Giacomo Leopardi e i forestierismi
Inviato: dom, 14 mag 2006 1:41
A chi mi dirà che bisogna inquadrare storicamente i discorsi io rispondo che Leopardi aveva un grande senso del passato e del futuro, e che il suo pensiero si può definire atemporale.
Trascrivo alcuni passi dello Zibaldone di pensieri. I corsivi sono originali; miei sono i grassetti.

Trascrivo alcuni passi dello Zibaldone di pensieri. I corsivi sono originali; miei sono i grassetti.
Quasi un neopurismo ante litteram...Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sí dirittamente all’eleganza? Intendo per barbarismo l’uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto alieni e discordi dall’indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e delle abitudini ec. Perocché se noi usassimo p.e. delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane, o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare perché questi barbarismi ripugnassero all’eleganza, quando sarebbero in contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali. Ma intendo di quei barbarismi quali sono p.e. nell’italiano i gallicismi (cioè parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p.e. colle stesse forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, ché questo pure sarebbe fuor del caso e della quistione). E domando perché il barbarismo cosí definito e inteso, distrugga affatto l’eleganza delle scritture. [...]
Torno a dire che questo non ripugna naturalmente al bello, se quelle voci e modi non sono di forma assolutamente discorde e ripugnante alle forme della propria lingua. [...]
Quanto all’arricchimento, questo è il punto in cui la lingua nazionale comincia a scadere e scemare sensibilmente, e impoverirsi, e indebolirsi fino al segno che dimenticate e antiquate la maggiore o certo grandissima parte delle sue voci e modi, e anche delle sue facoltà, ella non ha piú forza né capacità di supplire ai bisogni del linguaggio, e di fornire un discorso del suo, senza ricorrere al forestiero. (E la nostra lingua è già vicina a questo segno, non solo per le ricchezze proprie ch’avrebbe dovuto venire acquistando, e non l’ha fatto, ma anche per quelle infinite ch’aveva già, ed ha perdute, e molte irrecuperabilmente). [...]
Quanto poi all’eleganza, quelle voci e modi, non essendo piú pellegrini, non sono piú eleganti. Anzi non c’è cosa piú volgare e ordinaria di quelle voci e modi forestieri. Come accade appunto in Italia oggidí, che non si può né parlare né scrivere in un italiano piú volgare e corrente, che parlando e scrivendo in un italiano alla francese. Il che è ben naturale e conseguente, secondo le cagioni che ho assegnate, le quali introducono questo secondo barbarismo in una lingua. Perocché esse l’introducono ed influiscono direttamente, non negli scritti de’ grandi letterati e degli uomini di vero e raffinato buon gusto (come ho detto di quel primo barbarismo) ma nella favella quotidiana, e da questa passa il barbarismo nei libri degli scrittorelli che non istudiano, non sanno, non conoscono, e neanche cercano, né si vogliono affaticare ad indagare altra lingua da quella che son soliti di parlare, e sentire a parlar giornalmente, e non si saprebbero esprimere in altro modo, né possiedono altre voci e forme di dire. Di piú seguono ed approvano (secondo il poco e stolto loro giudizio) l’uso corrente, la moda ec. ed accattano l’applauso e la lode del volgo, e si compiacciono di quella misera novità, e vogliono passar per autori alla moda: cosí che oltre all’ignoranza, li porta al barbarismo anche la volontà, ed il cattivo loro giudizio; e l’esempio gli strascina ec. Di piú formandosi a scrivere sui soli o quasi soli libri stranieri divulgati nella loro nazione, non conoscono altre voci, frasi, e maniere di stile, che quelle di que’ libri, o non si vogliono impazzire a scambiarle coll’equivalenti nazionali, che non hanno punto alla mano. E cosí imbrattano sempre piú la lingua e letteratura nazionale di cose forestiere, anche oltre all’uso della favella ordinaria de’ loro compatrioti. [...] (Zibaldone di pensieri, 29 giugno 1822)
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La lingua spagnuola, secondo me, può essere agli scrittori italiani una sorgente di buona e bella ed utile novità ond’essi arricchiscano la nostra lingua, massimamente di locuzioni e di modi. [...]
Aggiungasi a questo che tale commercio onde la lingua italiana si arricchí della spagnuola, fu, come ho detto, nel secolo in che la nostra lingua si formò e perfezionò, e prese o determinò il suo carattere, cioè nel cinquecento; ond’è ben naturale che molte parti della lingua spagnuola non ancora da noi ricevute, convengano e consuonino colle proprietà della nostra lingua, poiché non poche forme e locuzioni, ed anche non poche voci spagnuole e significazioni di voci, entrarono nella composizione della nostra lingua appunto quand’ella ricevé la sua piena forma e perfezionamento e la distinta specifica impronta del suo carattere.
