Cenni di storia della lingua italiana
Inviato: dom, 02 apr 2006 13:59
Propongo qui la lettura in tre parti dei Cenni di storia della lingua italiana (parzialmente adattati dal Profilo di Storia Linguistica Italiana del Devoto), che compaiono all’inizio del Nuovo Vocabolario Illustrato della Lingua Italiana in due volumi di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli (Milano, Selezione dal Reader’s Digest, 1987), per dare a chiunque sia interessato la possibilità di conoscere le tappe fondamentali dell’evoluzione della nostra lingua, e eventualmente di stimolare l’approfondimento personale.
N.B. La trascrizione è fedele al testo, con le sue eventuali incongruenze, ma ho messo gli accenti acuti su i e u, per abitudine digitatoria.
N.B. La trascrizione è fedele al testo, con le sue eventuali incongruenze, ma ho messo gli accenti acuti su i e u, per abitudine digitatoria.
CENNI DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA
Con la fine dell’organizzazione politica ed economica dell’impero romano, il latino si scinde in tante minuscole unità quanto sono le comunità. Ma tutti sono convinti di continuare a parlare latino, anche se i pochi che scrivono lo scrivono in modo sempre piú sgrammaticato. Questo stato di cose dura tre secoli, fino a Carlo Magno. La ripresa dell’insegnamento scolastico restituisce un certo ordine alla lingua scritta, ma rivela anche a tutti la distanza che la separa da quella parlata. Il Concilio di Tours (IX secolo) in Francia impone ai preti di predicare in volgare. Anche in Italia, col IX secolo, si può affermare che esiste la lingua italiana, anzi: tante lingue italiane.
MONTE CASSINO
Nell’archivio della Badia di Monte Cassino è conservata una serie di sentenze emesse da giudici, dette «placiti cassinesi», che risalgono a circa il 960: in esse la lingua volgare è assunta non come manifestazione lirica o giocosa, ma come verbale di una testimonianza. Uno di questi dice:
Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.
Essa è evidentemente volgare, non latina. Ma quando si dice ‘volgare’ si potrebbe credere che rispecchiasse il risultato della frantumazione del latino, quale si era compiuta in Campania. Viceversa questi testi contengono sia una base popolare, regionale (come può essere nella forma kelle terre), sia alcuni elementi superiori e per cosí dire sovrapposti. Uno di questi (parte Sancti Benedicti, senza l’articolo) è latinismo, come fini invece di ‘confini’. L’altro, importantissimo, è un elemento interregionale: la forma sao per ‘so’ (in confronto della forma moderna saccio e del latino sapio) è qualcosa di sovrapposto, di venuto di fuori, di non definitivo; essa mostra nel testo volgare, accanto all’aspetto popolare istintivo, un elemento elevato e non regionale, italiano e non latino, giunto in Campania seguendo itinerarî di Longobardi e di Franchi.
La differenza che separa il regionalismo dal latinismo consiste in questo, che il latinismo è un resto, superstite al processo di frantumazione, mentre il regionalismo è una novità, è il sintomo di un processo di ricostruzione.
Vi era stato un processo recente di differenziazione linguistica, ed ora il volgare, rispondendo alle esigenze istintive della società, mostrava capacità di ripresa, di livellamento, di comunione. Da tribunali, chiese e scuole si diffondevano, per aree piú vaste, forme e pronunce costanti. Da questi passi incerti potrà svilupparsi una tradizione di lingua usuale nuova, con caratteri intermedî, per il momento, fra la letterarietà della lingua latina e la familiarità, l’espressività della lingua locale.
LA SICILIA DI FEDERICO II
Di fronte alle resistenze vitali, giustificate, bene organizzate, della tradizione latina, il successo e l’espansione del volgare erano condizionati, se non a una voluta organizzazione consapevole, al concorso di circostanze favorevoli. Occorreva che esistesse un ambiente di cultura appoggiato a una unità amministrativa abbastanza vasta, già aperto a forme d’arte non latine, pronto ad assumere il patrocinio del volgare come una manifestazione ovvia del proprio ambiente storico-culturale.
Queste condizioni si verificano in Sicilia.
Già durante la monarchia normanna (sec. XII) all’assestamento politico si accompagna una fioritura artistica di scultura e di architettura. Quando la monarchia da normanna si trasforma in sveva, agli inizi del XIII secolo, fu completa anche la fioritura letteraria. Questa trae vantaggio dal maggiore spazio vitale, che interessa gran parte dell’Italia meridionale, e, per la stessa natura imperiale della casa, la lega, verso settentrione, a tutta la vita italiana. Pier delle Vigne (1190-1249) è il simbolo di questa unità: nato a Capua, educato a Bologna, diventa ministro di Federico II.
