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[v] epentetica

Inviato: sab, 11 gen 2014 12:38
di Ferdinand Bardamu
Qui ho ricostruito un probabile esito popolare della parola gratuíto, con accentazione originaria, in un *gratovíto, aggiungendo che la «[v] epentetica […] evita l’incontro di due vocali in iato».

Nel Rohlfs, però, leggo questo:

Si tratta di un suono [il «suono di transizione fra due vocali»] che non ha affatto il compito di evitare lo iato (nelle lingue neolatine non c’è alcuna avversione contro lo iato), ma che è provocato per ragioni puramente fonetiche dalla stretta che si viene a formare piú o meno accentuatamente nel passaggio dall’una emissione vocalica all’altra: frammezzo ai due suoni vocalici (suoni aperti), se ne forma uno stretto, una costrizione, vale a dire una consonante. (Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, «Einaudi», 1966, vol. I «Fonetica», § 339)

Vi chiedo dunque: è (ancora) plausibile questa giustificazione del suono epentetico? La presenza, in antico, di forme come beúto e aúto per bevuto e avuto, accanto ad altre forme con inserzione consonantica come ragunare (< raunare) e Pàgolo (< Paolo), mi fa pensare che, forse, sia cosí.

Inviato: sab, 11 gen 2014 20:14
di Scilens
Pensavo a ruvido da ruidus e rovina da ruina che sarebbero dovuti essere stati scritti *ruuidus e *ruuina, e a 'fluido', che invece non ha la forma 'fluvido'...

Inviato: sab, 11 gen 2014 21:25
di Carnby
Scilens ha scritto:'fluido', che invece non ha la forma 'fluvido'...
... perché è chiaramente una voce dotta. :wink:

Inviato: sab, 11 gen 2014 22:11
di Luca86
Mi pare di aver incontrato qualche povèta e povesìa nei Sonetti romaneschi del Belli, ma potrei ricordare male. Suppongo che questo fenomeno sia molto più produttivo nei dialetti (come nel romanesco belliano, ad esempio) che in italiano. Sbaglio?

Re: [v] epentetica

Inviato: sab, 11 gen 2014 22:12
di u merlu rucà
Ferdinand Bardamu ha scritto:Qui ho ricostruito un probabile esito popolare della parola gratuíto, con accentazione originaria, in un *gratovíto, aggiungendo che la «[v] epentetica […] evita l’incontro di due vocali in iato».

Nel Rohlfs, però, leggo questo:

Si tratta di un suono [il «suono di transizione fra due vocali»] che non ha affatto il compito di evitare lo iato (nelle lingue neolatine non c’è alcuna avversione contro lo iato), ma che è provocato per ragioni puramente fonetiche dalla stretta che si viene a formare piú o meno accentuatamente nel passaggio dall’una emissione vocalica all’altra: frammezzo ai due suoni vocalici (suoni aperti), se ne forma uno stretto, una costrizione, vale a dire una consonante. (Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, «Einaudi», 1966, vol. I «Fonetica», § 339)

Vi chiedo dunque: è (ancora) plausibile questa giustificazione del suono epentetico? La presenza, in antico, di forme come beúto e aúto per bevuto e avuto, accanto ad altre forme con inserzione consonantica come ragunare (< raunare) e Pàgolo (< Paolo), mi fa pensare che, forse, sia cosí.
Si tratta evidentemente di una possibilità, non di una regola assoluta. Nel mio dialetto si dice avùra 'ora, adesso', pescavù 'pescatore', mentre in dialetti vicini si dice aùra e pescaù; per contro si dice üa 'uva' mentre il genovese ha üga.

Inviato: dom, 12 gen 2014 10:42
di Scilens
Carnby ha scritto:
Scilens ha scritto:'fluido', che invece non ha la forma 'fluvido'...
... perché è chiaramente una voce dotta. :wink:
Ne ero quasi sicuro.
Aggiungendo anche gli esempii di Luca viene da pensare a forme ipercorrette per 'parlar bene' in dialettofoni consapevoli di mangiarsi qualche consonante come succede in toscano e romano.

