Lasciare/leave

Spazio di discussione su prestiti e forestierismi

Moderatore: Cruscanti

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Manutio
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Lasciare/leave

Intervento di Manutio »

Un ministro si è dimesso, e a quanto pare, stando alla quotidiana rassegna stampa di Radiorai 3, quasi nessun quotidiano ha fatto a meno, nel titolo di apertura, della voce verbale lascia, con soggetto il ministro stesso. È il mio orecchio che è diventato ipersensibile (poveretto, sarebbe giustificato), oppure quel lascia è un anglicismo smaccato? Lasciare italiano non si costruisce come assoluto, ma richiede un oggetto, mentre un leaves starebbe perfettamente al suo posto. (Se qualcuno scovasse un lasciare assoluto in un autore italiano di qualche secolo fa, magari con qualche incertezza nella tradizione del testo, ciò lascerebbe il tempo che trova.) Ma è lecito anche il sospetto che ci sia il ricordo del ben noto giochino televisivo. Il suo titolo era ricalcato sul francese Quitte ou double?, mentre il modello americano, l’originale, si chiamava in tutt’altro modo. Le considerazioni sul francese quitter le lascio ad altri.
Don Lisander
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Intervento di Don Lisander »

A parte il fatto che lo Zingarelli ammette lasciare usato in senso assoluto nel significato di «Ritirarsi da un incarico, da una competizione e sim.: dopo le accese polemiche, l'ispettore capo lascia.», direi che potrebbe anche trattarsi di una metafora attinta dal gioco del poker, dove lasciare ha il senso di «non mettere una puntata nel piatto e quindi abbandonare la mano».
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Animo Grato
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Re: Lasciare/leave

Intervento di Animo Grato »

Manutio ha scritto:Ma è lecito anche il sospetto che ci sia il ricordo del ben noto giochino televisivo.
C'è quello, c'è l'idiomatico prendere o lasciare, e soprattutto c'è il fatto che si tratta del linguaggio giornalistico, tradizionalmente incline all'ellissi. Non ho dimestichezza coi titoli dei giornali inglesi, ma in generale Mr. X leaves significa Il signor Pincopallino parte, quindi non so se sarebbe usato per un ministro dimissionario.
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Manutio
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Intervento di Manutio »

Don Lisander scrive:
lo Zingarelli ammette lasciare usato in senso assoluto nel significato di «Ritirarsi da un incarico, da una competizione...
Qui farei una controobiezione che vale non solo in questo ma in molti altri casi. Che cosa significa ‘ammette’? Il dizionario registra un uso diventato frequentissimo, cosa che sappiamo da soli, senza pronunciarsi sulla sua origine, se forestierismo o no. Ci sono, o piuttosto c'erano, vocabolari che intendono codificare la lingua dell’uso illustre, alla maniera della Crusca, e altri che si limitano a fare da neutrale specchio dell’uso corrente, anche se questa parola non sta scritta sul frontespizio, come in un ben noto caso. Quanto all’appropriatezza di leave nel caso nostro, l’uso dei forestierismi può peccare di imprecisione, come vediamo tutti i giorni, in misura anche molto piú grave. Che poi qui ci sia una convergenza di diversi fattori, come suggerito, è probabilmente vero.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Concordo con Manutio circa la «legittimazione» dei dizionari. Non concordo, come già mi è capitato per la questione taglio/cut, riguardo alla condanna di lasciare. A questo proposito, ricopio un mai abbastanza lodato ragionamento di Leopardi sui forestierismi (la citazione intera era già stata riportata qui da Marco; le sottolineature sono mie):

Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sí dirittamente all’eleganza? Intendo per barbarismo l’uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto alieni e discordi dall’indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e delle abitudini ec. Perocché se noi usassimo p.e. delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane, o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare perché questi barbarismi ripugnassero all’eleganza, quando sarebbero in contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali. Ma intendo di quei barbarismi quali sono p.e. nell’italiano i gallicismi (cioè parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p.e. colle stesse forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, ché questo pure sarebbe fuor del caso e della quistione). E domando perché il barbarismo cosí definito e inteso, distrugga affatto l’eleganza delle scritture. [...]

