«Còcina»

Spazio di discussione su questioni di lessico e semantica

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Zabob
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«Còcina»

Intervento di Zabob »

Mi è capitato di udir pronunciato questo termine riferito alla "cadenza" genovese.
Qualcun altro dei frequentatori di Cruscate l'ha mai sentito, magari in riferimento ad altre "cantilene" regionali? È da considerarsi voce di gergo (sui principali dizionari non l'ho rinvenuto)? Avete un'idea del possibile etimo?
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Il termine è di area ligure dialettale, ovviamente io lo conosco e lo uso. Per quanto riguarda l'etimo penso di poter dare qualche informazione in seguito.
Largu de farina e strentu de brenu.
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Etimo sconosciuto, secondo Fiorenzo Toso e Hugo Plomteux.
Largu de farina e strentu de brenu.
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Carnby
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Intervento di Carnby »

Io qui non l'ho mai sentito (nemmeno in ambito linguistico) e se lo sentissi penserei istintivamente a un'accentazione errata di cucina.
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Scilens
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Intervento di Scilens »

Carnby ha scritto:Io qui non l'ho mai sentito (nemmeno in ambito linguistico) e se lo sentissi penserei istintivamente a un'accentazione errata di cucina.
Perché "neppure in ambito linguistico"? (pulce nell'orecchio, forse legittima)
Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
valerio_vanni
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Intervento di valerio_vanni »

Forse intende "nelle discussioni tra linguisti".
Neanch'io l'ho mai sentito.
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Carnby
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Intervento di Carnby »

valerio_vanni ha scritto:Forse intende "nelle discussioni tra linguisti".
Esatto. :)
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Zabob
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Re: «Còcina»

Intervento di Zabob »

Riporto alla luce il filone dopo qualche annetto per chiedervi se si può considerare attendibile la derivazione di “còcina” dal lat. concinnitas, come proposto da Vito Elio Petrucci nel testo riportato da Franco Bampi qui (inizio di p. 4).
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Ligure
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Re: «Còcina»

Intervento di Ligure »

Zabob ha scritto: mar, 31 mar 2015 10:40 Mi è capitato di udir pronunciato questo termine riferito alla "cadenza" genovese.
Qualcun altro dei frequentatori di Cruscate l'ha mai sentito, magari in riferimento ad altre "cantilene" regionali? È da considerarsi voce di gergo (sui principali dizionari non l'ho rinvenuto)? Avete un'idea del possibile etimo?
Mi riferisco esclusivamente a Genova, dov'è tuttora voce del dialetto - impiegata per indicare l'intonazione locale (particolarmente quella dei dialettofoni d'un tempo) -. Prescindo totalmente da ciò che può aver scritto il povero Petrucci, pubblicista locale perfettamente ignaro di linguistica, almeno nel significato scientifico del termine. Non mi sono mai occupato di etimologia (soprattutto nelle modalità del pubblicista menzionato) e ignoro se siano mai state formulate proposte almeno dotate di verosimiglianza.

Il termine latino citato c'entra come i cavoli a merenda.

L'unica considerazione realistica in merito alla voce del dialetto sembra rientrare - come metatesi (di cui il dialetto verace abbondava) -nel contesto semantico di "cioccu" /'ʧɔkku/ - rintocco -, di cui dovrebbe risultare più agevole formulare considerazioni etimologiche meno azzardate.

Infatti, un esito del tipo di /'ʧɔkk-ina/avrebbe potuto, banalmente, fornire - per metatesi - /'kɔʧʧina/.

Il termine locale risulta, per altro, geminato - "coccina" - ed è pronunciato come tale anche se inserito in un enunciato in lingua italiana.

E il "cioccu" era inteso anche come cadenza, calata, inflessione, intonazione, accento ecc.. In senso proprio era, invece, il rintocco delle camapane e, in senso più generale, il loro suono. Da cui la metafora in quanto anticamente si faceva attenzione alle diverse tonalità del loro suono e , ad es., le campane di S. Lorenzo non suonavano affatto come quelle di S. Pietro ecc. . . .

Scomodare il latino ciceroniano, il folclore e altre amenità ha ben poco a che vedere con un'analisi linguistica caratterizzata da un minimo di serietà.

