Linguistica d’oggi e civiltà
Inviato: dom, 03 lug 2011 23:23
Assistiamo oggi a un fenomeno non certo dissimile da quanto è sempre avvenuto: il parlante nativo cresce in un ambiente linguistico attraverso il quale assorbe la realtà che lo circonda, e cosí la lingua, per ognuno, costituisce qualcosa di molto intimo, personale, sacro e intoccabile: lo strumento col quale s’è conosciuto – e si continua a conoscere – il mondo.
Si spiegano in tal modo, ad esempio, gli interventi-meteora, soprattutto giovanili, di chi, essendo da sempre avvezzo a dire computer o online o manager o password, ritiene ridicola (o buffa o stravagante, ecc.) la sostituzione con parole italiane
Si spiegano in tal modo, ad esempio, gli interventi-meteora, soprattutto giovanili, di chi, essendo da sempre avvezzo a dire computer o online o manager o password, ritiene ridicola (o buffa o stravagante, ecc.) la sostituzione con parole italiane
esistenti. Il sentimento è puro e anche giusto, sennonché, se privo di riflessione, rimane, appunto, un sentimento, quindi un elemento soggettivo che non può valere come argomento, o almeno non a tutti gli effetti. Confrontati come siamo con una società in massima parte costituita da parlanti che sulla lingua sovente non sono chiamati a riflettere, ma che, come i locutori di qualsiasi lingua, la usano spontaneamente ogni giorno, risulta molto difficile non solo sperare in un miglioramento delle condizioni linguistiche ma anche aspettarsi una discussione costruttiva su tale argomento. Fin qui, non credo che ci sia nulla di strano; anzi, in questo mi sembra che l’Italia non si differenzi dalle altre nazioni europee. La differenza risiede, a parer mio, in questo (oltreché nella mancanza d’un organo normalizzante): i linguisti di vasta e profonda cultura scarseggiano in Italia, e quei pochi che (io, personalmente) considero all’altezza del compito loro affidato vengono spesso reputati «attardati», perché «la lingua cambia, si evolve». Ed è tutto vero, nulla da ridire. O quasi: se per sua natura la lingua muta nel tempo, ciò non significa che qualsiasi mutamento, solo in quanto tale, sia cosa feconda; tutto andrebbe esaminato in maniera critica. Ho l’impressione, forse sbagliata, che invece oggi manchi questo spirito critico nei confronti del divenire linguistico, che dovrebbe essere una responsabilità civica da parte di chi la lingua studia per mestiere. Sarà conseguenza della grande indifferenza generale che caratterizza la nostra epoca: conta ormai, in e su tutto, il solo successo personale, al quale per forza bisogna giungere, costi quel che costi, anche l’altrui insuccesso. Sembra venuta meno, o relegata in secondo piano, una componente essenziale della grandezza di vivere: l’amore. L’amore in tutti i sensi. In particolare, si crede erroneamente che amando non si possa avere rigore scientifico, come se ci fosse una gerarchia o un approccio al sapere a compartimenti stagni. Direi di piú, col divinizzare lo studio solamente acritico, ci si avvia verso una civiltà incapace di prendere decisioni d’interesse comune. Dove sono i linguisti che amano l’italiano? Ma soprattutto, che cosa significa amare la propria lingua? Secondo me, vuol dire rispettarla, cosa che non si può fare senza conoscerne in modo approfondito tutta la storia, con la quale ineluttabilmente e sempre dobbiamo far i conti; significa anche apprezzarne la bellezza, in maniera sensuosa e sensuale, assaporarla, come un buon frutto che riempia la bocca, nella sua polposa sostanza; vuol dire, infine, essere consapevoli di contribuire, in modo indiretto e nelle cose piú piccole, alla scrittura stessa della sua storia. Ne siamo tutti consci? Ci hanno riflettuto i linguisti, sempre pronti ad avallare la prima novità? Questo atteggiamento da fotografi, questa ossessione di descrittivismo inaccompagnato dalla riflessione e dal buon senso mi lascia molto perplesso. Mi rendo ben conto di non aver detto nulla di nuovo, ma desideravo lasciare questo messaggio anche solo per le nuove persone iscrittesi, invitando chi ne abbia voglia a esprimersi.