Smaralda ha scritto: Si dovrebbe parlare, mi par di capire, della "Cantata sopra l’arciacalascione"(Giuseppe Porsile – 1680-1750)
Mi sono fatta alcune idee: innanzitutto, che ci siano almeno due chiavi di lettura: una letterale e l’altra metaforica. Intravvedo diversi possibili riferimenti sessuali, in particolare nelle prime tre strofe(si sa bene che all’epoca la letteratura musicale pseudo-popolare traboccava di questi ammiccamenti maliziosi).
E visto che l’ortografia dei trascrittori è spesso zoppicante e non fa fede, mi domando se non si parli del” calamaro ‘e (Mas)Aniello”(di Masaniello) con probabile allusione al suo mestiere; o se l'uccello”cecato”non sia il richiamo da caccia,che canta più intensamente a causa della bella foretenella.
“Ahi, marenaro mio!”sarebbe un’esclamazione di auto compatimento usata come inciso.
L’uccello (alter ego di Ambruoso) si allontana dalla riva (e da “quell’ingrata”), e ricomincia a cantare.
La chiusura è la classica morale, in soldoni :state lontani dalle donne se no vi rovinate come ho fatto io.
Le allusioni sessuali, effettivamente abbondantissime in altre cantate in napoletano, mi sembrano assenti in questa; l'unico candidato mi pare che possa essere il verso
chi vò lo purpo addoruso?. Ma in ogni caso prima di valutare con serenità i possibili sottotesti vorrei avere una comprensione precisa del testo. In particolare,
aniello è effettivamente scritto nel manoscritto con l'iniziale alta,
Aniello (come anche
Arcecalascione, però: quindi forse non è significativo). Ho pensato dapprima quindi che si trattasse di un nome; poiché però non c'è alcun Aniello nella cantata, sarà l'Aniello per antonomasia, cioè Masaniello. D'altra parte vi sono molte composizioni cantate, anche contemporanee di Porsile, che hanno ad oggetto i noti fatti del 1647 (tra cui almeno due
Lamenti di Marinetta, la moglie di Masaniello).
L'ipotesi è dunque certamente verosimile, a patto di accettare la lettura
lo calamaro 'e Aniello, lettura che viceversa è improbabile perché all'epoca l'aferesi delle preposizioni era davvero sconosciuta e tale sarebbe restata fino al secolo scorso. Ma il senso e l'aspetto linguistico dei versi discussi continuano a sfuggirmi. Ad esempio: i due
aje / aie che cosa sono? verbo, interiezione?
Con l'occasione voglio anche confermare che l'ipotesi suggeritami da Ippogrifo qualche mese fa (aniello=agnello) è probabilmente giusta: ho trovato sufficienti conferme che ho recepito nelle note al testo (l'edizione è ancora inedita e la casa editrice non risponde, sicché inizio a disperare). Le riporto qua.
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Aniello non è un personaggio, né un anello, bensì
ainiello, cioè «agnello» (registrato in tutti i dizionari s.v.
àino o
ainiello). Non solo a Napoli ma in molte città si riteneva ancora fino a pochi decenni fa la carne superiore al pesce, e tra le carni quella dell’agnello era sinonimo di pietanza prelibata. Per sincerarsene basta leggere i tre grandi secentisti, che affidano al cibo spazio narrativo notevole ma che riservano ai pesci il ruolo di mero sostentamento alimentare e non di gratificazione gastronomica, contrariamente alla carne e ai vegetali.(10) Tra i possibili esempi si veda infatti Pompeo Sarnelli nella «ntroduzzione» alla
Posilecheata:11
Chesto poco ’mporta, responnette Marchionno (ch’accossì se chiammava lo miedeco), non sapite vuje ca è cchiù goliuso lo pesce che la carne? Pe la quale cosa li Rommane de la maglia antica chiammavano l’huommene dellecate Ichthiophagi, cioè magna pisce.
Questo poco importa, rispose Marchionno (che così si chiamava il medico), non sapete voi che è più buono il pesce che la carne? perciò gli antichi Romani chiamavano ittiofagi gli uomini delicati, cioè mangia-pesce.
Qui il narrante va a trovare un amico facendogli una sorpresa; l’amico ne è felice e lo accoglie festoso, ma dopo un po’ si aggiunge – autoinvitatosi a pranzo ma non altrettanto gradito – un altro ospite, il medico. Il padrone di casa è ospitale, e si scusa col medico, perché non sapeva delle due visite e perciò per pranzo c’è solo pesce; sottintendendo che se fosse stato avvertito il pranzo avrebbe sicuramente compreso della carne. Ma non è un problema per l’ingordo, il quale non vuole rinunciare e risponde che in fondo a ben vedere il pesce è più pregiato della carne; e dalle scuse del padrone di casa come dalla replica dell’ospite è evidente che l’opinione comune associava alla carne una qualità superiore a quella del pesce. Sgruttendio, quarta corda, sonetto XXIII, ci dà inoltre l’occasione di ricordare l’espressione tuttora in uso
mmità a carne e maccarune «invitare a carne e maccheroni», cioè invitare a qualcosa di pregiato, di certamente gradito (simile alla locuzione italiana invitare a nozze):
Sso panno russo e sso dobretto ianco
Che puorte, Sirvia, sò cose azzellente!
Dì: fuorze fosser uovo, o veramente
Sò carne e maccarune? Aimé ch’ allanco!
Quel panno rosso e quel bel tessuto bianco
che porti, Silvia, sono cose eccellenti!
Di’: sono forse uovo o piuttosto
sono carne e maccheroni? ahimé, muoio di fame!
Anche Basile III, 2, «La Penta mano-mozza» sembra avvalorare il maggior pregio riconosciuto alla carne:
voze sentire tutta sana la storia de le desgrazie c’aveva passato: da che lo frate, per l’essere negato lo pasto de carne, la voleva fare pasto de pisce, fi’ a chillo iuorno c’aveva puosto pede a lo regno suio.
volle sentire tutta intera la storia delle disgrazie che aveva passato: da quando il fratello, per essergli stato negato un pasto di carne, aveva voluto farne pasto di pesci, fino al giorno in cui aveva messo piede nel suo regno.
10 Cfr. Maria Panetta, «Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese, Sgruttendio», in
La sapida eloquenza. Retorica del cibo e cibo retorico, a cura di Cristiano Spila, «Semestrale di studi (e testi) italiani», 12, Roma, Bulzoni, 2003.
11 Pompeo Sarnelli,
La Posilecheata de Masillo Reppone, Napoli, presso Giuseppe Roselli, 1684.