Torno a dire che questo non ripugna naturalmente al bello, se quelle voci e modi non sono di forma assolutamente discorde e ripugnante alle forme della propria lingua.
[...]

Anche in questo caso, siamo di fronte a un (supposto) forestierismo ch’è affatto inappariscente, s’adatta naturalmente alla nostra lingua e non minaccia in alcun modo la sua identità o la chiarezza della comunicazione, come potrebbero fare, per dire, educazione per istruzione o altre amenità del genere.

Mi riallaccio poi a quanto lei stesso, Manutio, aveva scritto qui, per rispondere che sí, la cultura e la lingua italiane non hanno certo bisogno della tutela inglese. Tuttavia, è innegabile il dominio della cultura anglosassone, in àmbito scientifico e non solo. Per questo, è giusto difendere la nostra identità culturale e linguistica, ma è fatica sprecata ergere mura inespugnabili e invalicabili attorno all’edificio della lingua. È molto meglio mettere alle porte doganieri preparati, che sdoganino solo la merce che ci serve veramente, non prima di averla opportunamente marchiata. Insomma: «Accogliamo i forestiermi, ma rivestiamoli d’italiano». :)
Don Lisander
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Intervento di Don Lisander »

Chi scrive i titoli di giornale è ben conscio del poco spazio a disposizione e delle necessità brachilogiche che questo comporta. Non mi scandalizza, francamente, quest'uso di lasciare; non più, almeno, di quanto mi possa colpire una costruzione sintattica del tipo: Incertezza, vola lo spread; Aldrovandi, tra madre e poliziotti nuovo scontro: «Solidarietà ipocrita»; Cinque Stelle in auto blu, in Sicilia è polemica; ecc.
Una soluzione come Terzi dà/rassegna le dimissioni comporta all'evidenza una maggiore quantità di spazio, dunque non mi stupirei che i giornalisti adottino altre soluzioni, magari sotto l'influenza delle lingue straniere. Il problema che lei pone comunque rimane, poiché se la lingua italiana si è orma standardizzata, ciò è dovuto in gran parte alla diffusione della televisione e dei giornali, ed è preoccupante che a dettar legge in fatto di lingua siano i giornalisti, categoria che avrà tanti pregi, ma non di certo, o almeno non sempre, quello di additare il migliore uso linguistico e grammaticale.
Detto questo, ritengo che si sarebbe potuta usare anche una diversa soluzione rispetto a quella di lasciare in senso assoluto, come un semplicissimo Dimissioni di Terzi, o anche - perché no? - un più icastico Terzi getta la spugna.
Avatara utente
Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Son d’accordo con Don Lisander. Il brutto di tutto ciò non è tanto la probabile origine inglese di lasciare usato intransitivamente, quanto la lingua stereotipata che spesso usano i giornalisti. Se le frasi fatte si limitassero ai titoli, potremmo assolvere la categoria; ma spessissimo — con poche, lodevoli eccezioni — la lingua dei giornali è un centone di stereotipi, che rende la lettura noiosa e dà l’impressione che il contenuto dell’articolo, in fondo, sia sempre la stessa solfa.
domna charola
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Intervento di domna charola »

Concordo su "getta la spugna", che rende meglio l'idea di un abbandono definitivo di fronte alle circostanze, un arrendersi, suggerito dal verbo "lascia", rispetto al burocratico, quotidiano, poco espressivo "rassegna le dimissioni".
D'altra parte, il linguaggio dei titoli è scelto apposta per colpire e attirare l'attenzione, ponendo in evidenza l'elemento di "eccezionalità" della notizia (diverso il discorso se il termine viene usato in tutti i titoli, come se ogni dimissione sia un gesto clamoroso e incisivo... a quel punto "lascia" si banalizzerebbe, perderebbe forza, e sicuramente comparirebbe qualche nuovo termine a sostituirlo).