Sul termine "cioccu" e il verbo corrispondente - "ciucâ" - esistono, per altro, ipotesi meno risibili. Ma non è il contenuto della domanda.

P.S.: i giovani genovesi si avvalgono tuttora - sia pure solo scherzosamente - di enunciati del tipo di "dà i ciocchi" o "ciocca". Significava - letteralmente - "dà in escandescenze" - proprio nel senso di un possibile ricovero in psichiatria -. Ora, il significato può essere più blando e può anche riguardare soltanto stranezze di comportamento di minore entità.
Ultima modifica di Ligure in data sab, 25 nov 2023 18:12, modificato 1 volta in totale.
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Zabob
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Re: «Còcina»

Intervento di Zabob »

Una cosa che m’incuriosisce, oltre all’etimo di “còcina/còccina”, è il fatto che non mi risulta che in altri dialetti esistano termini simili per indicarne specificamente le relative caratteristiche intonative.
Spesso (è un mio parere) i parlanti nativi sono talmente abituati a udire la propria cadenza (sia parlando in dialetto sia in italiano) da non notarvi niente di particolare: in altre parole, coniare un vocabolo come “còcina” significa avere una chiara consapevolezza non solo di possedere un accento peculiare, ma anche che questo accento si scosta palesemente da una parlata avvertita come “neutra”.
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Ligure
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Re: «Còcina»

Intervento di Ligure »

Che dire?

Innanzitutto tengo a precisare che ho specificato essere "coccina" la forma genovese non in base ad alcuna particolare "preminenza", ma soltanto - pragmaticamente - in quanto, nel caso di "etimo ufficialmente incognito" (a parte le barzellette che ciascuno di noi può piacevolmente raccontare) la pronuncia dei dialetti genovesi risulta quella più antica relativamente alla durata consonantica. Nel caso di "gattu" - genov. - il vantaggio, ad es., sarebbe inesistente in quanto il "gatu" di Ventimiglia o il "gato" della Spezia - entrambe le tipologie di dialetti hanno perduto la variabilità della durata consonantica - non metterebbero in difficoltà nessun valido etimologista, ma, per altro, "gattu" rimarrebbe, comunque, la pronuncia più aderente all'etimo. Una struttura quale "cocina" - scientificamente - può solo riferirsi (e ne occorrerebbe una motivazione specifica per l'uso in etimologia) a varietà delle pari estreme della regione linguistica, mentre "coccina" - qualunque cosa possa essere - rappresenta lo stadio evolutivo più antico. E più utile per eventuali "indagini". Se lo stadio più antico fosse stato davvero "cocina", ora i dialetti di tipo genovese avrebbero il fonema /ʒ/, non certamente /ʧ/, che si sarebbe inevitabilmente sonorizzato in /ʤ/ per, poi, passare a /ʒ/. Foneticamente - non fonologicamente - confrontabile con la pronuncia di "agile" in bocca fiorentina. Mentre, in genovese, /'-ʧʧ-/ geminato poté rimanere tale e si ridusse soltanto nella durata sui margini della regione. So bene che le scrizioni del dialetto vengono spesso proposte a casaccio, ma, se ciò non fosse, sarebbe meno disagevole - per chi fosse, eventualmente, interessato - un apprendimento meno folcloristico e un po' più rivolto alle effettive strutture linguistiche. Nessuna scrizione vale un'altra, in realtà. E non sono alternative. Altrimenti, il rischio è di parlare soltanto del nulla.

