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L'italiano degli intellettuali

Inviato: ven, 11 nov 2011 10:58
di Ferdinand Bardamu
Prendo spunto da questo intervento di Carnby per proporre una riflessione sullo stato della lingua italiana colta. Nell'articolo del Fatto Quotidiano cui si rimanda Riccardo Chiaberge commenta sarcasticamente la lingua del filosofo Cacciari.

E in effetti frasi come
Massimo Cacciari, Ama il prossimo tuo ha scritto:Il Figlio che è uomo, noi, i figli, nel cuore del Theós Agape. La sua sovrabbondanza, il suo essere Agathós, potremmo dire, custodisce in sé ab aeterno tutti i loro pathemata. Dio è proximus perché plesios in sé – e per questo può essere vinto d’amore per il plesios che incontra e invocarne la philia
appaiono goffissime nell'urgenza di mostrare la cultura e la conoscenza del loro autore. Il primo periodo, poi, tocca vette di nonsenso. Il risultato è, paradossalmente (ma neanche tanto), simile a quello del discorso d'un direttore commerciale, col greco e il latino a sostituire l'inglese.

Mi chiedo allora: ci può essere una via di mezzo fra la lingua degli autori che scrivono «libri di cassetta» (una lingua che imita quella della tivvú e del parlato quotidiano, incapace di variare registro o per ignoranza o per studiata pigrizia) e quella degli intellettuali chiusi nella torre d'avorio della propria erudizione?

Inviato: gio, 17 nov 2011 14:16
di Carnby
Dalle mie parti si dice: «chi ragiona difficile è segno che non vuol farsi capire». Questo vale per l'uomo della strada come per l'intellettuale, che non ha certo bisogno di fare questo sfoggio di erudizione francamente narcisistica per esprimere concetti filosofici e teologici profondi, a maggior ragione se questo è stato scritto, come sembra, in libro dal tono divulgativo, certamente non riservato solo a universitari o specialisti.

Inviato: gio, 17 nov 2011 14:24
di Ferdinand Bardamu
Concordo: qui ci sono narcisismo e autoreferenzialità, misti a uno sfoggio di latinorum che denota gelosia per il proprio sapere, chiusura, e, da ultimo, tutto il contrario dell'amore verso il prossimo che dà il titolo al libro.

Inviato: ven, 08 giu 2012 9:12
di Efilzeo
In filosofia contemporanea questa pare essere la regola, ci son libri con intere pagine in altre lingue. Per lo più si tratta di gente che parla di filosofia senza farne.

Inviato: dom, 17 mar 2013 19:00
di Ferdinand Bardamu
A proposito del linguaggio involuto di cert’intellettuali, cito uno stralcio da un godibilissimo articolo di Guido Vitiello, apparso sulla Lettura del Corriere della Sera:

L’abuso del prefisso post si può considerare una variante della Regola V di De Mauro: «Secondo il teorema spiazzistico di Eraclito-Heidegger-Cacciari non c’è parola che non possa essere opportunamente ammiccata». La via maestra sono i trattini o le virgolette: se temete di apparire banali scrivendo gatto, provate con g-atto o con «gatto», equivarrà a dire che sì, pensate a un felino, ma non certo a un felino nel senso più ovvio, e insomma tra interlocutori intelligenti ci siamo capiti, o abbiamo fatto finta di capirci. Ecco, quando le nude parole vi fanno arrossire, c’è sempre la possibilità di agghindarle con un post, così da apparire ironici e sofisticati. Il vostro gatto, purché continuiate a nutrirlo e ad accarezzarlo, non se ne curerà: lui non sa ancora di appartenere alla condizione post-felina.

Re:

Inviato: gio, 01 lug 2021 15:33
di Utente cancellato 676
Ferdinand Bardamu ha scritto: dom, 17 mar 2013 19:00 A proposito del linguaggio involuto di cert’intellettuali, cito uno stralcio da un godibilissimo articolo di Guido Vitiello, apparso sulla Lettura del Corriere della Sera
Stiamo parlando dello stesso Vitiello che nella sua biografia su twitter si definisce "Bibliopatologo"? :D