«Nel senso»
Inviato: lun, 27 lug 2009 17:44
Ahimè, più rara è la mia frequentazione di questo forum benemerito, e tuttavia così pervasive le questioni della lingua che il pensiero spesso precorre gli spazi virtuali e guarda a codesta accoglienza come a un momento peculiare (anche rilassato) di riflessione linguistica.
Un evento si segnala soltanto dopo una certa concomitanza di altri fatti minori, che comportano, in chi nota, dapprima un determinato stato d’animo, l’impressione che qualcosa si stia ripetendo, e che questa ripetizione ammetta, quando non la chiede, un’interpretazione; infine una volontà e una domanda, con l’esigenza di trovare una risposta. Spesso in questa risposta riformuliamo una parte di «noi», ovvero riorganizziamo un aspetto complesso del reale che ci riguarda, un’idea pre-esistente che svela la propria natura in ‘questa’ come in tante altre immagini (intellettuali, culturali, sociali etc.) del nostro «mondo».
Così, anni fa, qualcuno riferì l’imperante uso giovanile di una certa congiunzione, guardandone il significato, la valenza semantica e sintattica, attraverso uno sguardo esperto e divertito, volto a una certa temperie storica e culturale: una piccola tessera linguistica divenne più di una congiunzione, più di un nesso testuale esplicativo – un vessillo, un elemento ricorrente di un tutto infinitamente complesso assurto a specimen, un modo per comprendere un periodo storico e una certa sensibilità sociale, un ‘correlativo linguistico’ di un sotto-movimento culturale. Peraltro il paradosso era evidente: una volta pronunciata, questa congiunzione esplicava ben poco, dichiarava anche meno, il locutore incespicava ed esitava, e la proiezione fonetica di quella parola procrastinava ad libitum un contenuto che soltanto sintatticamente era pensato come acquisito e certo. Sembrava che tutta la gioventù inclinasse alla 'ragione', ovvero fosse mossa dall’impulso di voler spiegare. Vi era un bisogno, linguisticamente affermato, di chiarire, di levare le pieghe, di appianare. La presa di parola, l’articolazione del discorso, la fine di un pensiero, tutto era scandito da quel vizietto oratorio, che l’incredulo spettatore (direi un non-utente) prendeva per quello che era: un connettore testuale, una parola vuota, usata a sproposito (se non pragmaticamente). Ma la posizione di chi vedeva in quell’abuso un simbolo generazionale ribadiva la certezza ontologica – ignota all’individuo e proprio per questo da lui vissuta – che esigeva unicamente di essere ripetuta senz’altro dal maggior numero possibile di soggetti ‘pensanti’. L’incertezza individuale era annullata dalla certezza immaginata e percepita. Il dato assoluto dominava l’eloquio di un’intera popolazione e si materializzava in una volontà chiarificatrice, spersonalizzata e assente, afasicamente riformulante. Il risultato: una vasta e più o meno trasversale comunità di parlanti rinsaldata dalla convinzione di dover dichiarare «qualcosa». Nulla più: ché il «qualcosa» sfuggiva ostinatamente (parlo del frequente e ormai dimenticato cioè degli anni Ottanta del secolo scorso).
Qualche anno fa, poi, si ribadiva il volere di un dire ancora pieno di sé. L’opinione, per essere accolta, doveva accompagnarsi a una volontà reiterata a ogni sospensione argomentativa. «Voglio dire… voglio dire…». Anche qui si muove da un dato acquisito, ma in ultima analisi individuale, inserito in un contesto determinato, un hic et nunc modulato in quell’indicativo presente che soltanto nell’apparenza era meno berciante del suo più umile predecessore.
Oggi, invece?! Oggi sembra che si debba fare i conti con una natura di senso opposto. Alla certezza dichiarante calata nell’incertezza individuale, e alla chiara volontà di poter affermare «qualcosa», risponde un dubbio complessivo pronto a offrire un ventaglio pressoché infinito di significati. Un discorso, ancorché elementare e meccanico, può richiedere una breve e istantanea consultazione semantica sulla portata di un detto [tuttavia] apodittico: il cortese suggerimento, ad esempio, di un panettiere sottopone al parlante il dubbio che l’interlocutore non abbia colto il «senso» ‘giusto’ di ciò che si è appena detto: meglio avvertire! «Le suggerisco questo… che è più buono… nel senso…!». Ma l’avvertimento suona vuoto, testualmente asservito, senza contenuto. Si sa soltanto che quel «senso» in particolare emerge da una congerie di semi e sememi, semantemi e significati (e a un uso che ridimensiona il già detto, come quello del panettiere, ve ne è uno propedeutico di un giovane dipendente delle poste impegnato a illustrare l’ultimo servizio di consegna espressa: «Nel senso: se vuole far recapitare un documento… etc.»).
La concomitanza è nelle opportunità in cui può manifestarsi il vezzo linguistico, qui divenuto una personificazione carente in corpo (di un sentimento civile, culturale, forse anche filosofico). Il panettiere; il ragazzo della posta; il figlio cresciuto di un caro amico… Tutti sembrano domandarsi quale «senso», o meglio, «in» quale «senso» un detto debba essere valutato e compreso, anche e soprattutto (forse esclusivamente) per le affermazioni più elementari e inequivocabili.