Mi piacerebbe riuscire a essere soavemente poetico, forse ciceroniano, ma non mi riesce. I dialetti hanno rappresentato l'Italia dell'"ancien régime", dove la difficoltà delle comunicazioni e dell'accesso all'istruzione quasi "costringevano" le persone a considerarsi "al centro del mondo". Queste concezioni non riuscivano a prescindere da aspetti d'intolleranza. E' opportuno affermarlo per non condividere visioni oleografiche che nulla hanno a che fare con la realtà storica dei dialetti italiani. Siamo in un universo di "ancien régime". Per i poveri dialettofoni non esisteva un linguaggio "neutro" - molti non lo conoscevano neppure o non sufficientemente -, non esisteva ancora il "metro campione" - in senso linguistico - ecc.. I dialettofoni si confrontavano col sobborgo accanto, in città, tra paesi vicini - in campagna -. Termini quali "coccina" sono sorti in queste "condizioni mentali" prima ancora che linguistiche, politiche, storiche ecc.. E ciò che può ora sembrare soltanto un "simpatico" termine relativo allo scostamento rispetto a una condizione (di pronuncia) neutra, non poteva essere tale. In quanto "le masse" non possedevano alcun concetto di "pronuncia neutra", mentre esso implicava anche l'insofferenza e il fastidio - che giungevano fino all'inumana derisione - per chi non era assolutamente colpevole di nulla. Neppure linguisticamente. Ammesso che si possa parlare di colpa in questioni di lingua. Proveniva semplicemente dal borgo accanto o apparteneva alle generazioni precedenti o era più ricco o più povero . . . Scientificamente, si trattava di variazioni diatopiche, diacroniche, diastratiche ecc. nel contesto di un paradigma evolutivo. L'inflessione veniva particolarmente notata, reputata addirittura "disturbante", stigmatizzata . . .

Purtroppo, quando sorse la parola "coccina", l'attenzione era rivolta a tutto ciò, non c'era alcuna consapevolezza - nelle "masse" - dello scarto rispetto a un linguaggio neutro e condivisibile . . .

Tutti avevano una loro "coccina", ma era sempre quella "degli altri" a non andare bene . . .

Questa, che possa piacere o no, è la vera storia linguistica dell'Italia, delle nazioni europee, del mondo . . . Che tutti gli studiosi di linguistica conoscono assai bene.
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Zabob
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Re: «Còcina»

Intervento di Zabob »

Non si arrabbi, ho scritto “còcina” (con una sola -c-) perché così l’ho sentito pronunciare (o almeno mi è parso) la prima volta che l’ho udito, per bocca di un’insegnante di recitazione genovese.
Anche qui il giornalista Alessandro Parodi scrive còcina con una -c- soltanto.

Le chiedo un’altra cosa: stando a Genova per molti anni (sono di Ventimiglia) ho imparato che esiste una grafia ufficiale per il genovese, in virtù della quale si scrive o e si legge u (es. “o preboggión” si pronuncia “u prebuggiún”). A Ventimiglia scriviamo mundu, a Genova si pronuncia uguale ma si scrive come in italiano. Tuttavia Lei sceglie di scrivere gattu, e vorrei capire per quale motivo.
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Ligure
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Re: «Còcina»

Intervento di Ligure »

Ciò che ho cercato d'illustrare non l'affermo io - prescindendo da qualsiasi eventuale stato d'animo -, ma, sostanzialmente, il Rohlfs nella sua Grammatica storica della lingua e dei suoi dialetti a pag. 290. Un "dici(t)", che aveva /-k-/ nel latino classico si palatalizzò a Firenze in "dice", stadio evolutivo che anche i dialetti liguri devono aver avuto (e il Rohlfs non fa bene a sottintenderlo) per, poi, sonorizzarsi in "dige" e giungere - per deaffricazione - all'attuale dixe. Cioè, in tutta la Liguria, la transizione evolutiva fu: /'di:ʧe/>/'di:ʤe/>/'di:ʒe/. Si realizzò già in epoca predocumentale.


Quanto afferma il Rohlfs significa che, se Ventimiglia, ad es., che ha perduto la "sensibilità differenziale" relativa alla durata consonantica (e, di conseguenza, anche quella relativa alla quantità vocalica), pronuncia "cocina", lo stadio evolutivo precedente - quello al quale si trova il genovese urbano verace - non può che essere "coccina" e così pronunciano i pochi locutori nativi genuini.

Se il termine antico fosse stato davvero "cocina", si sarebbe giunti - tanto a Genova quanto a Ventimiglia - alla pronuncia "coxina" - inesistente -, proprio come si giunse alla pronuncia dixe<dice e alla pronuncia in "x" a Genova e a Ventimiglia per voci quali cuocere o cucire che così, invece, si pronunciano in italiano, essendo state sonorizzate (e, successivamente, deaffricate) nei dialetti liguri, ma non in quelli propriamente toscani (v., ad es.,il fiorentino). Si può leggere direttamente il Rohlfs, ma ho cercato di essere il più chiaro possibile.