Finalmente è da osservarsi che mentre i nostri antichi non solo nel cinquecento, ma fin dal ducento e dal trecento introdussero nella lingua nostra moltissime voci, locuzioni e forme francesi che ancora in buona parte vi si conservano, queste, da tanto tempo in qua, e similmente quelle altre infinite che i moderni v’introdussero e v’introducono tuttavia [= tuttora], serbano sempre, chi ben le guarda, una sembianza e una fisonomia di forestiere, massime le locuzioni e forme. Laddove le frasi e i modi, ed anche i vocaboli spagnuoli introdotti nella nostra lingua, stanno e conversano in essa colle nostre voci italiane cosí naturalmente che paiono non venuti ma nati, non ispagnuoli ma italiani quanto alcun altro mai possa essere e quanto lo sono i nostri propri vocaboli. Anzi io so certo che pochissimi, ma veramente pochissimi, sanno, o sapendo, avvertono questi tali esser modi e vocaboli o significati d’origine spagnuola. Ben ne veggo assai sovente de’ riputati e battezzati per purissimi italiani natii. [...]
La lingua spagnuola è carnal sorella dell’italiana, non di famiglia solo e di nascita e di eredità, ma di volto, di persona e di costumi. [...] E intanto allontanandosi da’ suoni dalle forme e dal genio della lingua madre, l’idioma francese col medesimo passo si divise eziandio dall’indole, dallo spirito e dalla qualità de’ suoni delle lingue sorelle, che sempre alla madre si attennero quanto comportarono i tempi e le circostanze; [...] Veramente la lingua spagnuola e per carattere e per forme e per costrutti e per suoni e per che che sia, è cosí conforme all’italiana, che altre due lingue colte cosí tra loro conformi non si trovano ch’io mi creda, né mai, ch’io sappia, si ritrovarono. [...]
Venendo alla conchiusione, ripeto che da una lingua cosí conforme alla nostra, come ho mostrato essere la spagnuola, per ogni verso, e per tante cagioni naturali, accidentali, intrinseche, estrinseche ec.; da una lingua sorella com’essa è all’italiana; da una lingua ec. ec. ; molto bella ed utile novità possono trarre gli scrittori italiani moderni, come ne trassero gli antichi e classici nostri. Ma voglio io perciò introdotti nella lingua italiana degli spagnuolismi? Tanto come, consigliando di attingere dal latino, intendo consigliare che s’introducano nell’italiano de’ latinismi. [...]
La novità in una lingua, o la rarità ec., insomma il pellegrino, da qualunque luogo sia tolto (o da’ forestieri, o dagli antichi classici nazionali ec.), deve sempre parere una pianta, bensí nuova nel paese o rara, ma nata nel terreno medesimo della lingua nazionale, e non pur della nazionale, ma della lingua di quel secolo, della lingua conveniente a quel genere a quello stile a quel luogo della scrittura. Sempre ch’ella par forestiera (e recata d’altronde) per qualunque ragione, e in qualunque di questi sensi, ella è cattiva. Nel caso contrario è sempre buona. [...]
...noi ci avveggiamo che l’italiano può adoperare un tal modo, forma, voce, significazione, ch’e’ non ha mai adoperato; la può adoperare, non perché latina, greca, spagnuola, ma perché conforme all’indole dell’italiano stesso, perché questa lingua per se medesima, e tale qual ella è n’è capace; perché appunto adoperata nell’italiano, non parrà né latina né greca né spagnuola, ma parrà e sarà subito italiana. [...]
Nello stesso modo che sono italianismi, e degnissimi d’entrare in uso, infiniti vocaboli, locuzioni (significati) e forme nuove, che l’abile e giudizioso e ben perito scrittore, può inesauribilmente e incessantemente derivare, formare, comporre ec. dalle stesse radici, degli stessi materiali, degli stessi capitali e fondi della lingua nostra, profondamente conosciuti e perfettamente posseduti, seguendo sempre e intieramente la vera indole e proprietà d’essa lingua, e conformandosi con tutte le sue qualità sieno intrinseche, sieno estrinseche ec. (9-10 settembre 1823)
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...perocché noi veggiamo sotto gli occhi , che sebben forestiere di origine, elle [= voci e maniere] in quelle scritture come native del nostro suolo, ed hanno un abito tale che non si distinguono dalle italiane native di fatto, e vi riescono come proprie della lingua, e cosí sono italiane di potenza, come l’altre lo sono di fatto, onde il renderle italiane di fatto non dipende che da chi voglia o sappia usarle; e per esperienza veggiamo che quegli scrittori, trasportandole nell’italiano, le hanno benissimo potute rendere, e le hanno effettivamente rese, italiane di fatto, come lo erano in potenza, e come lo sono l’altre italiane natie. Or questo medesimo è quello che nello studio delle lingue altrui dee fare in noi, in luogo dell’esperienza, l’ingegno e il giudizio nostro; cioè mostrarci, non per prova, come fanno gli scrittori nostri classici, ma per discernimento e forza di penetrazione, e finezza e giustezza di sentimento, benché sprovveduto di prova pratica, che tali e tali vocaboli e modi sono italianissimi per potenza, onde a noi sta il renderli tali di fatto, sieno o non sieno ancora stati resi tali dall’uso, o da parlatore, o da scrittore veruno; ché ciò a’ soli pedanti dee far differenza, e soli essi ponno disdire o riprendere che tali voci e forme (greche, latine, spagnuole, francesi, o anche tedesche ed arabe ed indiane d’origine, di nascita e di fatto) italianissime per potenza, si rendano italiane di fatto, senza l’esempio di scrittori d’autorità; [...] (20 ottobre 1823)