RE: EPENTESI DI -V-

Inviato: dom, 12 gen 2014 15:13
di ippogrifo
Il paragrafo citato in apertura del filone è un tipico paragrafo del Rohlfs. Contraddistinto dai tipici pregi e difetti. Pregi, sostanzialmente, uno: il grande numero di esempi proposti. Difetti: diversi.
  1. Ammesso, ma non concesso, che sia indiscutibile il tentativo d’identificare una motivazione esplicativa a livello fonatorio, espressa, per altro, in un linguaggio che molti studiosi non esiterebbero a definire “prescientifico” siamo in un ambito linguistico in cui – purtroppo o fortunatamente – non esiste una semplice relazione lineare di causa → effetto come nella fisica elementare proposta ai bambini della scuola: forza di gravità → lascio la presa sull’oggetto → l’oggetto cade lungo la verticale etc. Inoltre, pur tentando di attribuire un significato accettabile alla spiegazione espressa in modalità molto poco chiare, non si riesce a andare oltre l’inserzione di “approssimanti” (gli studiosi di lingua inglese parlano, in questi casi, di “glides”), come avveniva in pronunce anche italiane - oggigiorno decisamente ultraminoritarie - del tipo di “Lu(w)isa” o “ijo” per “io” (riscontrabile, ad es., nel linguaggio di alcuni bambini piccoli). Comunque, non vere e proprie consonanti; almeno non direttamente. Non si può accettare, in linguistica, un singolo principio esplicativo, come se, davvero, esistesse una vera e propria “costrizione fonatoria” che “obbliga” il parlante a emettere un determinato fonema in un determinato contesto. Quasi con una “necessità” riscontrabile in altri tipi di paradigmi scientifici: le leggi elementari della fisica spiegate ai bambini. Princìpi esplicativi così semplici, in linguistica, vanno rifiutati perché non “reggono”, ma, soprattutto, perché tendono a produrre l’effetto di rendere “semplici” le nostre capacità mentali di ragionamento e di non contribuire affatto a svilupparle adeguatamente!
  2. Questo tentativo di spiegazione, inoltre, ignora altri fenomeni socialmente e culturalmente molto importanti in linguistica; anche perché non chiarisce tempistiche storiche ben definite, quali, ad es., l’ipercorrezione, fenomeno che, in questi casi, incrocia gli aspetti dell’analogia. Ad es., le generazioni (si tratta soltanto di un’ipotesi proposta a mero titolo esemplificativo) in cui si ascoltava pronunciare - e si diceva - “s’andaa” o “s’arria” per “andavamo” o “arriviamo” avrebbero potuto, in dipendenza della determinazione temporale del fenomeno fonetico e del fatto che erano (comunque, sia pure in maniera maggiore o minore a seconda dei casi) esposti a registri linguistici più “formali”, tendere a ripristinare la -v- non solo nell’imperfetto dei verbi. Certo, per proporre l’ipotesi occorrerebbe possedere un quadro temporale affidabile delle relative evoluzioni linguistiche.
  3. Allo stesso modo, non si può assolutamente escludere che in latino si pronunciasse già “ru’(w)i:na” come alcuni studiosi si mostrano propensi a ritenere. Certamente, si diceva soltanto [a’ma:wi:] per “amavi” (amai) e, molto probabilmente, [‘fuwi:]: analogia (?) o anche altro (?), per “fui” (fui). Quindi, postulare un unico principio esplicativo per una molteplicità difforme di casi è riduttivo.
  4. A maggior ragione - e qui entra in scena la saggia osservazione del Merlo che assurge a valore paradigmatico - se gli esempi che dovrebbero essere “spiegati” dallo stesso principio sono tra loro differenti e soprattutto appartengono a sistemi - o anche solo a sottosistemi, com’è il caso del genovese e del ventimigliese - diversi. La “spiegazione” che “vale”, ammesso che si riscontri davvero e che “regga”, per un sistema linguistico, in generale non si può “trasferire” “telle quelle” a un altro. Soprattutto, quando i fenomeni fonetici esibiti dai due sistemi sono l’uno l’opposto dell’altro. Come dimostra l’esemplificazione banale della contraddizione insita nel sistema ligure di cui le due varietà citate non rappresentano altro che due sottosistemi, cioè due segmenti, per altro, non contigui. E, a rigor di logica, un solo controesempio inficia l’assunto. Residuano ancora due aspetti negativi:
  5. il mancato riferimento a quanto il Rohlfs stesso scrive a proposito del fenomeno inverso: la caduta di -v-, ad esempio. Se un principio esplicativo risulta essere davvero tale, esso non solo mi deve spiegare perché -v- si origina (quando si origina), ma anche perché “cade”, quando cade. E, soprattutto, le due spiegazioni non devono esitare in una contraddizione. Il Rohlfs - forse, anche perché scrive moltissimo - non si pone il problema costituito dal fatto che siamo di fronte alla “tipica” medaglia a due facce: “aggiunta/caduta” dello stesso suono e, di conseguenza, necessità di spiegazione di ambo i fenomeni ed eventuale successione temporale di cui tra l’altro non è affatto scontata l’isocronia nelle diverse aree regionali.
  6. L’ultimo problema è costituito da un’affidabilità non sempre impeccabile. Parlo, ad es., relativamente al genovese. Su cui almeno posso essere certo. La gran parte dei riferimenti e delle spiegazioni addotte nel testo - non solo nel paragrafo in oggetto - risultano essere errate. In alcuni casi la responsabilità va attribuita direttamente agli autori che il Rohlfs cita. E mi rendo ben conto che non potesse verificare tutte le loro affermazioni. Ma, in alcuni casi (forse per eccessiva furia), è il Rohlfs stesso che interpreta male analisi per altro originariamente corrette. Tale è il caso (risparmio a tutti i dettagli) dell’anaptissi vocalica in genovese che chiude il paragrafo, che non ha molto a che vedere col tema e che soprattutto non si effettua come descritto dall’autore.
P.S.: Tutto ciò scritto, occorre anche chiarire che il Rohlfs fu un grande studioso. Non un “barone” da scrivania. Che all’epoca partecipò alle gloriose campagne dell’AIS e si sporcò molte volte le scarpe andando a intervistare direttamente i pastori calabresi sulle loro montagne, abbandonando, sia pure provvisoriamente, la confortevole sede universitaria in Germania. Prova ulteriore (se ce ne fosse bisogno) che l’onnipotenza, e l’onniscienza, non vengono concesse agli umani.

