«Introduzione alla lingua poetica italiana»
Inviato: mar, 18 gen 2005 13:54
Qualche giorno fa, durante una piacevole conversazione tra amici, mi si è ripresentata una domanda in qualche modo relativa a "una" vexata quaestio, ormai poco dibattuta nei circuiti accademici (ma sempre viva!), che già "qualche" anno fa, nel più fervente clima strutturalista, si era presentata più o meno sotto questa forma: che cosa rende un «testo» un «testo poetico/letterario»?
L'argomento, e questo è il mio parere, oggi sembrerebbe lusingare soprattutto il lettore più ingenuo, aduso alle sole letture scolastiche per cui l'alterezza di un professore custodirebbe ancora, e a buon diritto, l'origine confusa di un pur vago principio di letterarietà, sempre applicabile in quella cornice istituzionale (ormai fagocitante "ogni-cosa") che ha nome «Arte». Ribadire questo atteggiamento del lettore, per proporlo come "il" principale elemento in grado di distinguere ciò che è letterario da ciò che non è letterario, pare fatica sprecata se ci rivolgiamo a chi ad ogni modo crede ancora al miraggio di una «differentia specifica», isolata in certe forme "esterne" della letteratura (come la metrica, la prosodia etc.).
Tuttavia, se parliamo di «lingua», specialmente in poesia, si può sì affermare una «differentia», soprattutto per la nostra tradizione letteraria in versi, almeno fino ai primi del '900. Raccoglierei quindi uno degl'inviti d'Infarinato, stendendo due parole sul lavoro, di qualche anno fa, molto ben fatto, di Luca Serianni «Introduzione alla lingua poetica italiana», Carocci 2001 – rendendovi poi partecipi di una brevissima, quanto personale riflessione sulla lingua poetica di uno dei nostri maggiori autori.
Il saggio (immagino ben conosciuto) è portato da una volontà estremamente attenta nel valutare quelli che il Serianni stesso chiama «istituti grammaticali» della lingua poetica; ovvero, sceverando gli aspetti più propriamente linguistici, indica i «ferri del mestiere poetico di là da ogni intenzione d'arte; in una parola: la loro appartenenza alla grammatica poetica dell'italiano classico» etc. (ma basterebbe leggere il breve Ambito e metodi d'indagine di pp. 11-41 per avere un'idea più esatta...).
Vorrei qui tentare, allora, una piccola riflessione (non del tutto libero dal timore di annoiarvi), naturalmente ancorata al lavoro del Serianni (o meglio, a una più recente rilettura del suo lavoro), intorno ai primi 57 versi del primo canto del Paradiso dantesco [che non trascrivo (dal Petrocchi), ché non ce ne sarebbe alcun bisogno!]. Una riflessione di stilistica, ma anche di «grammatica poetica», per un autore, al riguardo, estremamente sfuggente...
Riproponendo quindi (umilmente!) l’impostazione indicata dal Serianni nel suo lavoro (ripeto: relativamente ai primi 57 vv. di Pd I), a parte i casi di evidenti sicilianismi o provenzalismi, tutto sommato resterebbe dubbia l’individuazione di quali forme possano comparire indiscutibilmente sotto la dicitura di “franchi poetismi”, soprattutto considerando che proprio da Dante la tradizione successiva, (e soltanto) con l’irrinunciabile mediazione petrarchesca, raccoglierà molte delle forme considerate e catalogate dallo stesso Serianni. Delineare qui la “grammatica poetica” di un autore come Dante presenterebbe allora una fondamentale difficoltà: quali elementi della lingua adoperata dall’autore possono di fatto esibire, in sincronia “dantesca”, una sicura marcatezza poetica, là dove il rapporto con la recente tradizione letteraria è complicato dal cosiddetto “plurilinguismo” dantesco? Sarebbe ottima cosa, quindi, distinguere subito le marche dello stile elevato già caratteristico del Paradiso, presentando distintamente quegli elementi d’uso poetico, condizionati dalla precedente tradizione letteraria, riferibili in ultimo a una più esatta (e preesistente) “istituzione grammaticale”.