Sulle orme dell’espansione sveva, la lingua poetica siciliana, cólta e aperta a sua volta a molteplici influssi culturali, perde presto, se pure li ha mai avuti, i tratti caratteristici di un’area ben determinata e fa dell’Italia peninsulare un terreno d’incontro spontaneo. Ma la morte di Federico II (1250) fa entrare in crisi la monarchia sveva, e alla lingua poetica siciliana viene a mancare l’appoggio necessario ad una ulteriore espansione.
DANTE
Con Guido Guinizelli (n. 1230 o 1240 – m. 1276) comincia una tradizione di lingua poetica, inquadrata in una visione della vita, che costituisce un ciclo nuovo rispetto a quello della tradizione siciliana. Questa tradizione è detta del «dolce stil nuovo». La sua discendenza poetica è tutta toscana e assume aspetti caratteristici presso i diversi autori.
Tecnico di questa lingua, fondata soprattutto sul ritegno e l’eliminazione di ogni volgarità, fu Dante. Egli afferma la dignità del volgare, nobilior ‘piú nobile’ della lingua letteraria, perché questa è il risultato di uno sforzo di apprendimento non adatto a tutti, mentre quello lo apprendiamo dalla nutrice.
Il processo di concentrazione dialettale ormai in atto fa sí che egli riconosca quattordici grandi volgari italiani, all’interno dei quali naturalmente persistono varietà minori, a centinaia e centinaia, persino all’interno di una stessa città come Bologna. La divisione è essenzialmente geografica, fondata sulla catena appenninica, per cui il lombardo e l’apulo di oriente sono messi sotto una stessa categoria (Italia di sinistra), il ligure e il romano sotto un’altra (Italia di destra).
Sensibile ai molteplici aspetti della lingua, Dante distingue gli impieghi del volgare nelle tre categorie dell’illustre (canzone e tragedia) mezzano (ballata e commedia) umile (elegia). E indagando sulla «costruzione» e sul «vocabolario» del volgare illustre, la sua tesi appare come non lontana dalla ciceroniana, per la quale si tratta essenzialmente di eliminare scorie locali, per stendere il tutto secondo un minimo di artificio.
Questo volgare «illustre» è stato visto da taluno come una realtà. Dante ha voluto esporre piuttosto un ideale. La dottrina del De vulgari eloquentia, nelle sue facce, cosí diverse, delle osservazioni sulla lingua viva e degli astratti ideali di distinzione, non ebbe infatti efficacia determinante, nemmeno per lo stesso Dante. La Divina Comedia, in base alla dottrina, avrebbe dovuto essere scritta in stile «mezzano» o anche «umile». Sta di fatto che essa è scritta in tutti gli stili, non solo perché altra è l’atmosfera dell’Inferno, altra quella del Paradiso, ma anche perché, all’interno di una stessa cantica, abbiamo situazioni espressive che non rientrano negli schemi linguistici elaborati da Dante.
Ma la Divina Comedia non risponde nemmeno alle esigenze di una sia pur temperata attenuazione dialettale. Anche se «Comedia» e non «Tragedia», pare strano che proprio vi si trovino esempi rimproverati nel De vulgari eloquentia e già da lui giudicati sufficienti per spogliare del loro vanto i volgari municipali dei toscani.
Comunque, è stato provato che il fondamento della lingua della Divina Comedia è il dialetto fiorentino: ci sono dei latinismi, ma non arrivano a cinquecento; ci sono gallicismi (poche decine), settentrionalismi e meridionalismi (poche unità).
Le proporzioni sono tali che non incrinano la compattezza fiorentina di quella lingua poetica. Del resto, difficilmente sussiste nella storia una corrispondenza automatica fra una teoria grammaticale e una prassi linguistica; né Dante ha dato altrove la prova di ciò che egli intende realizzare come volgare «illustre», illustre da ogni punto di vista.
Se avesse pensato all’avvenire, all’opportunità o al desiderio di avere dei continuatori, si sarebbe reso subito conto che la sua realizzazione fiorentina non teneva conto né del passato né dell’avvenire in quanto questo fosse prevedibile. Per questo fa tanto maggiore impressione la fortuna storica della Divina Comedia come testo esemplare, come capostipite di una tradizione di lingua letteraria italiana.
