Mi permetto di riaprire questo filone, ormai inaugurato ben dieci anni or sono, e con l'ultimo intervento risalente a cinque anni fa, con un'osservazione di carattere, per così dire, sociolinguistico, che potrebbe suscitare vari dissensi e polemiche, ma contro la quale dubito si possa agire poi concretamente.
Costrutti come "appropriarsi di" usato come verbo intransitivo pronominale o "avere a che fare" ormai sono sentiti nella coscienza comune dei parlanti (e anche dei lessicografi nelle edizioni più aggiornate dei vocabolari, dal Treccani al Devoto-Oli, dallo Zingarelli al Garzanti, dal GRADIT al Sabatini-Coletti) come quelli più usati (il GRADIT qualifica con la marca di basso uso il costrutto transitivo) o più comuni. Ad es. il Treccani:
appropriare (ant. e pop. appropiare) v. tr. [dal lat. tardo appropriare, der. di proprius «proprio»] (io appròprio, ecc.). –
1. Dare in proprietà, attribuire come cosa propria: ebbono il castello di Simifonti, e fecionlo disfare, e il poggio appropiare al Comune (G. Villani); più genericam., attribuire: pensando se Virgilio possa mai essere stato l’autore delle lettere critiche contro Dante scritte; e da ragionevoli congetture conosce che falsamente furono a Virgilio appropriate (G. Gozzi). Con questo sign. è ant.; oggi si usa quasi esclusivam. nella forma intr. pron. appropriarsi, cioè impossessarsi, impadronirsi di qualcosa che è di altri o che comunque non spetta: a. di un diritto, di un titolo, di un bene (meno com. a. un diritto, un titolo, un bene).
Ma, potreste dire, i lessicografi spesso si adeguano alle mode (io direi piuttosto, in questo caso, alla naturale evoluzione della lingua. Diverso ovviamente è il caso di improprietà come il "piuttosto che" disgiuntivo, che si è ancora in tempo per frenare ed arginare, almeno spero) che non sempre corrispondono all'uso corretto e sorvegliato.
Sennonché, parlando con colleghi di liceo e professori universitari, come anche con altre persone di media e spesso alta cultura, ho avuto la netta sensazione che, ove pure fossero consapevoli dell'uso transitivo del verbo, lo considerassero un uso arcaico o letterario, non più conforme alla lingua corrente. Osservazioni che ho riscontrato anche in persone di mentalità "tradizionalista", che sono perfino capaci di citare Dante a memoria e di avere una venerazione perfino eccessiva per i nostri classici. E considerazioni analoghe si potrebbero fare per "avere a che fare/avere che fare".
Il problema che vorrei porre è ora il seguente: può un insegnante o un docente universitario ostinarsi a insegnare che il costrutto preferibile è quello transitivo, pur sapendo che ormai nella coscienza comune sarebbe addirittura considerato, nel migliore dei casi, arcaico, e, nel peggiore, erroneo? Certo, soprattutto nell'ultimo caso si tratterebbe di uno schietto ipercorrettismo, ma bisogna anche pensare a un fatto fondamentale: chi insegna deve mettere in conto che i suoi studenti dovranno affrontare esami e concorsi con commissioni composte non sempre da persone di grandi competenze e con coscienza storica, filologica e glottologica profonda (poi nei concorsi per le scuole nel 1999 e nel 2012 si è toccato il fondo, allorché, dopo aver tolto dalle commissioni i professori universitari, hanno tolto pure quelli di liceo, almeno per la prova di italiano, affidata ad esaminatori provenienti dalle medie e dagli istituti professionali), le quali potrebbero censurare i costrutti più antichi e corretti, pensando che si tratti di errori! E naturalmente, questa pseudocorrezione o ipercorrezione potrebbe avere conseguenze deleterie nella carriera del candidato, impedendogli ad esempio di conseguire il 100/100 alla maturità, di superare un concorso per un posto di lavoro, ecc.
Come la mettiamo in questi casi? È davvero opportuno continuare ad insegnare ciò che è avallato dalla tradizione, ma ormai non è più considerato come la forma corretta dalla maggioranza dei parlanti e anche degli utenti colti della lingua?