Sotto il profilo fonetico, dunque, tra le forme che si segnalano, al primo verso compare move, variante “dotta” di «muove», legata alla tradizione siciliana per il vocalismo tonico monottongato (attiva anche la tradizione provenzale). Lo stesso tratto sarebbe presente nel loco del verso 56, in cui si potrebbe registrare anche il consonantismo sordo – altro connotato, in alcuni casi, indice di una più decisa qualificazione poetica, specie se latineggiante.
Al verso 7 incontriamo disire, il cui vocalismo siciliano ne indica l’appartenenza al linguaggio poetico.
Non agevole l’individuazione di ire al verso 9: sarebbe più cauto considerare questo verbo come un generale latinismo, piuttosto che una forma tipica e già schiettamente poetica – ma lo statuto di latinismo qui assume un suo valore specifico, in una lingua che riscopre evidentemente il proprio riferimento più illustre nella tradizione letteraria latina.
Dimandi al verso 15: sebbene il vocalismo protonico esibisca una patina linguistica in qualche modo trascelta, anche secondo quanto suggerito dal Serianni (p.33), non andrebbe considerato come poetismo, di contro alla più consueta forma con vocalismo labializzato; e, del resto, nemmeno il referente etimologico latino suggerisce una valutazione in qualche modo discriminante. Lo stesso amendue, al verso 17, risulterebbe essere una forma fiorentina non marcata stilisticamente. Non franco poetismo nemmeno uopo, al verso 18 (qui privo della relativa coloritura arcaizzante), il cui uso sarebbe forse da ascrivere al più generico stile elevato (tuttavia libero dall’influsso latino). Per l’intrar al verso 18, andrebbe segnalato il vocalismo latineggiante, attivo anche in triunfare (al verso 29), parturir (verso 31), retro (v. 35), Surge (v. 37) e, più di tutto, in licito che, insieme a lece (v. 56), d’uso comune nel Duecento e nel Trecento, figureranno nel Petrarca lirico. Per mercé al verso 56, è preferita la variante latineggiante su quella provenzale-siciliana merzé. Rimaso, del verso 18, apparterrà alla tradizione e vi figurerà come franco poetismo, anche d’uso semplicemente letterario nell’800, sino alla Ventisettana manzoniana; già adoperato da Guittone, da Cavalcanti, sconosciuto al Guinizzelli, Dante sembrerebbe averlo inserito solo nella Commedia (otto occorrenze in tutto; contandone poi tre nella sola prosa del Convivio...).
Abbastanza ricco il drappello dei latinismi: gloria (v. 1), universo, penetra, risplende (v. 2), intelletto (v. 8 ), memoria (v. 9), regno, santo (v. 10), mente (v. 11), materia (v. 12), ultimo (v. 13), spira (v. 19), Marsia (v. 20), vagina, membra (v. 21), divina (v. 22), beato (v. 23), manifesti (v. 24), coronare (v. 26), cesare, poeta (v. 29), umane (v. 30), il già ricordato parturir, letizia (v. 31); delfica, deità (v. 32), peneia (v. 33), mortali (v. 37), mondana (v. 41), modo, tempera (v. 42), emisperio (v. 45), sinistro (v. 46), vidi (v. 47), atto (v. 52), immagine (v. 53), fissi, uso (v. 54), licito (v. 55), mercé, loco (v. 56). La densità delle voci dotte aderisce auspicabilmente allo stile elevato in qualche modo riconducibile all’aptum della terza cantica.
Schietto poetismo è però il condizionale siciliano in ia del verso 32, dovria. Riguardo all’avea del verso 43, con Serianni, «le forme senza labiodentale, abituali nell’italiano antico, hanno rappresentato per molti secoli un’alternativa non marcata, o debolmente marcata, rispetto alle forme concorrenti (almeno per la classe in -ere)» (pag. 184); avea andrà ancora considerato come uno strumento utile al giusto computo sillabico, o più semplicemente abituale in poesia, senza escludere l’uso prosastico.
Il fiorentinismo arcaico giugne del verso 39, in Dante, non sarebbe poetismo (tant’è che nella Vita Nuova e nel Convivio compare soltanto nella prosa). Ancora l’unquanco al verso 48 non apparterrebbe alla lingua poetica, e rispecchierebbe alcuni tratti demotici non fiorentini.