PETRARCA
Oltre che a fattori di ordine politico, geografico e funzionale, l’affermazione linguistica fiorentina fu dovuta a fattori positivi che hanno moltiplicato il prestigio e la forza di penetrazione dei modelli danteschi. Il primo di questi si identifica in una persona, il Petrarca (1304-1374). Alla giovane tradizione fiorentina egli aderisce, non già istintivamente come il fiorentino Dante, ma attraverso processi di riflessione e di scelta, per i quali essa rapidamente matura.
Questa altezza del volgare si inquadra in una spontaneità e intimità del latino che, in un uomo come il Petrarca, adempie ancora al compito di lingua dell’uso, all’interno del suo tecnicismo di lavoratore della penna.
Per ripetere due giudizi ormai classici, di fronte a Dante che «crea sovente una lingua nuova», il Petrarca «sa scegliere... le piú eleganti e melodiose parole e frasi» secondo il Foscolo; «fu... atto come nessun altro a raggentilire una lingua e una poesia» secondo il De Sanctis.
Ma proprio perché fu sensibile e seppe scegliere e correggere con cura, il Petrarca si avvicinò a modelli formali assai diversi, nel tempo e nello spazio, da lui. E la cura e il culto della parola, e il preziosismo indiretto che ne consegue, gli danno un posto non soltanto nello svolgersi della storia linguistica posteriore a Dante, ma anche in quelle realizzazioni tendenti all’artificioso, che piú e piú imitatori dovevano avere anche secoli dopo.
BOCCACCIO
Per quello che riguarda la prosa, Dante teorizzò nel Convivio. Le sue definizioni, a proposito del volgare, sulla «agevolezza delle sue sillabe, le proprietadi delle sue costruzioni, e le soavi operazioni che di lui si fanno» mostrano la partecipazione costruttiva del gusto. Naturalmente, i fatti hanno preceduto la teoria, e l’istinto il ragionamento. Dante non si rende ancora conto della distanza che passa tra un prosatore medievale e uno classico, pure usando un periodare italiano sufficientemente maturo per apparire ispirato da modelli classici. Solo il Petrarca si rende conto di questo anche in teoria.
Come si notano differenze fra i testi letterarî del due e del trecento, cosí avviene anche in quelli piú popolari della lingua dell’uso di professionisti e notai. I testi del secolo XIV sono ricchi anch’essi di barbarismi toscani. Ma il loro significato è diverso. Si tratta dell’allargamento dello spazio vitale fiorentino, che assorbe nella sua orbita spazi sempre piú ampi, e quindi amanuensi di origine piú eterogenea. Contemporaneamente si diffondono per la Toscana modelli fiorentini.
Queste esercitazioni e queste innovazioni sarebbero forse rimaste chiuse nel loro alveo, percorrendo una strada piú lenta e comunque distinta dalle lingue poetiche, se non le avesse coltivate, assimilate e per cosí dire rese viventi, Giovanni Boccaccio (1313-1375).
Il Boccaccio del Decamerone è il terzo grande puntello sul quale la lingua letteraria italiana si afferma, definitivamente atta a tutte le esigenze, e il modello dantesco si completa.
LINGUA «TOSCANA»
Questo non toglie che l’affermazione generale della lingua poetica, proprio perché piú appartata e staccata dalla lingua dell’uso, sia piú rapida che non quella della prosa.
L’espansione della lingua poetica è un processo abbastanza semplice, connesso in gran parte con la diffusione della conoscenza del Petrarca. Ma, per la prosa, l’espansione della lingua toscana non si lascia riassumere nell’immagine militaresca di resistenze omogenee da superare o da travolgere. Anche nelle regioni settentrionali il toscano si doveva imporre non tanto come la sola forma di lingua scritta, quanto come una lingua letteraria di maggior prestigio, di fronte ad altri aspiranti.
Esso fu aiutato dalle corti e dai centri di cultura che intorno a quelle si andavano formando: Ferrara, Mantova, Milano al nord, Urbino e Roma al centro.
Intanto un nuovo fattore di unità linguistica era entrato in gioco prima ancora della fine del sec. XV: l’invenzione della stampa. Nel 1470 si ebbe la prima Bibbia, succedettero rapidamente tre edizioni della Comedia di Dante, del Decamerone e del Canzoniere petrarchesco.
La facilità che ne derivava alla presentazione dei libri e alla loro moltiplicazione tagliò le radici alle discussioni troppo aristocratiche sulle questioni di lingua.