Lei è persona sobria, ma molto gentile e ho trovato simpatica la descrizione della sua famiglia d'origine.
Neppure io ho antenati che portavano elmi colle corna e possedevano ampolle contenenti l'acqua di chi sa più quale corso d'acqua.
Forse come lei e i suoi familiari ho sempre trovato ciò assolutamente normale e non ne ho mai ricevuto né imbarazzo né traumi particolari.
Nella vita mi sono occupato anche di obiettivi non andati a buon fine, ma mai ho pensato di dovermi proporre agli altri per ciò che non sono mai stato. Infatti, sbagliare può capitare, ma doversi inventare - come sostengono gli psichiatri - un "Ideale dell'Io", per cui in genovese esistono anche termini molto triviali, e finire per crederci davvero rischia di essere un po' preoccupante, quasi patologico.
Nelle risposte ho cercato di esporre - al meglio - le mie conoscenze, qualora potessero interessare, ho giustificato scientificamente ogni affermazione riferita e citato le relative fonti (lessicali e linguistiche).Ho spiegato chiaramente perché non possono esistere parole genovesi caratterizzate da "c" non geminata e perché il fiorentino si sia potuto permettere "cece", ma non Genova, che, infatti, ha seixou<çeixaru. E neppure Ventimiglia poté mai avere -c- se non come fonema degeminato rispetto a -cc-. Infatti, Ventimiglia ha "ceixu", caratterizzato dallo stesso fonema intervocalico del genovese, dal momento che l'etimo (del latino tardo) risulta essere "cicere(m)", contrassegnato da -c-, non da -cc-.
Ventimiglia può consentirsi "cocina"<"coccina" soltanto in quanto ha perduto la sensibilità differenziale alla durata consonantica immediatamente postaccentuale. Per nessun altro motivo.
La deaffricazione nelle voci del tipo di "voce", sia ben chiaro, c'è stata e c'è anche nel fiorentino, mentre non può esserci in esiti quale, ad es., "coccio". E - in esiti geminati di questo tipo - neppure nei dialetti liguri. La differenza fondamentale rispetto al paradigma fiorentino consiste nel fatto che, nei dialetti liguri, la deaffricazione risultò posteriore alla sonorizzazione e, in essi, sistematica, mentre essa non fu certamente mai tale nel fiorentino/italiano. Detto in altri termini, in genovese l'etimo latino "voce(m)" giunse a
vûxe /'vu;ʒe/ a motivo dell'intervenuta sonorizzazione e, tralasciando alternative fonologiche (in quanto i dialetti di tipo genovese potrebbero essere anche descritti fonologicamente - senza contraddizione - sulla base del tratto unico rappresentato dalla durata consonantica, se pure ciò non risulta usuale), una voce di questo tipo - foneticamente - può, tuttavia, essere confrontata soltanto con le pronunce fiorentine di "pagina", "agile" ecc., mentre neppure in fiorentino voci geminate quale, ad es., "maggio" vennero caratterizzate da processi di deaffricazione. Per altro, il sistema linguistico genovese, a differenza di quello italiano, risulta, fondamentalmente, asimmetrico. Tollera /'-ʧʧ-/, secondario, come, ad es., in "sacci!" /'saʧʧi/ = sappi!, ma non /'-ʧ-/ (da /'-k-/ lat. davanti a /e, i/) che, come mostrato, passò a /'- ʒ-/. L'analisi completa - anche in termini diacronici - risulta, per altro, troppo complessa per poter essere affrontata qui.
Queste, comunque, non sono mai state competenze linguistiche riscontrabili - con adeguata consapevolezza - in guerrieri (veri o presunti) le cui facoltà risultano troppo appesantite da nobili elmi dotati di corna.
Inoltre, a rischio personale di anatema, ho osato consultare un altro dei "libri sacri" della setta dei discendenti dai guerrieri puri e cornuti. Il piccolo dizionario di Alfredo Gismondi edito nel 1955. Cioè nel primo dopoguerra, quando a Genova, effettivamente, si poteva rilevare una consistente immigrazione di lavoratori dal Meridione, ma esistevano ancora locutori nativi e il dialetto era ancora parlato spontaneamente. Anche il Gismondi riporta "coccina". Esito caratterizzato da geminata. Così come riporta "radiccia" e "radicce" in senso commestibile. Come gli altri lessici del dialetto locale.
Anche il lessico dell'Olivieri del 1851, ancora più antico degli altri da me precedentemente citati, che non avevo fatto ancora in tempo a consultare, propone esclusivamente "coccina". Direi che dizionari genovesi dell'epoca in cui il dialetto era ancora davvero parlato non ne esistano altri. In realtà, c'è l'edizione del Casaccia del 1851. Ma anche in questo lessico si rileva solo "coccina". Li ho esaminati proprio tutti. Il Paganini non riporta il termine e non ne sono mai esistiti altri.
Non mi sarei mai permesso di fornire dati non attestati, privi di fonti autorevoli.
Mentre c'è, come c'è sempre stato nella Storia del Mondo, chi venera i Libri sacri per opprimere gli altri. E, oltre a impedire agli altri di leggerli e di proporne un'edizione critica attendibile, si astiene lui stesso dall'aprirli. Semplicemente in quanto non sa leggerli. Modernamente, manca la motivazione per leggere, ma, se si legge, non si comprende ciò che è stato scritto. E che non si trova necessariamente nei Libri sacri "ufficiali" della setta.
