Tra virgolette, niente – Prontuario del malparlante
Inviato: lun, 13 mag 2013 18:30
Riporto quest'intervento di Guido Ceronetti, apparso su La Stampa del 12/4/92, in cui lo scrittore stigmatizza alcuni topoi dell'italiano contemporaneo:
Guido Ceronetti ha scritto:VEDIAMO le luci più brillanti del momento nello sterminato fluire dell'eloquio comune.
TRA VIRGOLETTE - Sta marciando fortissimo. Nessun segno di stanchezza. Usatissimo alla radio e per telefono. E' un sintomo di «morte della voce». La voce non sa più sottolineare, accentuare, rendere afferrabile un'ironia e dalla scrittura meccanica e dalla carta stampata gli sono venute incontro - prima farfalle innocenti, via via insetti micidiali succhiasangue e pestiferi - le virgolette. Hanno finito per usarle anche senza nessun bisogno: c'è chi spara due virgolette ogni trenta secondi. Gli Uomini di Cultura (e le donne anche più) sono tutti virgolettofaghi. L'uso ha un futuro. Per dire «mia figlia sta benissimo» suggerisco di dire «mia figlia è morta tra virgolette». (Naturalmente, lo scrivo tra virgolette).
STATUNITENSE - A poco a poco va sostituendosi ad americano, che mi pare infinitamente meglio. Forze armate, moneta, politica, arte, economia pigliano questo aggettivo unico tra le lingue del mondo (ma non c'è da vantarsene). Allora, meglio Usa aggettivato: moneta Usa, marina Usa. Presidente statunitense è piuttosto indigeribile. E valuta statunitense per il dire il vecchio sudicio onnipotente Dollaro è forbirsi la bocca col tovagliolo del nulla. Hemingway scrittore statunitense? Sinatra cantante statunitense? Gershwin compositore statunitense? Joe Louis pugno statunitense? Schwarzkopf generale statunitense? New York, Chicago, metropoli statunitensi? Abbiamo sempre detto, con perfetta chiarezza, americano. Un popolo, una nazione statunitense non sono mai esistiti. Nel bene e nel male, quel che è americano non è statunitense. Siamo ancora in tempo a fermare questa insensatezza.
NIENTE - Invece, niente, niente lo può fermare... Viene giù con violenza di slavina, cresce come una piena. L'origine psicologica ne è, forse, una delle innumerevoli forme di angoscia inconscia. Terrore del vuoto, di non riuscire più a dire la parola successiva, di non riempire l'intervallo di una pausa impercettibile, di non saper come incominciare quella cosa terrificante: una comunicazione qualsiasi, un dialogo... E così si sono buttati su: «E... niente...» che è una delle massime brutture del linguaggio di questi brutti anni. Quante persone fini, colte, sensibili, potrei multare (almeno di centomila) per non infrequenti niente intercalati in un discorso pur non indegno di chi sta parlando! Quanto alla massa bruta smitraglia i niente ogni momento senza ritegno, in tutti i luoghi e in tutte le occasioni. Con meraviglie di questo tipo, che al «desidera?» della commessa di negozio si risponda «niente», seguito da «una camicia», «un quintale di gorgonzola» o «tutto Shakespeare».
IMPATTO - Qui siamo nel Cuore della Tenebra. Impatto sta stravincendo, ha stravinto. Poveretti noi, non arresi, che seguitiamo a dire incontro, scontro, urto, collisione, cozzo, pressione: tra poco non saremo più capiti di un turco. Impatto ha la mania di essere primo: si tratta sempre del «primo impatto» (molto spesso: «con la realtà»: una coppia di drogati che mettono al mondo della sciagurata prole). Finora «ultimo impatto» non l'ho captato. Ma spesso, sui giornali, buttando l'amo a caso, pesco «impattare», anche in articoli con firme rispettabili. Scrittori nuovi, per i quali ormai l'italiano è come un molare guasto da buttar via, e politologi di grido adoperano impatto con tranquilla noncuranza di delinquenti incalliti. Dire impatto nasconde vigliaccheria: in italiano non risveglia nulla, ma scolora e nasconde. Chi è spaventato da ogni minimo urto, preferisce avere un impatto. Impatto è pattumiera linguistica, ma dicendo questo si rischia di farlo prosperare di più. Impattate pure, io, con le poche forze che mi restano, seguiterò a urtarmi, scontrarmi, con un certo gusto.