Esiste, per altro, anche la riprova. Negli italianismi (parole del dialetto di derivazione non diretta, ma acquisite direttamente dall'italiano) come accadde relativamente alle radici commestibili della cicoria, dato che una "c" nella posizione in cui si trova nell'italiano non poteva essere accettata nel dialetto, la si geminò per ipercorrezione e si disse "radicce" /ra'diʧʧe/ in quanto la geminata, in questa posizione, era possibile, ma non la doppia. Infatti, in genovese, ad es., a radice corrisponde "reixe" /'reiʒe/. E' il Rohlfs che ha perfettamente capito e che, nel caso specifico, ha ragione, non io. Io mi sono semplicemente limitato a esporre una palese verità linguistica. Cercando di comprenderla bene e di riscontrare la sua veridicità negli esempi che venivano alla mente. Tutto qui.

Pensa davvero che nei corsi citati ci sia davvero qualcuno in grado di provare interesse e di avere competenza per affrontare gli argomenti di cui si tratta?

Può davvero credere che l'obiettivo di un certo tipo di associazionismo sia davvero l'incremento scientifico delle oggettive conoscenze linguistiche, scevro da altre pregiudiziali?

Ritiene davvero che grafie ideate per scopi dopolavoristici, folcloristici, militantistici e pubblicistici da persone totalmente prive di cultura linguistica (e abbagliate da obiettivi totalmente anacronistici e irrealistici), le quali non hanno mai parlato abitualmente il genovese e ne hanno una conoscenza limitata (caratteristiche perfettamente normali e accettabili, se non si pretende di ergersi a "imam delle folle" - che non esistono!, sia chiaro -) risultino davvero più attendibili rispetto a un'enorme mole di documentazione (che riguarda più di otto secoli) scritta da chi davvero parlava in dialetto (e assolutamente non per propria scelta!) e dei contributi dei migliori studiosi di linguistica degli ultimi due secoli - non soltanto italiani -?

Per quanto concerne l'anno di grazia 2023, quasi 2024, è assolutamente normale che il dialetto verace, ormai, non sia più ben conosciuto e, francamente, io posso rispondere soltanto della mia ignoranza personale e degli errori che - purtroppo - continuerò a compiere, tentando pur sempre di emendarmi se me ne accorgo o se qualcuno mi fa la cortesia di farmelo notare (senza - per questo - aggredirmi).

Dal momento che sono cittadino di una nazione caratterizzata anche da grande libertà (alcuni pensano perfino troppa) a livello linguistico, il militantismo di chi vorrebbe imporre vincoli (ma a chi poi?) su un linguaggio che ci si rifiuta di approfondire scientificamente perché si crede di sapere già tutto (magari senz'avere, in effetti, ben compreso e nemmeno studiato) e l'attitudine in base alla quale si avverte "la chiamata" per potersi soltanto dedicare al proselitismo nei confronti degli altri mi lascia estremamente indifferente, anzi quasi preoccupato. Se fosse una cosa seria, contrario.

Che la grafia sia "ufficiale" - ma in base a quale potere costituito, di grazia? - se lo son detti e se lo dicono da soli. Ma, fortunatamente, in una società democratica è soltanto una modalità - poco simpatica e scarsamente accettabile - di "autopromozione".

Che spesso sortisce presso chi conosce e riflette l'oggetto di studio l'effetto contrario. Cioè di riscontrare le manchevolezze e le corbellerie. Come sempre avviene nel mondo, quando vengono praticati tentativi di "autosantificazione", d'imposizione o di presunta conoscenza aprioristica di chi cammini nella Verità e di chi proceda nell'Errore. Non si diffonde sana conoscenza, ma risentimento, in quanto a ben pochi garba il ruolo dei discriminati (soltanto per aver ragionato a mente sgombra) . . .

Fortunatamente non siamo ancora alle scene da Inquisizione. Credo si tratti di quattro "gatti" - al plur. la scrizione va bene tanto come genovese quanto italiano e non urta "la sindrome di ufficialità" di nessuno -. E non penso che - almeno per ora - esista il sostegno di alcun braccio secolare. Fortunatamente!! Il registro più adeguato sarebbe l'ironia in quanto non si tratta di attitudini che si possano davvero prendere sul serio . . . :wink:

