Etimo di «speme»

Spazio di discussione dedicato alla storia della lingua italiana, alla sua evoluzione e a questioni etimologiche

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Ferdinand Bardamu
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Etimo di «speme»

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Secondo i dizionari in mio possesso, il poetico speme deriva dall’accusativo spem del latino spes-spei, ‘speranza’, con epitesi della vocale d’appoggio [e]. Sarebbe pertanto l’unico caso (o quasi: non me ne sovvengono altri) in cui la -M latina dell’accusativo ha dato un esito in italiano.

Ma possiamo a buon diritto inserire speme nello strato ereditario del nostro lessico, oppure si tratta di una parola di derivazione dòtta, ricostruita in epoca successiva a partire da un accusativo intatto in tutte le sue componenti foniche?

Se è vero che la -M finale doveva essere articolata in modo assai debole (se non eliminata del tutto) già in epoca ciceroniana, la seconda ipotesi sembra più plausibile. Se aggiungiamo, poi, che altre parole del latino classico mono- o bi-sillabiche dovevano avere – in latino volgare – una controparte più espressiva sia semanticamente sia fonicamente (cfr. ōs-oris, ‘bocca’ ~ buccă-ae, ‘guancia, gota’), la prima ipotesi decade quasi del tutto. Ma ci potrebbe sempre essere un’eccezione, benché, personalmente, faccia fatica a darne una giustificazione.

Che ne dite?
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Infarinato
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Re: Etimo di «speme»

Intervento di Infarinato »

Questo: ;)
La scomparsa di -M nei polisillabi è ininterrottamente attestata […] dalle epigrafi arcaiche sino alla tarda latinità. […] -M, desinenziale o semplicemente finale, resisteva meglio nei monosillabi come prova la convergenza di piú indicazioni. Nel latino classico, l’elisione prevocalica in metrica conosce talvolta eccezioni soltanto nei monosillabi (num adest, Hor., Serm. II 2,28, non piú nei polisillabi, in cui la conservazione di -M davanti a vocale è marginalmente possibile solo in età arcaica […]. Conservazione sino in fase romanza è attestata dagli italiani speme < SPEM, sono < SUM; dal francese mon/mien, ton/tien, son/sien < MEUM, TUUM, SUUM, rien < REM; dal rumeno cine < QUEM; dallo spagnolo quien < QUEM, cuan < QUAM, tan < TAM, dal portoghese quão, tão […]. D’altro canto, non di caduta ma di conservazione con successiva assimilazione parla il potere raddoppiante degli esiti di CUM, IAM, SUM in molti dialetti italiani: roman. [ko ˈtːe], altam. [kə ˈtːai̯], calabr. [kːu ˈtːia] […] sono in diretta connessione con le pronunce cu[nː]obis, cu[nː]otis di cui serbano notizia Cicerone e Quintiliano […].
(Michele Loporcaro, L’origine del raddoppiamento fonosintattico: saggio di fonologia diacronica romanza, Basel and Tübingen: «Francke Verlag», 1997, nota n. 42, p. 145, sottolineature mie).
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Sempre molto preciso e cortese. La ringrazio tanto, caro Infarinato. :)
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Carnby
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Intervento di Carnby »

Il DEI di Carlo Battisti e Giovanni Alessio considera (a differenza di Devoto, per esempio) speme «v[oce] dotta e letteraria costruita sull'acc[usativo] spem».
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Riporto anche quanto dice il Rohlfs in proposito (Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, § 305; sottolineatura mia):

La m finale latina era caduta già nel III secolo a.C. […]. Essa è rimasta come n nelle parole monosillabiche CUMcon, e SUMsonsono (cfr. il francese rien, lo spagnolo quien1, mentre lʼantico italiano speme ‘speranza’ è da considerare un latinismo e la forma spene che si incontra a fianco di quella ne è una trasformazione, sotto influsso della sillaba paragogica -ne.

1 In molti dialetti (particolarmente dellʼItalia meridionale) la consonante finale di SUM e CUM si assimila alla iniziale della parola seguente: per esempio in napoletano co ttenə ‘con te’; in barese iʼ so bbivə ‘io sono vivo’.
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SinoItaliano
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Intervento di SinoItaliano »

Il Leopardi poetava molto sulla speranza umana, speranza che poi veniva delusa dalla natura, per cui usava molto questa parola.
Lui usava sia «speme» sia «speranza» anche all'interno della stessa poesia. Sapete per caso se c'era qualche sfumatura di significato, o erano sinonimi?

Per esempio, nella poesia «A Silvia»:
Giacomo Leopardi ha scritto:Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
E ancora:
Giacomo Leopardi ha scritto:Anche pería fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Invece nel «Sabato del Villaggio» usa una volta sola la parole «speme», nella strofa citata nella mia firma:
Giacomo Leopardi ha scritto:Questo di sette è il piú gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Di primo acchitto mi è sembrato che «speranza» sia usata nel senso di «ciò che si spera» oppure «l'atto dello sperare», mentre «speme» come sentimento.
Ma leggendo bene, vedo che prima chiama Silvia «speranza mia dolce» e poi «mia lacrimata speme». Quindi deduco che tale differenza non sussiste.
Tuttavia mi pare che quando si parla del sentimento della speranza, si usi quasi sempre «speme» tra i poeti.
Questo di sette è il piú gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l'ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno.
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Luca86
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Fuori tema

Intervento di Luca86 »

SinoItaliano ha scritto:Di primo acchitto...
Caro SinoItaliano, non se la prenda, ma la forma corretta è acchito; benché acchitto (con due ‘t’) sia diffuso, è errato (come dice il DOP).

