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L'inglese, la linguistica e il livello del colesterolo

Inviato: ven, 09 gen 2009 20:26
di Freelancer
La nuova edizione (2008) del libro Inglese-italiano 1 a 1 di Giovanardi - Gualdo- Cuoco si presenta leggermente ampliata, con qualche nuovo riferimento bibliografico tra cui, segnala nel Capitolo 1 Claudio Giovanardi, un articolo del linguista Pier Marco Bertinetto, presentato al convegno internazionale Lingua italiana e scienza tenutosi a Firenze presso l'Accademia della Crusca dal 6 all'8 febbraio 2003 "(e di cui, colpevolmente, non sono stati ancora pubblicati gli Atti)".

Scrive Giovanardi:
Proprio in quell'occasione si è avuto un interessante intervento di Pier Marco Bertinetto [...]. Il contributo di Bertinetto contiene alcune affermazioni sorprendenti per chi conosce la biografia intellettuale di tale studioso. Egli [...] afferma che "non dobbiamo avere paura di ammettere che esistono anche prestiti che impoveriscono la lingua" dal momento che intere serie sinonimiche italiane vengono atrofizzate dall'uso del solo vocabolo inglese;[...]
Per chi voglia leggerlo e anche scaricarlo, l'articolo è qui.

Aggiungo anche che mi ha colpito, perché non ci avevo mai pensato, un'osservazione di Paolo D'Achille, contenuta nell'articolo (che ancora non ho) L'invariabilità dei nomi nell'italiano contemporaneo e riportata nel Capitolo 2 da Alessandra Coco, che non so quanto potrà piacere a Marco:
Sempre a proposito del plurale, D'Achille (2005, p. 206) si sofferma sugli esotismi terminanti per vocale, rilevando che "i forestierismi uscenti in vocale, che apparentemente si inseriscono senza problemi nel nostro sistema fonomorfologico, si rivelano in realtà più 'pericolosi' di quelli terminanti in consonante, su cui invece si è concentrata l'attenzione di linguisti e non linguisti". La ragione è che tali prestiti (come bikini, euro, golpe, guru) vanno ad arricchire, a scapito delle classi flessive italiane, la classe in progressiva crescita degli invariabili del tipo bici, biro, caffè, foto, kamikaze, panda.

Inviato: ven, 09 gen 2009 21:52
di Marco1971
Bisognerebbe che d’Achille ci spiegasse perché l’accrescersi di parole invariabili terminanti in vocale sia «pericoloso»... :? Mi sembra un’idea alquanto eccentrica... tanto piú che per molte di queste parole c’è oscillazione con la forma flessa e che non c’è motivo, specie per le terminazioni in -o e -e, di fare un plurale regolare (vedi, ad esempio, i gazebi).

Re: L'inglese, la linguistica e il livello del colesterolo

Inviato: mer, 21 gen 2009 22:58
di Teo
Freelancer ha scritto:La nuova edizione (2008) del libro Inglese-italiano 1 a 1 di Giovanardi - Gualdo- Cuoco si presenta leggermente ampliata, con qualche nuovo riferimento bibliografico tra cui, segnala nel Capitolo 1 Claudio Giovanardi, un articolo del linguista Pier Marco Bertinetto…
Davvero ottimo l'articolo di Bertinetto, tanto più che proviene da uno studioso di linguistica serio e certo immune da rigurgiti puristi.

Inviato: gio, 22 gen 2009 0:43
di Marco1971
Ma che cosa dice di cosí rivoluzionario tale articolo? Possiamo saperlo? E che cosa significa «studioso di linguistica serio e certo immune da rigurgiti puristi»?