Inviato: dom, 12 gen 2014 17:29
di Ferdinand Bardamu
Bellissimo intervento, caro ippogrifo. La ringrazio: ha esposto con chiarezza e precisione dubbi che nutrivo anch’io.

Inviato: dom, 12 gen 2014 20:22
di Scilens
L'intervento di Ippogrifo mi ha fatto venire in mente uno studioso, non ne ricordo il nome, che ha notato che i bambini tendono a ricostruire, nei loro errori, una lingua arcaica. Nei loro errori traspondono la logica stringente della loro lingua, sono coerenti e conoscono poche eccezioni. Che sono eccezioni. Questa lingua, non parlata, riporta ad un miscuglio che non è solo latino, riporta a qualcosa di precedente, che è sconosciuto, ma ha una propria logica perfettamente coerente. Qualcuno si ricorda chi sia?

RE: EPENTESI DI -V-

Inviato: dom, 12 gen 2014 20:23
di ippogrifo
Sono io a ringraziare lei, caro Ferdinand, per l'interesse e la pazienza nella lettura :wink: dimostrati.

Inviato: dom, 12 gen 2014 20:42
di u merlu rucà
Scilens ha scritto:L'intervento di Ippogrifo mi ha fatto venire in mente uno studioso, non ne ricordo il nome, che ha notato che i bambini tendono a ricostruire, nei loro errori, una lingua arcaica. Nei loro errori traspondono la logica stringente della loro lingua, sono coerenti e conoscono poche eccezioni. Che sono eccezioni. Questa lingua, non parlata, riporta ad un miscuglio che non è solo latino, riporta a qualcosa di precedente, che è sconosciuto, ma ha una propria logica perfettamente coerente. Qualcuno si ricorda chi sia?
John Locke

Re: [FT] Formattazione del testo

Inviato: mar, 14 gen 2014 10:43
di Infarinato
ippogrifo ha scritto:Sono io a ringraziare lei, caro Ferdinand, per l'interesse e la pazienza nella lettura :wink: dimostrati.
La ringrazio anch’io, caro Ippogrifo, ma la inviterei a usare «con minor parsimonia» le opzioni di formattazione del testo offerte dal nostro fòro (nonché i [veri] simboli dell’alfabeto fonetico internazionale), che renderebbero assai piú agevole la lettura dei suoi talora lunghi interventi. ;)

Grazie. :)

Re: [FT] Formattazione del testo

Inviato: lun, 20 gen 2014 16:51
di Ferdinand Bardamu
Infarinato ha scritto:La ringrazio anch’io, caro Ippogrifo, ma la inviterei a usare «con minor parsimonia» le opzioni di formattazione del testo offerte dal nostro fòro (nonché i [veri] simboli dell’alfabeto fonetico internazionale), che renderebbero assai piú agevole la lettura dei suoi talora lunghi interventi.
Mi sono permesso di disporre l’intervento in una lista numerata e di togliere alcuni incisi delimitati da un trattino, che rendevano poco agevole la lettura.