P.S.: per altro, del tutto indipendentemente da qualsiasi potenziale aspetto emotivo, data l'epoca, la voce "coccina" si ritrova scritta con due "c" - proprio come ho fatto io - nei due lessici classici del dialetto genovese, il Casaccia del 1876 e il Frisoni del 1910. Compilati quando ancora tutta la cittadinanza risultava dialettofona e mal avrebbe accettato un errore di pronuncia nei lemmi di un vocabolario e venerati (anche ben oltre i loro meriti effettivi) dagli aderenti a un certo tipo di militantismo di cui s'è discusso.
Avatara utente
Zabob
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Iscritto in data: sab, 28 lug 2012 19:22

Re: «Còcina»

Intervento di Zabob »

Probabilmente anch’io ho sentito (più o meno inconsciamente) “còcina” (pronunciato con una -c-) come termine “italiano” (o italianizzato, se preferisce), ossia con una resa fonetica che non lo faceva suonare alle mie orecchie come termine squisitamente genovese (premesso che son nato in Liguria ma da genitori del Sud, quindi non ho comunque una competenza nativa del dialetto). Altrimenti avrei aperto questo filone nella sezione “Dialetti”, e non in questa sezione “Lessico e semantica”, dove si discute di parole italiane.
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Ligure
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Re: «Còcina»

Intervento di Ligure »

Zabob ha scritto: lun, 27 nov 2023 15:34 Probabilmente anch’io ho sentito (più o meno inconsciamente) “còcina” (pronunciato con una -c-) come termine “italiano” (o italianizzato, se preferisce), ossia con una resa fonetica che non lo faceva suonare alle mie orecchie come termine squisitamente genovese (premesso che son nato in Liguria ma da genitori del Sud, quindi non ho comunque una competenza nativa del dialetto). Altrimenti avrei aperto questo filone nella sezione “Dialetti”, e non in questa sezione “Lessico e semantica”, dove si discute di parole italiane.
Lei è persona sobria, ma molto gentile e ho trovato simpatica la descrizione della sua famiglia d'origine.

Neppure io ho antenati che portavano elmi colle corna e possedevano ampolle contenenti l'acqua di chi sa più quale corso d'acqua.

Forse come lei e i suoi familiari ho sempre trovato ciò assolutamente normale e non ne ho mai ricevuto né imbarazzo né traumi particolari.

Nella vita mi sono occupato anche di obiettivi non andati a buon fine, ma mai ho pensato di dovermi proporre agli altri per ciò che non sono mai stato. Infatti, sbagliare può capitare, ma doversi inventare - come sostengono gli psichiatri - un "Ideale dell'Io", per cui in genovese esistono anche termini molto triviali, e finire per crederci davvero rischia di essere un po' preoccupante, quasi patologico.

Nelle risposte ho cercato di esporre - al meglio - le mie conoscenze, qualora potessero interessare, ho giustificato scientificamente ogni affermazione riferita e citato le relative fonti (lessicali e linguistiche).Ho spiegato chiaramente perché non possono esistere parole genovesi caratterizzate da "c" non geminata e perché il fiorentino si sia potuto permettere "cece", ma non Genova, che, infatti, ha seixou<çeixaru. E neppure Ventimiglia poté mai avere -c- se non come fonema degeminato rispetto a -cc-. Infatti, Ventimiglia ha "ceixu", caratterizzato dallo stesso fonema intervocalico del genovese, dal momento che l'etimo (del latino tardo) risulta essere "cicere(m)", contrassegnato da -c-, non da -cc-.

Ventimiglia può consentirsi "cocina"<"coccina" soltanto in quanto ha perduto la sensibilità differenziale alla durata consonantica immediatamente postaccentuale. Per nessun altro motivo.

