Quanto sono affidabili gli esempi letterari?
Inviato: mar, 15 lug 2014 20:33
Vorrei specificare, prima di ogni altra cosa, che non ho una cultura accademica dell’italiano: lo conosco (come quasi tutti i nostri connazionali, immagino) in quanto è la mia lingua madre, in quanto l’ho studiato a scuola, in quanto lo leggo ogni giorno su supporti cartacei o qui, sulla rete. Ciò che faccio nella vita è infatti qualcosa di completamente diverso, stando, almeno, all’opinione comune della gente: sono in effetti un matematico.
In quanto tale, non ho — purtroppo, aggiungo — mai avuto la possibilità di confrontarmi con la nostra lingua ad un livello superiore, studiarne le origini dettagliatamente, guadagnare una conoscenza inappuntabile delle sue regole grammaticali, di tutti i costrutti, del suo vastissimo lessico. Ma proprio in virtù di questa mia ignoranza, moltissime cose riguardanti la cultura umanistica mi incuriosiscono e mi spingono a volerne sapere di più. E una di queste cose, per l’appunto, è quella che è oggetto di questo messaggio.
Fin da quando andavo alle scuole superiori, studiavo moltissimi autori del passato, tra cui i famosissimi Dante, Petrarca, Boccaccio e altri autori della loro levatura. Molte delle opere che hanno scritto sono considerate dei pilastri della nostra letteratura e la nostra lingua deve molto a loro; però, mi chiedevo... quanto sono attuali, quando si tratta di prendere spunto dai loro scritti per comporre un testo in italiano moderno? La domanda può sembrare banale (e forse lo è, non apparendomi come tale, probabilmente, soltanto perché non sono avvezzo a tali argomenti), ma ora proverò a spiegarmi meglio: ciò che intendo è... fino a che livello una frase di un Maestro vissuto secoli fa può influenzare le regole grammaticali odierne? Mi è capitato diverse volte di leggere, ad esempio, della liceità di certi costrutti grammaticali, giustificati dal fatto che, quasi mille anni fa, qualcuno li usò in un importante testo che noi ancora oggi studiamo. Però, parallelamente, trovo anche discussioni nelle quali si afferma che un certo costrutto, magari anche usato da autori ben più recenti, vissuti solo qualche secolo fa, non è più valido nell’italiano corrente e quell’esempio letterario è dunque inutile perché obsoleto.
Dove sta dunque la differenza? Io sono un matematico, ma mi piace utilizzare un italiano preciso, ordinato e corretto quando scrivo di teoremi e dimostrazioni (che, in fondo, servono proprio per mostrare, a mezzo di parole e non solo di formule, al lettore come la tesi discenda dall’ipotesi); quindi mi piace anche usare costrutti grammaticali rigorosi, e una sintassi che rispetti le convenzioni della nostra lingua. E se io un giorno avessi un dubbio su una certa frase, e poi la ritrovassi, ad esempio, nella Commedia dantesca... cosa dovrei fare? l’averla ritrovata lì giustifica il fatto che io la usi nel mio testo? o si tratterà di un costrutto ormai in disuso e che, quantunque usato da Dante stesso, ora non va più bene? Come dicevo, spesso ho trovato argomentazioni del primo e del secondo tipo, indistintamente, quando si parlava di esempi letterari portati a mo’ di giustificazione di certe espressioni moderne... e io, da semplice cittadino inesperto di questioni di linguistica quale sono, non saprei cosa fare.
In quanto tale, non ho — purtroppo, aggiungo — mai avuto la possibilità di confrontarmi con la nostra lingua ad un livello superiore, studiarne le origini dettagliatamente, guadagnare una conoscenza inappuntabile delle sue regole grammaticali, di tutti i costrutti, del suo vastissimo lessico. Ma proprio in virtù di questa mia ignoranza, moltissime cose riguardanti la cultura umanistica mi incuriosiscono e mi spingono a volerne sapere di più. E una di queste cose, per l’appunto, è quella che è oggetto di questo messaggio.
Fin da quando andavo alle scuole superiori, studiavo moltissimi autori del passato, tra cui i famosissimi Dante, Petrarca, Boccaccio e altri autori della loro levatura. Molte delle opere che hanno scritto sono considerate dei pilastri della nostra letteratura e la nostra lingua deve molto a loro; però, mi chiedevo... quanto sono attuali, quando si tratta di prendere spunto dai loro scritti per comporre un testo in italiano moderno? La domanda può sembrare banale (e forse lo è, non apparendomi come tale, probabilmente, soltanto perché non sono avvezzo a tali argomenti), ma ora proverò a spiegarmi meglio: ciò che intendo è... fino a che livello una frase di un Maestro vissuto secoli fa può influenzare le regole grammaticali odierne? Mi è capitato diverse volte di leggere, ad esempio, della liceità di certi costrutti grammaticali, giustificati dal fatto che, quasi mille anni fa, qualcuno li usò in un importante testo che noi ancora oggi studiamo. Però, parallelamente, trovo anche discussioni nelle quali si afferma che un certo costrutto, magari anche usato da autori ben più recenti, vissuti solo qualche secolo fa, non è più valido nell’italiano corrente e quell’esempio letterario è dunque inutile perché obsoleto.
Dove sta dunque la differenza? Io sono un matematico, ma mi piace utilizzare un italiano preciso, ordinato e corretto quando scrivo di teoremi e dimostrazioni (che, in fondo, servono proprio per mostrare, a mezzo di parole e non solo di formule, al lettore come la tesi discenda dall’ipotesi); quindi mi piace anche usare costrutti grammaticali rigorosi, e una sintassi che rispetti le convenzioni della nostra lingua. E se io un giorno avessi un dubbio su una certa frase, e poi la ritrovassi, ad esempio, nella Commedia dantesca... cosa dovrei fare? l’averla ritrovata lì giustifica il fatto che io la usi nel mio testo? o si tratterà di un costrutto ormai in disuso e che, quantunque usato da Dante stesso, ora non va più bene? Come dicevo, spesso ho trovato argomentazioni del primo e del secondo tipo, indistintamente, quando si parlava di esempi letterari portati a mo’ di giustificazione di certe espressioni moderne... e io, da semplice cittadino inesperto di questioni di linguistica quale sono, non saprei cosa fare.