Lo sdegno e il cruccio che traboccano dalle parole d'Animo Grato sono gli stessi sentimenti che ho provati ieri, durante una conferenza tenutasi nell'ateneo di lingue. Protagonista dell'incontro, una linguista marchigiana. Si parlerà di linguistica, opinavo tra me e me. Mi fiondo a tutta léna nell'aula che avrebbe ospitato il convegno. Il mio cuore, ebbro d'eccitazione, riceve subito una brutta notizia: la sedicente linguista e giornalista si sarebbe prodigata in ambagi senza fine concernenti la buona riuscita d'un'intervista! Che beffa! Che doccia fredda! Cerco di non scompormi punto. In fondo, sono sempre crediti guadagnati.
La giornalista inizia a parlare. Diversi errori ortoepici (sonorizzazione delle sorde intervocaliche, avverbi terminanti in
mente pronunciati cólla
e aperta, mancate cogeminazioni) cominciano ad ambasciarmi. Da una linguista cosí sussiegosa, che si compiace d'aver intervistato André Martinet e che si pavoneggia a destra e a manca, mi sarei aspettato molto di piú, in termini di dizione e ortoepia. Cerco di non farci caso, ché pretendere la perfezione è pura chimera. Inoltre, la signorina ricorre a pochissimi anglicismi, e ciò è, oltre che lodevole, allietante.
Oh, lasso me! Solo ora mi rendo conto d'esser stato troppo corrivo a giudicarla! Quanta ingenuità e quanta poca malizia! Di punto in bianco, la giornalista inizia a dare il meglio di sé: una proluvie di termini inglesi tracima dalla sua bocca, cogliendomi impreparato. Se l'avessi saputo, avrei eretto anzitempo una diga. Cenni d'intesa e ammiccamenti vari corredano il tutto. Fermento a dismisura e scoppio, allorché, rivolgendo lo sguardo e la parola a un suo (presumo) collega, ella, sorridendogli, dice: «D'altronde, caro Tizio, come tu ben sai, la
deadline è pur sempre la
deadline, no?»
È tempo di domande. Decido di scendere nell'agone e di pugnare contra la donzella e la sua pravità, ergendomi a vindice della mia favella, cosí ingiustamente e gratuitamente bistrattata. Impugno risolutamente il microfono e le chiedo: «Non crede che la maggior parte dei giornalisti faccia un uso smoderato degli anglicismi e che dunque ne abusi? Le poche volte che mi capita di leggere un giornale, provo una certa insofferenza verso tutti questi termini inglesi. Spesso inutili e fuori posto, potrebbero essere rimpiazzati tranquillamente ed egregiamente. Nel mondo di oggi che tutto fagocita, la necessità d'esser brevi —e l'inglese, appetto all'italiano, è lingua piú breve— non rischia d'impoverire la lingua —l'italiano, in questo caso— e di provocarne la morte?» Ringrazio e vado a posto.
La stilettata inflittale ha sortito un certo effetto, perché, nel rispondermi, inizia ad andare nel pallone. Cita Darwin, la teoria dell'evoluzione e la selezione naturale: alcune lingue sono piú «forti» di altre e impongono la loro cultura, il loro modo di segmentare la realtà. L'inglese fa questo cóll'italiano. Lo stridio di unghie si fa sempre piú rumoroso ed è costretta a chiamare in causa l'economia linguistica: ottenere il massimo cól minimo sforzo. Perché dire
diario virtuale se esiste
blog? Non paga di tutto questo, rimembra gl'insuccessi linguistici di Di Pietro durante l'era di Tangentopoli, il quale, secondo la nostra linguista, avrebbe proposto traduzioni in un italiano maccheronico di termini inglesi, traduzioni mai entrate in circolazione perché non apprezzate dalla popolazione, tra le quali annovera la celebre
che ci azzecca. A parte il fatto ch'io la uso costantemente, non pensavo che Di Pietro ne fosse stato l'artefice! Ma forse, in questo caso, ha ragione lei, ché avevo a malapena due anni all'epoca, e i ricordi, ovviamente, non possono essere nitidi.
Conclude con una perla sublime, una chicca per gli amanti delle burle: pur considerandosi una purista della lingua (:shock:), non ha paura di usare gli anglicismi. Sono riuscito a trattenermi a stento, altrimenti le avrei stampato una fragorosa risata in faccia. Non ho avuto purtroppo l'opportunità di replicare. Avrei voluto controbattere. Sono tornato mestamente a casa.
Per amor di verità, ci terrei a riportare anche le opinioni dei partecipanti, consistenti di qualche timido e impercettibile biascichío, che il mio orecchio è riuscito comunque a cogliere nonostante la babele di voci che s'alzava al cielo e il desiderio di porre fine a quel supplizio che aveva tediato la maggior parte di noi. Infatti, mentre il sottoscritto poneva la domanda, ho sentito mormorare da qualcuno in prima fila le seguenti parole: «Sí, ha ragione, è vero. Ce ne sono troppi (d'anglicismi)». Magra consolazione.