Lo noto solo ora, e forse è un fenomeno urbano, di quartiere, o di lungo corso: si accusino, eventualmente, le «concomitanze» dell’ultima settimana.
Un evento si segnala soltanto dopo una certa concomitanza di altri fatti minori, che comportano, in chi nota, dapprima un determinato stato d’animo, l’impressione che qualcosa si stia ripetendo, e che questa ripetizione ammetta, quando non la chiede, un’interpretazione; infine una volontà e una domanda, con l’esigenza di trovare una risposta. Spesso in questa risposta riformuliamo una parte di «noi», ovvero riorganizziamo un aspetto complesso del reale che ci riguarda, un’idea pre-esistente che svela la propria natura in ‘questa’ come in tante altre immagini (intellettuali, culturali, sociali etc.) del nostro «mondo».
Così, anni fa, qualcuno riferì l’imperante uso giovanile di una certa congiunzione, guardandone il significato, la valenza semantica e sintattica, attraverso uno sguardo esperto e divertito, volto a una certa temperie storica e culturale: una piccola tessera linguistica divenne più di una congiunzione, più di un nesso testuale esplicativo – un vessillo, un elemento ricorrente di un tutto infinitamente complesso assurto a specimen, un modo per comprendere un periodo storico e una certa sensibilità sociale, un ‘correlativo linguistico’ di un sotto-movimento culturale. Peraltro il paradosso era evidente: una volta pronunciata, questa congiunzione esplicava ben poco, dichiarava anche meno, il locutore incespicava ed esitava, e la proiezione fonetica di quella parola procrastinava ad libitum un contenuto che soltanto sintatticamente era pensato come acquisito e certo. Sembrava che tutta la gioventù inclinasse alla 'ragione', ovvero fosse mossa dall’impulso di voler spiegare. Vi era un bisogno, linguisticamente affermato, di chiarire, di levare le pieghe, di appianare. La presa di parola, l’articolazione del discorso, la fine di un pensiero, tutto era scandito da quel vizietto oratorio, che l’incredulo spettatore (direi un non-utente) prendeva per quello che era: un connettore testuale, una parola vuota, usata a sproposito (se non pragmaticamente). Ma la posizione di chi vedeva in quell’abuso un simbolo generazionale ribadiva la certezza ontologica – ignota all’individuo e proprio per questo da lui vissuta – che esigeva unicamente di essere ripetuta senz’altro dal maggior numero possibile di soggetti ‘pensanti’. L’incertezza individuale era annullata dalla certezza immaginata e percepita. Il dato assoluto dominava l’eloquio di un’intera popolazione e si materializzava in una volontà chiarificatrice, spersonalizzata e assente, afasicamente riformulante. Il risultato: una vasta e più o meno trasversale comunità di parlanti rinsaldata dalla convinzione di dover dichiarare «qualcosa». Nulla più: ché il «qualcosa» sfuggiva ostinatamente (parlo del frequente e ormai dimenticato cioè degli anni Ottanta del secolo scorso).
Qualche anno fa, poi, si ribadiva il volere di un dire ancora pieno di sé. L’opinione, per essere accolta, doveva accompagnarsi a una volontà reiterata a ogni sospensione argomentativa. «Voglio dire… voglio dire…». Anche qui si muove da un dato acquisito, ma in ultima analisi individuale, inserito in un contesto determinato, un hic et nunc modulato in quell’indicativo presente che soltanto nell’apparenza era meno berciante del suo più umile predecessore.
Oggi, invece?! Oggi sembra che si debba fare i conti con una natura di senso opposto. Alla certezza dichiarante calata nell’incertezza individuale, e alla chiara volontà di poter affermare «qualcosa», risponde un dubbio complessivo pronto a offrire un ventaglio pressoché infinito di significati. Un discorso, ancorché elementare e meccanico, può richiedere una breve e istantanea consultazione semantica sulla portata di un detto [tuttavia] apodittico: il cortese suggerimento, ad esempio, di un panettiere sottopone al parlante il dubbio che l’interlocutore non abbia colto il «senso» ‘giusto’ di ciò che si è appena detto: meglio avvertire! «Le suggerisco questo… che è più buono… nel senso…!». Ma l’avvertimento suona vuoto, testualmente asservito, senza contenuto. Si sa soltanto che quel «senso» in particolare emerge da una congerie di semi e sememi, semantemi e significati (e a un uso che ridimensiona il già detto, come quello del panettiere, ve ne è uno propedeutico di un giovane dipendente delle poste impegnato a illustrare l’ultimo servizio di consegna espressa: «Nel senso: se vuole far recapitare un documento… etc.»).
La concomitanza è nelle opportunità in cui può manifestarsi il vezzo linguistico, qui divenuto una personificazione carente in corpo (di un sentimento civile, culturale, forse anche filosofico). Il panettiere; il ragazzo della posta; il figlio cresciuto di un caro amico… Tutti sembrano domandarsi quale «senso», o meglio, «in» quale «senso» un detto debba essere valutato e compreso, anche e soprattutto (forse esclusivamente) per le affermazioni più elementari e inequivocabili.
Lo noto solo ora, e forse è un fenomeno urbano, di quartiere, o di lungo corso: si accusino, eventualmente, le «concomitanze» dell’ultima settimana.