Mi accorgo che la mia risposta è stata un po' sbrigativa: aggiungo quindi un contributo dal
Giorgio Bertone ha scritto:dieresi/sineresi
Nella poesia classica d metrica è la pausa ritmica che cade nel verso alla fine d'una parola e alla fine (non nel mezzo) d'un piede (simile, dunque, ma da distinguersi bene da → cesura). D prosodica (→ prosodia 1) è invece il contrario di s o → sinizesi, ovvero è il fenomeno per cui due vocali contigue, generalmente pronunciate con una sola emissione di fiato, vengono sillabate e contate come sillabe distinte (di solito la d è un arcaismo). S è, allora, la fusione in un'unica sillaba di due vocali contigue come se costituissero un solo fonema tenuto.
Nella metrica italiana si parla di d quando si dividono metricamente in sillabe staccate vocali contigue all'interno della stessa parola, che linguisticamente costituiscono una sola sillaba; di s quando si uniscono metricamente in una sola sillaba vocali contigue di sillabe linguisticamente distinte. La d venne segnata diacriticamente con due puntini a partire dall'Ottocento col Foscolo dei Sepolcri. Per tendenza linguistica si ha s (come, tra due parole, si ha → sinalefe), ma vi sono eccezioni, per ragioni metriche e financo espressive e stilistiche. Esempi: «Voi cittadini mi chiamaste Ciacco» (Dante, Inferno): in Voi c'è s, metricamente si tratta di una sillaba sola; «O grazïosa luna, or mi rammento» (Leopardi, Alla luna) in cui c'è, invece, d. Rabbiosa la d in «S'i fosse fuoco, arderëi 'l mondo» di Cecco. Nei casi di cielo, saggio, figlio non si tratta di s perché in questo caso la i non è una vocale ma un segno diacritico che indica la pronuncia palatale di c o g. Benché D'Ovidio [1932] avverta che usare la d in simili casi equivale al tentativo di salire una scala dipinta su un muro, non mancano esempi del genere anche in Carducci: ciglïa, figlïa, trifoglïo, Campidoglïo e pure tempïo, ampïa (già in Manzoni), soverchïo, secondo le rilevazioni di D'Ovidio medesimo: «falsi sdruccioli procurati con dieresi assolutamente erronee». Nel caso di dittongo discendente (vocale tonica + vocale atona) il nesso vocalico all'interno del verso forma di norma s, all'uscita sempre d (già in Antonio da Tempo; → metricologia). Si tratta di norma peculiare del sistema italiano al contrario di quello provenzale che distingue, in punta di verso, ïa bisillabico (verso femminile, cioè piano), da ai, eu, ecc., monosillabici (verso maschile). Dentro il verso ia può essere sia mono- che bisillabico; ai, eu di norma monosillabici [cfr. Beltrami 1991]. Esempi italiani: «Mio fosse un giorno! e no 'l vorrei già morto», «Forse del sangue empir del popol mio» (Tasso, Gerusalemme Liberata): nel primo caso Mio interno vuole s, nel secondo il medesimo mio, esterno, vuole d non segnata diacriticamente perché ovvia, anzi obbligatoria. Lo scarto della norma della s interna si dice d d'eccezione; es. ïo bisillabico usato piú d'una volta da Dante dentro il verso. Il dittongo discendente in → cesura di → alessandrino non potrà che comportarsi come in fine-verso. Bisillabici i trittonghi all'interno e alla fine di verso (-aio-, -aia-, ecc.) [trittonghi?] e le combinazioni del tipo -aiuo-, -oiuo-, poiché i ha valore di [j] semiconsonante separativa. Talvolta il trittongo può valere una sola sillaba: nelle origini (gioia) [trittongo?] ma anche oggi («dolce dirimpettaia del quinto piano», endecasillabo). Nei casi di a, e, o seguiti da vocale tonica si ha di regola d; es.: «quanto piú pò, col buon voler s'aïta» (Petrarca; il segno della d è aggiunto in sede ecdotica). Normalmente d nel caso di dittongo ascendente: 1) päura [dittongo ascendente?], nïuno, vïaggio (ma viaggio bisillabo nei settentrionali, in Goldoni, in Montale e altri del Novecento), scïenza [dittongo ascendente?], lezïone, radïoso; 2) nei latinismi, grecismi, ebraismi, arabismi: Flegïàs, Averröís [dittongo ascendente?] (Dante). D'Ovidio [1932] ha spiegato tra l'altro che la scelta dei poeti tra s e d non è arbitraria. Uno dei principî basilari lega appunto la d con i latinismi e le forme latineggianti di scansione sillabica: la d è insomma, per lo piú, almeno nei secoli passati, indice di scansione sillabica latineggiante. Per cui, in generale, la d non è tollerata: a) quando i dittonghi ascendenti ie e uo derivano da e, o brevi latine; es.: pedem > piede, homo > uomo; cor > cuore; b) con [j] semiconsonante che deriva da: 1) lat. l, es. flumen > fiume, clarum > chiaro; 2) lat. -ri-, es. librarium > libraio; 3) lat. i, con raddoppiamento, es. obiectum > obbietto; c) con u semiconsonante piú, di solito, raddoppiamento: es. placui > piacqui; wastjan (germ.) > guastare. Caso particolare au lat. che dà it. o: aurum > oro, laudare > lodare. Per scelte auliche latineggianti si usa pure laudare, e il nesso di norma è monosillabico conformemente al monosillabismo latino. Cosí Dante e Petrarca. Ma numerose le eccezioni dalle origini in poi. Straripante l'uso della d nell'Ottocento (anche perciò gli ammonimenti coevi di D'Ovidio) e poi nella poesia simbolista-liberty quasi come marchio d'origine, fino all'«eruzione di d» nelle govoniane Fiale (1903) [Mengaldo 1987]. Mentre Pascoli: «io non ci sto a segnalarla [la d] coi puntolini, perché il poeta non deve pretendere che si pronunzi nel verso la parola diversamente da quel che suona in prosa » [cfr. Beccaria 1975 e ora Menichetti 1993].
di Luciano Canepari.