Grafia dell’«a» vocativa in romanesco
Inviato: sab, 28 dic 2013 19:12
In romanesco il vocativo può essere accompagnato, per enfasi, da una particella, a, come in «A’ Mario, che sta’ a·ffà?». Questa particella, che io raccosterei nella funzione alla classica interiezione o, è proclitica e non dà luogo a cogeminazione.
In rete qualcuno la definisce «la preposizione del vocativo», facendo intendere che sia un elemento indispensabile per la formazione di questo caso. Tuttavia, mi pare che la sua presenza non sia una condizione necessaria (mi smentiscano i parlanti del romanesco): «Mario, che sta’ a·ffà» è altrettanto possibile.
È dunque un’interiezione? A ben vedere, no: al contrario delle interiezioni propriamente dette, che sono «priv[e] di legami sintattici con le altre parti del discorso» (Enciclopedia dell’Italiano, s.v. «Interiezione»), questa particella appare vincolata al nome che accompagna, e non corrisponde «a un intero atto linguistico» (ibidem). Queste caratteristiche, in aggiunta all’assenza di accento proprio, l’avvicinano effettivamente piú alla preposizione.
Tutto ciò ci fa escludere la grafia con l’acca: «Ah Mario…», anche perché una frase cosí scritta implicherebbe una pausa fra «Ah» e «Mario». La semplice ‹a› potrebbe essere interpretata come la preposizione del dativo, e recherebbe con sé anche il raddoppiamento fonosintattico, assente, come abbiamo detto, nella nostra particella. La soluzione a cui ho pensato è «a’», che escluderebbe la cogeminazione e si può raramente confondere con l’apocope posvocalica di ai, ché una tale interpretazione renderebbe, nella maggior parte dei casi, la frase incongruente (mi viene in mente, cosí, all’impronta: «A’ cani, a’ sciartroni, annàtevene súbbito!», che è tuttavia difficilmente equivocabile). Non so però se tale grafia abbia l’avallo della tradizione, né se possa trovare giustificazione. Che ne pensate?
In rete qualcuno la definisce «la preposizione del vocativo», facendo intendere che sia un elemento indispensabile per la formazione di questo caso. Tuttavia, mi pare che la sua presenza non sia una condizione necessaria (mi smentiscano i parlanti del romanesco): «Mario, che sta’ a·ffà» è altrettanto possibile.
È dunque un’interiezione? A ben vedere, no: al contrario delle interiezioni propriamente dette, che sono «priv[e] di legami sintattici con le altre parti del discorso» (Enciclopedia dell’Italiano, s.v. «Interiezione»), questa particella appare vincolata al nome che accompagna, e non corrisponde «a un intero atto linguistico» (ibidem). Queste caratteristiche, in aggiunta all’assenza di accento proprio, l’avvicinano effettivamente piú alla preposizione.
Tutto ciò ci fa escludere la grafia con l’acca: «Ah Mario…», anche perché una frase cosí scritta implicherebbe una pausa fra «Ah» e «Mario». La semplice ‹a› potrebbe essere interpretata come la preposizione del dativo, e recherebbe con sé anche il raddoppiamento fonosintattico, assente, come abbiamo detto, nella nostra particella. La soluzione a cui ho pensato è «a’», che escluderebbe la cogeminazione e si può raramente confondere con l’apocope posvocalica di ai, ché una tale interpretazione renderebbe, nella maggior parte dei casi, la frase incongruente (mi viene in mente, cosí, all’impronta: «A’ cani, a’ sciartroni, annàtevene súbbito!», che è tuttavia difficilmente equivocabile). Non so però se tale grafia abbia l’avallo della tradizione, né se possa trovare giustificazione. Che ne pensate?