IN POSITIVO IN NEGATIVO - Li trovi accoppiati o separati da una mezza frase; per lo più uno non può stare senza l'altro, due spettri freddolosi che si tengono per mano per mostrare la loro nudità macabra, e a chi la mostrano? A tutti i livelli, che devono essere una famiglia numerosissima. La esibiscono anche nei più reputati baracconi universitari. Come surrogati di «in favore» e «contro», che restano guizzanti, in un parlare non mallarmeano, quei due squallidi maccabei «in positivo in negativo», passati dalla tecnica fotografica, dove erano perfettamente al loro posto, al bordello della confusione arrogante, sono di pura usurpazione.
GROSSO - Un altro Behemòt che continua a caricare col suo corno preistorico di minaccia. Di grande non si tollera più niente, ma se il grande lo si grossifica potrà avere il passaporto. Il grande Artista, diventando grosso, avrà diritto di circolare ancora, però quel grosso è una specie di stella gialla, di campanella del lebbroso. Inoltre, se grande distingueva, e veniva dato con cautela, grosso è un distintivo totalitario, buono per le cappelle come per le fogne. Spesso diventa anche grossissimo. Pur nella sua materialità il successo è bello se grande o grandissimo. Invece no: il successo è grossissimo. Se Accardo esegue mirabilmente Bach, è un grosso che esegue un grossissimo, e il successo che otterrà non sarà meno grosso. Il Behemòt non tollera finezze. Il Behemòt ci vuole tutti grossi come lui. Dio mio, che dicano pure di me che sono un piccolo, un piccolissimo scrittore! Ma non dicano che sono grosso. Meglio nulla, nessuno, che grosso. Dici che non lo sono, dirai che non lo sono stato? Grazie.
A RISCHIO - A esserlo sono, è un'abitudine, le categorie. Ma che cosa sia una «categoria a rischio» non è chiaro. C'è paura di dire qualsiasi cosa, questa è la verità. C'è perfino la paura di dire «gente». Queste lattiginose, né aristoteliche né kantiane «categorie», che il linguaggio caccia nel limbo delle semi-esistenze, non sarebbero, in fondo, che della gente. Talvolta anche delle canaglie. O dei poveracci. Un parlare sano direbbe «gente che rischia di...». Ma si tratta di esseri umani. Certe volte la Categoria si estende al Pianeta che ha la sventura di ospitare l'intelligenza che ci distingue; così si sente dire che (per contagi vari, radioattività, smog, raggi X cosmici) «siamo a rischio». Rischio non è una brutta parola, ma nasconde il verme della rimozione. Essere «a rischio» è meno allarmante che «essere in pericolo». Stremato dall'abuso, il rischio si perde nell'insignificante. Dunque la Categoria detta a rischio è un Nessuno che essendo a rischio, pur essendo realmente in pericolo, non rischia, per effetto della rimozione, al di là della mera espressione a rischio, niente. E' quasi una felicità essere una categoria a rischio. Però non tanto. Per la categoria a rischio non si muove, giustamente, nessuno; per della «gente in pericolo» qualcuno si muove. «Uomo in mare» si grida, ancora, nelle Marine: e qualcosa si fa, per l'uomo in mare, la nave si mette in agitazione. Ma se dal parapetto si grida «categoria a rischio» l'uomo che sta per annegare, disgustato di non essere più neanche un «uomo in mare» non lotterà più per tenersi a galla. Come succede per le «categorie a rischio».