Interessante la citazione del Leopardi, che mostra di tenere conto dei processi naturali attraverso cui una lingua si struttura nel tempo.
Se dovessimo rigettare con orrore ogni termine anche solo in sospetto di "forestierismo", non solo dovremmo ogni volta coniare un termine ex-novo che indichi i nuovi concetti/oggetti che via via entrano a far parte della nostra esperienza quotidiana, ma retroattivamente dovremmo rigettare anche tutti i "clandestini" proditoriamente infiltratisi nel passato.

A partire da quando decidiamo che un termine è ormai italianizzato e accettabile?
Un forestierismo di oggi, se non fermato, diventerà una parola normale fra due secoli, o più, o meno... a quale altezza poniamo il limite cronologico da cui iniziare la caccia agli infiltrati?
E' del tutto arbitrario.

Ed estendendo il concetto, dovremmo epurare la nostra lingua dai longobardismi, dagli arabismi, dai grecismi, dagli ebraismi, dai germanicismi etc. etc. penetrati a partire dall'alto Medioevo, e che in effetti hanno contribuito a far evolvere dal latino gli attuali volgari.
In pratica, resterebbe ben poco...
Avatara utente
Manutio
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Intervento di Manutio »

Conosco anch’io la litania, francamente un po’ logora, delle «lingue che sono in perpetua evoluzione». dell’«errore di oggi che è la regola di domani», dell’«impossibilità di sradicare i forestierismi, senza arrivare all’assurdo» etc. Pur vivamente interessato a tutte le possibili sottili considerazioni sulle ‘lingue a contatto’, non posso non distinguere fra le parole straniere entrate in italiano perché l’innocente comunità dei parlanti le ha trovate comode o addirittura necessarie per designare cose o concetti nuovi, e quelle introdotte dalla pigrizia di un limitato numero di persone (giornalisti, tecnici), dall’ignoranza presuntuosa di chi si crede poliglotta e che invece dimostra, d’un colpo solo, di ignorare sia l’italiano sia le lingue straniere, dalla cerimoniosità altezzosa dei burocrati e cosí via. Che un contadinaccio ignorante del Medioevo abbia introdotto nel suo latino una parola germanica imparata da un soldataccio goto, perché faceva comodo, mi va benissimo; mi ripugna invece l’incompetenza del traduttore che ricalca un costrutto inglese (ieri francese) quando ce n’è uno italiano che fa perfettamente al caso, consacrato da un uso secolare, per esempio. La schietta e spontanea ignoranza è molto piú rispettabile della mezza cultura. Spero di essermi spiegato e mi scuso per la lunghezza.
    domna charola
    Interventi: 1633
    Iscritto in data: ven, 13 apr 2012 9:09

    Intervento di domna charola »

    Concordo sul distinguere i contesti (contadinaccio rozzo / burocrate altezzoso etc.).
    Prima di tranciare giudizi, secondo me occorrerebbe anche guardare chi sta scrivendo, con quali intenzioni e con quali limiti.

    Mi irrita ad esempio che in un ente pubblico si parli anglo-italiano per confondere le acque e far passare come gradevoli e moderne cose banali o peggio scomode. Stessa cosa per i programmi politici (ma perché la Regione deve "sostenere le start-up"???... se magnano, 'e startuppe?... si sarà chiesto l'elettore della porta accanto... etc. etc. etc. segue lunga litania di esempi...).

    Però se mi sposto al giornalismo, non posso non vedere delle attenuanti.
    Premesso che gran parte dei pennaioli riciclano frasi fatte senza attivare i neuroni - e su questo concordo, hanno torto - resta il problema degli spazi, che nella stesura di un testo a stampa diventano i veri dominatori.
    Me ne sto accorgendo proprio in questi giorni, in cui devo scrivere dei brevi testi divulgativi per dei pannelli turistici che verranno posti in un certo Comune vicino a oggetti di interesse architettonico, artistico, paesggistico etc.
    Ho un limite di battute, perché nel pannello non c'è lo spazio fisico per sforare. E lavoro di cesello (lacrime e sangue...!) sopprimendo man mano vocaboli e sostituendo giri di frase, sempre con l'occhio al conta-battute...
    Alla fine devo fare delle scelte: o rinuncio e passo la palla a qualcun altro meno accurato e più accondiscendente, oppure scendo a compromessi anche con la precisione e l'efficacia del testo.
    Ieri ad esempio, descrivendo il personaggio femminile di un San Giorgio e il drago, con sommo dolore ho trasformato "la principessa" (nel dipinto porta visibilmente una corona) con "la dama". Non è una sostituzione lecita, non sono la stessa cosa... però sono 7 battute in meno!!! e preferisco decidere io dove togliere (il male minore) piuttosto che sia fatto da un grafico che taglia a caso per far quadrare i conti.