Inviato: gio, 22 gen 2009 1:57
di Freelancer
I due qualificativi finora presentati a commento dell'articolo sono "interessante" e "ottimo". Nessuno ha detto "rivoluzionario"...
:wink:

Inviato: dom, 25 gen 2009 13:46
di Teo
Marco1971 ha scritto:Ma che cosa dice di cosí rivoluzionario tale articolo? Possiamo saperlo? E che cosa significa «studioso di linguistica serio e certo immune da rigurgiti puristi»?
Dal mio punto di vista vuol dire semplicemente che si tratta di uno studioso che ha scritto libri e articoli su riviste specializzate accolti dalla comunità scientifica internazionale come contributi originali e di alto livello scientifico.
Cosa che non si può certo dire di molti dispensatori di consigli linguistici che imperversano o hanno imperversato nelle rubriche di vari quotidiani e gazzette.
Ad esempio lo stesso Aldo Gabrielli non era certo un vero linguista (non risulta che abbia mai scritto articoli per riviste specializzate né che avesse alcuna competenza di linguistica contemporanea: non ha mai citato non dico Chomsky, ma neanche Martinet o perfino Bréal), ma un dilettante dotato di un certo ingegno e di un certo garbo, che però non gli impedivano di assumere talora risibili posizioni fondamentaliste (soprattutto quando tuonava contro i francesisimi adattati, come "funzionare" o "controllare").

Inviato: dom, 25 gen 2009 14:28
di Marco1971
Io mi domando, caro Teo, se i linguisti contemporanei, pur scrivendo su riviste specializzate, non abbiano perso di vista l’aspetto piú profondo delle lingue, la loro essenza, il loro valore culturale, per sprofondare negli abissi microcosmici di analisi clorate, in cui ciò che importa non è piú il senso ma l’astrattezza della forma nel suo scapigliato divenire.

Aldo Gabrielli (e altri) non sarà stato un «vero» linguista, avrà anche esagerato in certe sue considerazioni puristiche, ma in compenso mi sembra che abbia portato alla gente una cosa mille e mille volte piú importante e valevole delle odierne dissezioni linguistiche: l’amore per il proprio idioma e il senso del buon gusto.

Inviato: dom, 25 gen 2009 15:09
di Marco1971
Vorrei inoltre ricordare questo passo dello Jespersen, citato dal Migliorini e ripreso dal Castellani (nell’articolo qui gentilmente messoci a disposizione da Freelancer):

Sono fermamente convinto che i dotti non debbano contentarsi di stare passivamente a guardare, ma che debbano prendere parte attiva, ciascuno nel proprio paese, a quelle azioni che stanno modificando le condizioni linguistiche, se è possibile migliorandole. Troppa parte è lasciata in queste azioni a dilettanti ignari: è un fatto ben noto che non c’è campo delle conoscenze umane in cui il primo venuto creda d’aver maggior titolo ad esprimere senza studio scientifico una propria opinione che nelle questioni concernenti la lingua materna: quando si discute sulla grafia o sulla pronunzia o sulla flessione o sull’uso di un termine, egli ha bell’e pronta una risposta, che per lo più non è che un ricordo sbagliato di quello che ha imparato a scuola da maestri indotti. Quelli che si sono seriamente occupati delle lingue e del loro sviluppo non debbono tenersi estranei a tali discussioni, ma debbono usare le loro conoscenze a beneficio della propria lingua: altrimenti c’è rischio che essa sia danneggiata dall’influenza conscia di altri che non hanno conoscenze sufficienti per far da guida in questo campo.

“Sottoscrivo a due mani alle parole dello Jespersen”, dice Bruno Migliorini nell’“Arch. glott. it.” del 1935 (p. 33, n. 3). Anch’io: i linguisti italiani, o quei linguisti italiani che amino l’italiano – e ce ne sono –, dovrebbero, quando si tratta di modificare a livello conscio la situazione esistente, sia pure in minimi particolari o nella scelta d’un solo vocabolo, presentarsi e agire come addetti ai lavori, e non lasciare che fisici, ingegneri, biologi, economisti, burocrati e agenti pubblicitari decidano di cose a loro ignote, facendo poi ratificare la decisione ai giornalisti. La glottotecnica miglioriniana, tenuta a battesimo nel 1942, è conseguenza e traduzione in un programma concreto del monito dello Jespersen; monito che mi sembra, oggi, più attuale che mai: ricordiamoci che siamo responsabili.