Da ascrivere allo stile poetico sono invece le numerose forme apocopate o elise: ciel (v. 4), quant’ (v. 10), far (v. 11), valor (v. 14), dar (v. 15), or (v. 17), intrar (v. 18 ), vedra’, parturir (31), miglior (v. 35), tal (v. 44), riguardar (v. 47), pellegrin, tornar (v. 51); gran (v. 34) e, in particolar modo, piè (v. 24), le cui apocopi sono sillabiche. In senso contrario andrebbe quel buono al verso 13, in forma piena davanti a parola iniziante con vocale.
Di passaggio si segnalano le preposizioni articolate analitiche de la, de le (v. 21), ne l’ (v. 53), de l’ (v. 57), di cui è già probabile la pronuncia intensa della laterale.
Infine l’epitesi del rimante tue al verso 19.
Autentici poetismi lessicali, riconducibili a una sicura relazione con la tradizione letteraria precedente, allora sarebbero solo move, disire, dovria e, nonostante l’affricata palatale, mercé (forse anche suso, ampiamente adoperato dall’“amico” Cino da Pistoia).
Per quel che riguarda la microsintassi: oltre alle consuete e più generali anastrofi del predicato verbale, e, poniamo, alle costruzioni marcate retoricamente come il chiasmo del verso 3 «in una parte più e meno altrove», si segnala la precessione del complemento partitivo al verso 4: «che più de la sua luce prende»; e ai versi 10/11 «quant’io del regno santo ... potei far tesoro»; soprattutto del complemento di specificazione, al verso 14: «fammi del tuo valor si fatto vaso». Una qualche marcatezza è rintracciabile nell’anteposizione del participio passato in «Fatto avea», al verso 43. La locuzione preposizionale ‘in + su’ per i complementi di stato in luogo, ai vv. 31 e 46: «in su la lieta /delfica deità», «in sul sinistro fianco» (in cui si può anche notare, per la struttura del sintagma nominale, la successione determinante/determinato, già altrove in v. 40 miglior corso, migliore stella; v. 30 umane voglie; v. 23 beato regno; v. 22 divina virtù; e, in direzione opposta, col possessivo, al v. 19, petto mio etc.).
L'argomento, e questo è il mio parere, oggi sembrerebbe lusingare soprattutto il lettore più ingenuo, aduso alle sole letture scolastiche per cui l'alterezza di un professore custodirebbe ancora, e a buon diritto, l'origine confusa di un pur vago principio di letterarietà, sempre applicabile in quella cornice istituzionale (ormai fagocitante "ogni-cosa") che ha nome «Arte». Ribadire questo atteggiamento del lettore, per proporlo come "il" principale elemento in grado di distinguere ciò che è letterario da ciò che non è letterario, pare fatica sprecata se ci rivolgiamo a chi ad ogni modo crede ancora al miraggio di una «differentia specifica», isolata in certe forme "esterne" della letteratura (come la metrica, la prosodia etc.).
Tuttavia, se parliamo di «lingua», specialmente in poesia, si può sì affermare una «differentia», soprattutto per la nostra tradizione letteraria in versi, almeno fino ai primi del '900. Raccoglierei quindi uno degl'inviti d'Infarinato, stendendo due parole sul lavoro, di qualche anno fa, molto ben fatto, di Luca Serianni «Introduzione alla lingua poetica italiana», Carocci 2001 – rendendovi poi partecipi di una brevissima, quanto personale riflessione sulla lingua poetica di uno dei nostri maggiori autori.
Il saggio (immagino ben conosciuto) è portato da una volontà estremamente attenta nel valutare quelli che il Serianni stesso chiama «istituti grammaticali» della lingua poetica; ovvero, sceverando gli aspetti più propriamente linguistici, indica i «ferri del mestiere poetico di là da ogni intenzione d'arte; in una parola: la loro appartenenza alla grammatica poetica dell'italiano classico» etc. (ma basterebbe leggere il breve Ambito e metodi d'indagine di pp. 11-41 per avere un'idea più esatta...).
