succede negli altri paesi europei. Siamo noi a sbagliare.