Comunque, se ne parlò qui.
Ultima modifica di Luca86 in data lun, 16 apr 2012 19:14, modificato 1 volta in totale.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

La differenza è di registro: speme è piú sostenuto e poetico. Leopardi – e con lui moltissimi altri poeti – adoperava anche la forma spene, di cui ecco un esempio:

Viva mirarti omai
Nulla spene m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra...
(Alla sua donna, v. 13)

P.S. Si scrive d’acchito, con due ‘c’ ma una sola ‘t’. :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Bue
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Intervento di Bue »

Ferdinand Bardamu ha scritto:Riporto anche quanto dice il Rohlfs in proposito (Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, § 305; sottolineatura mia):

La m finale latina era caduta già nel III secolo a.C.
a.C. o d.C.? Se e` a.C., hanno resistito veramente tanto nello scrivere una lettera non piu` pronunciata da secoli!
Io ho letto che nel latino classico era molto debole e nasalizzata (come fanno a saperlo? il nasalizzata dico), tanto che se seguita da vocale era considerata muta in metrica, ma addirittura gia` caduta da secoli?
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Confermo l'«avanti Cristo» nella citazione del Rohlfs. Ho letto anch'io della supposta nasalizzazione della vocale precedente la m finale e pure io mi sono chiesto da dove sia stata tratta questa informazione.
Ultima modifica di Ferdinand Bardamu in data mar, 17 apr 2012 12:35, modificato 1 volta in totale.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Certe informazioni sulla pronuncia del latino si ricavano da quello che osservavano certi scrittori. Ad esempio, dagli scritti di Sant’Agostino sappiamo che a un certo punto la gente non percepiva piú la differenza tra ōs e ŏs, ecc.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

In Cambridge History of the Romance Languages vol. I, pag. 139, si legge (grassetto mio):

Latin had no distinctive vowel nasalization. In Latin, ‘universal phonetic nasality’, involving a certain degree of physiological nasalization of vowels due to coarticulation with nasal consonants ‘may be assumed to have operated as default’ (Sampson 1999:19). A special case is that of word-final -M, which Latin sources attest to have been reduced to a nasalization of the preceding vowel. While it has been argued that this had phonological consequences for the vowels affected, in terms of length (e.g., Lüdtke 1965a) or nasality (e.g., Safarewicz 1974:185–87), no trace of those putative effects survive into Romance.

Non si citano queste «fonti latine», però.
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Infarinato
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Intervento di Infarinato »

Ferdinand Bardamu ha scritto:Non si citano queste «fonti latine», però.
Sono il Cicerone e il Quintiliano di cui sopra. ;)

…Attenzione, però, a non confondere le due cose: è vero che la nasalizzazione [ragionevolmente] ipotizzata per l’M finale latina non si è continuata nelle lingue romanze come tale (la nasalizzazione in francese e portoghese ha un’altra [piú tarda] origine), ma, almeno per quel che concerne i monosillabi, ha prodotto altri effetti: si rilegga bene (e possibilmente si mandi a memoria :D) la sopraccitata nota di Michele Loporcaro.
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SinoItaliano
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Intervento di SinoItaliano »

Ringrazio Marco per la spiegazione!
Forse parlando della speranza come «sentimento» i poeti erano piú inclini a usare la forma poetica «speme/spene»?

Ringrazio Luca86 e di nuovo Marco per la correzione si «acchito»: l'ho sempre pronunciato e scritto con due «t». :oops:
Questo di sette è il piú gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l'ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno.
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SinoItaliano
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Intervento di SinoItaliano »

Ferdinand Bardamu ha scritto:1 In molti dialetti (particolarmente dellʼItalia meridionale) la consonante finale di SUM e CUM si assimila alla iniziale della parola seguente: per esempio in napoletano co ttenə ‘con te’; in barese iʼ so bbivə ‘io sono vivo’.
Anche in romanesco si dice co tte, e io sò vvivo.
Si veda anche questa immagine: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Nove-bone.jpg

Anche secondo Wikipedia, la «pronuncia restituita o scientifica» del latino prevede, oltre a tanti allofoni, la nasalizzazione della vocale che precede m finale: http://it.wikipedia.org/wiki/Scrittura_ ... consonanti
M: è la normale /m/, ma in fine di parola probabilmente scompare lasciando nasalizzazione e allungamento alla vocale che la precede (il che non è escluso accadesse anche all'interno di una parola se m era l'ultimo elemento di una sillaba chiusa). Questo è testimoniato non solo dalla scomparsa delle m finali nelle lingue romanze, ma anche dalla possibilità in poesia già preclassica di sinalefe tra parola terminante in vocale+m e parola iniziante per vocale (tantum illud, ad esempio, può essere letto, in pronuncia classica, /tan'twillud/). Esempi: malo /ma:lo:/; Romam /ro:mɐm/ o /ro:mã/.
Alcuni ipotizzano che la lingua più simile foneticamente al latino sia il portoghese, per aver mantenuto le vocali nasali. Ma Infarinato sembra non essere d'accordo. :)
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