Vorrei qui tentare, allora, una piccola riflessione (non del tutto libero dal timore di annoiarvi), naturalmente ancorata al lavoro del Serianni (o meglio, a una più recente rilettura del suo lavoro), intorno ai primi 57 versi del primo canto del Paradiso dantesco [che non trascrivo (dal Petrocchi), ché non ce ne sarebbe alcun bisogno!]. Una riflessione di stilistica, ma anche di «grammatica poetica», per un autore, al riguardo, estremamente sfuggente...
Riproponendo quindi (umilmente!) l’impostazione indicata dal Serianni nel suo lavoro (ripeto: relativamente ai primi 57 vv. di Pd I), a parte i casi di evidenti sicilianismi o provenzalismi, tutto sommato resterebbe dubbia l’individuazione di quali forme possano comparire indiscutibilmente sotto la dicitura di “franchi poetismi”, soprattutto considerando che proprio da Dante la tradizione successiva, (e soltanto) con l’irrinunciabile mediazione petrarchesca, raccoglierà molte delle forme considerate e catalogate dallo stesso Serianni. Delineare qui la “grammatica poetica” di un autore come Dante presenterebbe allora una fondamentale difficoltà: quali elementi della lingua adoperata dall’autore possono di fatto esibire, in sincronia “dantesca”, una sicura marcatezza poetica, là dove il rapporto con la recente tradizione letteraria è complicato dal cosiddetto “plurilinguismo” dantesco? Sarebbe ottima cosa, quindi, distinguere subito le marche dello stile elevato già caratteristico del Paradiso, presentando distintamente quegli elementi d’uso poetico, condizionati dalla precedente tradizione letteraria, riferibili in ultimo a una più esatta (e preesistente) “istituzione grammaticale”.
Sotto il profilo fonetico, dunque, tra le forme che si segnalano, al primo verso compare move, variante “dotta” di «muove», legata alla tradizione siciliana per il vocalismo tonico monottongato (attiva anche la tradizione provenzale). Lo stesso tratto sarebbe presente nel loco del verso 56, in cui si potrebbe registrare anche il consonantismo sordo – altro connotato, in alcuni casi, indice di una più decisa qualificazione poetica, specie se latineggiante.
Al verso 7 incontriamo disire, il cui vocalismo siciliano ne indica l’appartenenza al linguaggio poetico.
Non agevole l’individuazione di ire al verso 9: sarebbe più cauto considerare questo verbo come un generale latinismo, piuttosto che una forma tipica e già schiettamente poetica – ma lo statuto di latinismo qui assume un suo valore specifico, in una lingua che riscopre evidentemente il proprio riferimento più illustre nella tradizione letteraria latina.
Dimandi al verso 15: sebbene il vocalismo protonico esibisca una patina linguistica in qualche modo trascelta, anche secondo quanto suggerito dal Serianni (p.33), non andrebbe considerato come poetismo, di contro alla più consueta forma con vocalismo labializzato; e, del resto, nemmeno il referente etimologico latino suggerisce una valutazione in qualche modo discriminante. Lo stesso amendue, al verso 17, risulterebbe essere una forma fiorentina non marcata stilisticamente. Non franco poetismo nemmeno uopo, al verso 18 (qui privo della relativa coloritura arcaizzante), il cui uso sarebbe forse da ascrivere al più generico stile elevato (tuttavia libero dall’influsso latino). Per l’intrar al verso 18, andrebbe segnalato il vocalismo latineggiante, attivo anche in triunfare (al verso 29), parturir (verso 31), retro (v. 35), Surge (v. 37) e, più di tutto, in licito che, insieme a lece (v. 56), d’uso comune nel Duecento e nel Trecento, figureranno nel Petrarca lirico. Per mercé al verso 56, è preferita la variante latineggiante su quella provenzale-siciliana merzé. Rimaso, del verso 18, apparterrà alla tradizione e vi figurerà come franco poetismo, anche d’uso semplicemente letterario nell’800, sino alla Ventisettana manzoniana; già adoperato da Guittone, da Cavalcanti, sconosciuto al Guinizzelli, Dante sembrerebbe averlo inserito solo nella Commedia (otto occorrenze in tutto; contandone poi tre nella sola prosa del Convivio...).