La deaffricazione nelle voci del tipo di "voce", sia ben chiaro, c'è stata e c'è anche nel fiorentino, mentre non può esserci in esiti quale, ad es., "coccio". E - in esiti geminati di questo tipo - neppure nei dialetti liguri. La differenza fondamentale rispetto al paradigma fiorentino consiste nel fatto che, nei dialetti liguri, la deaffricazione risultò posteriore alla sonorizzazione e, in essi, sistematica, mentre essa non fu certamente mai tale nel fiorentino/italiano. Detto in altri termini, in genovese l'etimo latino "voce(m)" giunse a vûxe /'vu;ʒe/ a motivo dell'intervenuta sonorizzazione e, tralasciando alternative fonologiche (in quanto i dialetti di tipo genovese potrebbero essere anche descritti fonologicamente - senza contraddizione - sulla base del tratto unico rappresentato dalla durata consonantica, se pure ciò non risulta usuale), una voce di questo tipo - foneticamente - può, tuttavia, essere confrontata soltanto con le pronunce fiorentine di "pagina", "agile" ecc., mentre neppure in fiorentino voci geminate quale, ad es., "maggio" vennero caratterizzate da processi di deaffricazione. Per altro, il sistema linguistico genovese, a differenza di quello italiano, risulta, fondamentalmente, asimmetrico. Tollera /'-ʧʧ-/, secondario, come, ad es., in "sacci!" /'saʧʧi/ = sappi!, ma non /'-ʧ-/ (da /'-k-/ lat. davanti a /e, i/) che, come mostrato, passò a /'- ʒ-/. L'analisi completa - anche in termini diacronici - risulta, per altro, troppo complessa per poter essere affrontata qui.

Queste, comunque, non sono mai state competenze linguistiche riscontrabili - con adeguata consapevolezza - in guerrieri (veri o presunti) le cui facoltà risultano troppo appesantite da nobili elmi dotati di corna.

Inoltre, a rischio personale di anatema, ho osato consultare un altro dei "libri sacri" della setta dei discendenti dai guerrieri puri e cornuti. Il piccolo dizionario di Alfredo Gismondi edito nel 1955. Cioè nel primo dopoguerra, quando a Genova, effettivamente, si poteva rilevare una consistente immigrazione di lavoratori dal Meridione, ma esistevano ancora locutori nativi e il dialetto era ancora parlato spontaneamente. Anche il Gismondi riporta "coccina". Esito caratterizzato da geminata. Così come riporta "radiccia" e "radicce" in senso commestibile. Come gli altri lessici del dialetto locale.

Anche il lessico dell'Olivieri del 1851, ancora più antico degli altri da me precedentemente citati, che non avevo fatto ancora in tempo a consultare, propone esclusivamente "coccina". Direi che dizionari genovesi dell'epoca in cui il dialetto era ancora davvero parlato non ne esistano altri. In realtà, c'è l'edizione del Casaccia del 1851. Ma anche in questo lessico si rileva solo "coccina". Li ho esaminati proprio tutti. Il Paganini non riporta il termine e non ne sono mai esistiti altri.

Non mi sarei mai permesso di fornire dati non attestati, privi di fonti autorevoli.

Mentre c'è, come c'è sempre stato nella Storia del Mondo, chi venera i Libri sacri per opprimere gli altri. E, oltre a impedire agli altri di leggerli e di proporne un'edizione critica attendibile, si astiene lui stesso dall'aprirli. Semplicemente in quanto non sa leggerli. Modernamente, manca la motivazione per leggere, ma, se si legge, non si comprende ciò che è stato scritto. E che non si trova necessariamente nei Libri sacri "ufficiali" della setta.

Sulla minestra di erbe di campo, che non è voce originaria del genovese urbano e che, comunque, in genovese genuino si pronuncia "prebbugiun", si potrà tornare con calma se fosse d'interesse. Per altro, si tratta della solita diatriba, trita e ritrita, tra chi preferisce scrizioni aderenti all'effettiva pronuncia e chi preferisce scrizioni di tipo "etimologico". E fin qui . . . Si potrebbero, forse, esprimere opinioni critiche quando le varie sette scelgono le scrizioni "etimologiche" per non fare la fatica di dover apprendere la pronuncia vera e il perché di questa pronuncia (cose che a me interessano e alle quali gli appartenenti al sodalizio non dedicano neppure un secondo del loro prezioso tempo). Ma fin qui . . . Tuttavia l'effettiva difficoltà si presenta quando la setta decide che la propria scrizione (spesso frutto di pigrizia intellettuale o di scarse conoscenze linguistiche), è stata direttamente recapitata da un messaggero alato (mentre era in volo per altre consegne) e, pertanto, risulta l'unica vera. Che va difesa contro l'Evidenza e la Scienza linguistica, perseguendo i refrattari. Non vorrei ripetermi. Ma sto parlando della civilissima Europa. All'approssimarsi dell'anno di grazia 2024. Non di storia medievale . . .

Non conosco la sua opinione in merito all'assegnazione ai vari filoni.