    Il mestiere di scrittore (non la parte creativa, artistica di chi compone "letteratura", bensì l'attività di chi comunica quotidianamente con la scrittura) è questo: litigare sempre sempre con la lunghezza di una riga, con il numero di righe possibili in una colonna o in una pagina...
    In un titolo sceglierei probabilmente l'accettabile "lascia" piuttosto che il lungo "getta la spugna", perché ogni epoca ha i suoi limiti e i suoi condizionamenti.

    Fermo restando che questa non deve diventare una scusa per mettere il neurone a dormire e copiare a pappagallo tutto quello che viene da fuori.
    Avatara utente
    Manutio
    Interventi: 113
    Iscritto in data: mar, 12 mar 2013 9:48

    Intervento di Manutio »

    Domna Charola scrive
    tranciare giudizi
    Veramente i giudizi, per quanto ne so, si possono trinciare, non tranciare (verbo che oltretutto faceva venire la sincope ai vecchi puristi). In ogni modo, non intendevo fare niente di simile. La prossima volta, corregga Lei me, che l'avrò caro.
    Avatara utente
    Ferdinand Bardamu
    Moderatore
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    Iscritto in data: mer, 21 ott 2009 14:25
    Località: Legnago (Verona)

    Intervento di Ferdinand Bardamu »

    Domna, anch’io conosco bene la tirannía del conteggio parole e quanto sia frustrante accorgersi d’aver sforato per due o tre battute. Spesso ci si mette di piú a adattare il testo che a riscriverlo daccapo.

    Manutio, sono d’accordo riguardo all’error communis che diventa regola. Legittimare l’uso vuol dire accogliere acriticamente qualunque innovazione, anche la piú aberrante, come *piuttosto che per o oppure *settimana prossima.

    Non credo, però, che questa preoccupazione pel dilagare d’usi scorretti possa applicarsi sempre anche al caso dei forestierismi. Mi spiego: non che mi piaccia molto il modo d’esprimersi dei giornalisti; sono loro la causa principale dello snobbistico proliferare d’anglicismi inutili. Ma bisogna valutare caso per caso.

    Tra le parole inglesi — piú o meno camuffate — che i giornalisti, per pigrizia e snobbismo, cercano periodicamente di contrabbandare in italiano, ce ne sono alcune che, come scrisse Leopardi, «non sono di forma assolutamente discorde e ripugnante alle forme della propria lingua».

    Quindi, tra l’abbandonarsi al flusso degli eventi e l’innalzare barriere insuperabili, preferisco un giusto mezzo. Poi, capiamoci, io son d’accordo con lei nel dire che l’introduzione di questi calchi, soprattutto nel linguaggio dei giornali, finisce quasi sempre per soppiantare qualunque alternativa; per cui è utilissimo aprire filoni come questo e trovar sinonimi pienamente italiani. Non posso tuttavia convenire quando la critica si fa indiscriminata: io condannerei con molta piú energía gli sciagurati che dissero o scrissero per primi early adopter o influencer, per dire.

    Ricordiamoci, infine, che, nei primi secoli della nostra lingua, non si accolsero soltanto parecchi forestierismi di varia provenienza, ma addirittura suffissi, come -esco, -iere, -ardo che s’aggiunsero o s’affiancarono a quelli «consacrat[i] da un uso secolare». Tanto i forestierismi lessicali quanto i nuovi suffissi furono adattati alla nostra lingua, che fu «sí potente che i vocaboli accattati non la disordina[ro]no, ma ella disordin[ò] loro» (Machiavelli, Discorso intorno alla lingua).

    Mi scuso anch’io per la prolissità. :)
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