Abbastanza ricco il drappello dei latinismi: gloria (v. 1), universo, penetra, risplende (v. 2), intelletto (v. 8 ), memoria (v. 9), regno, santo (v. 10), mente (v. 11), materia (v. 12), ultimo (v. 13), spira (v. 19), Marsia (v. 20), vagina, membra (v. 21), divina (v. 22), beato (v. 23), manifesti (v. 24), coronare (v. 26), cesare, poeta (v. 29), umane (v. 30), il già ricordato parturir, letizia (v. 31); delfica, deità (v. 32), peneia (v. 33), mortali (v. 37), mondana (v. 41), modo, tempera (v. 42), emisperio (v. 45), sinistro (v. 46), vidi (v. 47), atto (v. 52), immagine (v. 53), fissi, uso (v. 54), licito (v. 55), mercé, loco (v. 56). La densità delle voci dotte aderisce auspicabilmente allo stile elevato in qualche modo riconducibile all’aptum della terza cantica.
Schietto poetismo è però il condizionale siciliano in ia del verso 32, dovria. Riguardo all’avea del verso 43, con Serianni, «le forme senza labiodentale, abituali nell’italiano antico, hanno rappresentato per molti secoli un’alternativa non marcata, o debolmente marcata, rispetto alle forme concorrenti (almeno per la classe in -ere)» (pag. 184); avea andrà ancora considerato come uno strumento utile al giusto computo sillabico, o più semplicemente abituale in poesia, senza escludere l’uso prosastico.
Il fiorentinismo arcaico giugne del verso 39, in Dante, non sarebbe poetismo (tant’è che nella Vita Nuova e nel Convivio compare soltanto nella prosa). Ancora l’unquanco al verso 48 non apparterrebbe alla lingua poetica, e rispecchierebbe alcuni tratti demotici non fiorentini.
Da ascrivere allo stile poetico sono invece le numerose forme apocopate o elise: ciel (v. 4), quant’ (v. 10), far (v. 11), valor (v. 14), dar (v. 15), or (v. 17), intrar (v. 18 ), vedra’, parturir (31), miglior (v. 35), tal (v. 44), riguardar (v. 47), pellegrin, tornar (v. 51); gran (v. 34) e, in particolar modo, piè (v. 24), le cui apocopi sono sillabiche. In senso contrario andrebbe quel buono al verso 13, in forma piena davanti a parola iniziante con vocale.
Di passaggio si segnalano le preposizioni articolate analitiche de la, de le (v. 21), ne l’ (v. 53), de l’ (v. 57), di cui è già probabile la pronuncia intensa della laterale.
Infine l’epitesi del rimante tue al verso 19.
Autentici poetismi lessicali, riconducibili a una sicura relazione con la tradizione letteraria precedente, allora sarebbero solo move, disire, dovria e, nonostante l’affricata palatale, mercé (forse anche suso, ampiamente adoperato dall’“amico” Cino da Pistoia).
Per quel che riguarda la microsintassi: oltre alle consuete e più generali anastrofi del predicato verbale, e, poniamo, alle costruzioni marcate retoricamente come il chiasmo del verso 3 «in una parte più e meno altrove», si segnala la precessione del complemento partitivo al verso 4: «che più de la sua luce prende»; e ai versi 10/11 «quant’io del regno santo ... potei far tesoro»; soprattutto del complemento di specificazione, al verso 14: «fammi del tuo valor si fatto vaso». Una qualche marcatezza è rintracciabile nell’anteposizione del participio passato in «Fatto avea», al verso 43. La locuzione preposizionale ‘in + su’ per i complementi di stato in luogo, ai vv. 31 e 46: «in su la lieta /delfica deità», «in sul sinistro fianco» (in cui si può anche notare, per la struttura del sintagma nominale, la successione determinante/determinato, già altrove in v. 40 miglior corso, migliore stella; v. 30 umane voglie; v. 23 beato regno; v. 22 divina virtù; e, in direzione opposta, col possessivo, al v. 19, petto mio etc.).