Per quanto mi riguarda la discussione potrebbe benissimo essere inserita nel filone dedicato ai Dialetti in quanto è stata esaminata una voce tipicamente ligure. Che nei dialetti di tipo genovese si riferisce esclusivamente all'intonazione dei dialetti liguri, molti dei quali - a differenza della lingua italiana - possono essere considerati caratterizzati dal tratto fonologicamente distintivo rappresentato dalla quantità vocalica. Che può essere breve o lunga anche in vocale accentata finale di parola. Impossibile in italiano. E in molti dialetti italiani. Mai nessun locutore genovese nativo avrebbe definito "coccina" l'inflessione - anche ben percepibile - di un signore originario, ad es., del Vomero di Napoli. Mai nessuno di loro. Era - nell'accezione tradizionale - termine a esclusivo uso interno. Mai generalizzatosi. Sono stati, poi, esaminati gli aspetti di evoluzione diacronica di /-k-/ latino (davanti a /e, i/) nei dialetti liguri. Mediante transizioni evolutive, ricostruzioni ed esempi specifici. Tutti argomenti svolti con un certo approfondimento, per quanto si possa fare "in linea", ma certamente specifici e relativi a una ben determinata area geografica nel contesto delle varietà linguistiche tradizionali italiane.

P.S.: la tendenza a non pronunciare certe geminate del dialetto tradizionale può anche avere motivazioni psicologiche, semplicemente mirate a voler far apparire meno grezzo (anche se, in effetti, era proprio così) l'oggetto di cui ci si occupa perché , in fondo, se ne prova vergogna. Sentimento accettabilissimo in chiunque, per altro. Ma non tutti sono d'accordo sul fatto che - per non provare più imbarazzo - si debbano distorcere dati storici e linguistici. Ci si può anche occupare d'altro. Nessuno è obbligato a parlare un dialetto "penoso" . . . E perché no? Parlare italiano. Non è precluso a nessuno. Nemmeno ai discendenti di guerrieri invincibili nella loro potenza. :wink: Si tratta, in fondo, dell'unica lingua di cui possiedano davvero una conoscenza nativa più che buona, senza sentirsi costretti a dover proporre agli altri dei "bluff" (come si direbbe in dialetto facilmente scopribili. E si può parlare italiano sempre più convintamente e sempre meglio, approfondendo e migliorando molti aspetti. Perfino con gusto. Traendone soddisfazione . . .

P.P.S.: l'unico veicolo linguistico che rappresenta tutta la cittadinanza locale è l'italiano (sebbene io per primo riconosca l'esistenza di una folta colonia di persone provenienti dall'Ecuador, che parlano tra loro lo spagnolo locale, ma possiedono un buon livello di bilinguismo).

Il dialetto locale implicava la trasmissione intergenerazionale (in età infantile a cura della famiglia d'origine) e un contesto sociale caratterizzato dall'uso comunicativo e dal controllo sociale sulla pronuncia.

Tutte queste caratteristiche socio-linguistiche non esistono più, quindi non ha più senso parlare di dialetto in senso appropriato.

Altrettanto ovviamente, nulla e nessuno può pretendere ad alcun carattere di ufficialità, anche se, talvolta, l'ammetto, enti di governo locale hanno sovvenzionato certe associazioni, un po' come si fa con mostre di pittura o regate veliche.

A mia modestissima opinione (condivisa, per altro, dalla stragrande maggioranza della cittadinanza) non può esistere alcun dubbio tra un dialetto mal parlato (che risulta soltanto la ridicola caricatura di se stesso) a seguito di "pie illusioni" e di sindromi di "neo-borbonismo" linguistico galoppante - che immettono in un vicolo cieco di autoesclusione dalla comunità sociale viva - e un buon italiano, sempre migliorabile e raffinabile - pur senza "estremismi" -, che risulta in grado di continuare a mantenere un dialogo ampio e ricco con una comunità di parlanti numericamente significativa e - caratteristica ancora più apprezzabile (se pure non da tutti) - estremamente variegata per quanto concerne gli aspetti politici, culturali ecc.. Si tratta di una comunità certamente non priva di alcuni eccessi, ma mai tali da ridurre l'insieme dei parlanti a un ghetto dalle motivazioni e dalle finalità non comprese e non condivise dai più.
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