Sulla minestra di erbe di campo, che non è voce originaria del genovese urbano e che, comunque, in genovese genuino si pronuncia "prebbugiun", si potrà tornare con calma se fosse d'interesse. Per altro, si tratta della solita diatriba, trita e ritrita, tra chi preferisce scrizioni aderenti all'effettiva pronuncia e chi preferisce scrizioni di tipo "etimologico". E fin qui . . . Si potrebbero, forse, esprimere opinioni critiche quando le varie sette scelgono le scrizioni "etimologiche" per non fare la fatica di dover apprendere la pronuncia vera e il perché di questa pronuncia (cose che a me interessano e alle quali gli appartenenti al sodalizio non dedicano neppure un secondo del loro prezioso tempo). Ma fin qui . . . Tuttavia l'effettiva difficoltà si presenta quando la setta decide che la propria scrizione (spesso frutto di pigrizia intellettuale o di scarse conoscenze linguistiche), è stata direttamente recapitata da un messaggero alato (mentre era in volo per altre consegne) e, pertanto, risulta l'unica vera. Che va difesa contro l'Evidenza e la Scienza linguistica, perseguendo i refrattari. Non vorrei ripetermi. Ma sto parlando della civilissima Europa. All'approssimarsi dell'anno di grazia 2024. Non di storia medievale . . .
Non conosco la sua opinione in merito all'assegnazione ai vari filoni.
Per quanto mi riguarda la discussione potrebbe benissimo essere inserita nel filone dedicato ai Dialetti in quanto è stata esaminata una voce tipicamente ligure. Che nei dialetti di tipo genovese si riferisce esclusivamente all'intonazione dei dialetti liguri, molti dei quali - a differenza della lingua italiana - possono essere considerati caratterizzati dal tratto fonologicamente distintivo rappresentato dalla quantità vocalica. Che può essere breve o lunga anche in vocale accentata finale di parola. Impossibile in italiano. E in molti dialetti italiani. Mai nessun locutore genovese nativo avrebbe definito "coccina" l'inflessione - anche ben percepibile - di un signore originario, ad es., del Vomero di Napoli. Mai nessuno di loro. Era - nell'accezione tradizionale - termine a esclusivo uso interno. Mai generalizzatosi. Sono stati, poi, esaminati gli aspetti di evoluzione diacronica di /-k-/ latino (davanti a /e, i/) nei dialetti liguri. Mediante transizioni evolutive, ricostruzioni ed esempi specifici. Tutti argomenti svolti con un certo approfondimento, per quanto si possa fare "in linea", ma certamente specifici e relativi a una ben determinata area geografica nel contesto delle varietà linguistiche tradizionali italiane.
P.S.: la tendenza a non pronunciare certe geminate del dialetto tradizionale può anche avere motivazioni psicologiche, semplicemente mirate a voler far apparire meno grezzo (anche se, in effetti, era proprio così) l'oggetto di cui ci si occupa perché , in fondo, se ne prova vergogna. Sentimento accettabilissimo in chiunque, per altro. Ma non tutti sono d'accordo sul fatto che - per non provare più imbarazzo - si debbano distorcere dati storici e linguistici. Ci si può anche occupare d'altro. Nessuno è obbligato a parlare un dialetto "penoso" . . . E perché no? Parlare italiano. Non è precluso a nessuno. Nemmeno ai discendenti di guerrieri invincibili nella loro potenza.

Si tratta, in fondo, dell'unica lingua di cui possiedano davvero una conoscenza nativa più che buona, senza sentirsi costretti a dover proporre agli altri dei "bluff" (come si direbbe in dialetto facilmente scopribili. E si può parlare italiano sempre più convintamente e sempre meglio, approfondendo e migliorando molti aspetti. Perfino con gusto. Traendone soddisfazione . . .
P.P.S.: l'unico veicolo linguistico che rappresenta tutta la cittadinanza locale è l'italiano (sebbene io per primo riconosca l'esistenza di una folta colonia di persone provenienti dall'Ecuador, che parlano tra loro lo spagnolo locale, ma possiedono un buon livello di bilinguismo).
Il dialetto locale implicava la trasmissione intergenerazionale (in età infantile a cura della famiglia d'origine) e un contesto sociale caratterizzato dall'uso comunicativo e dal controllo sociale sulla pronuncia.
Tutte queste caratteristiche socio-linguistiche non esistono più, quindi non ha più senso parlare di dialetto in senso appropriato.
Altrettanto ovviamente, nulla e nessuno può pretendere ad alcun carattere di ufficialità, anche se, talvolta, l'ammetto, enti di governo locale hanno sovvenzionato certe associazioni, un po' come si fa con mostre di pittura o regate veliche.
A mia modestissima opinione (condivisa, per altro, dalla stragrande maggioranza della cittadinanza) non può esistere alcun dubbio tra un dialetto mal parlato (che risulta soltanto la ridicola caricatura di se stesso) a seguito di "pie illusioni" e di sindromi di "neo-borbonismo" linguistico galoppante - che immettono in un vicolo cieco di autoesclusione dalla comunità sociale viva - e un buon italiano, sempre migliorabile e raffinabile - pur senza "estremismi" -, che risulta in grado di continuare a mantenere un dialogo ampio e ricco con una comunità di parlanti numericamente significativa e - caratteristica ancora più apprezzabile (se pure non da tutti) - estremamente variegata per quanto concerne gli aspetti politici, culturali ecc.. Si tratta di una comunità certamente non priva di alcuni eccessi, ma mai tali da ridurre l'insieme dei parlanti a un ghetto dalle motivazioni e dalle finalità non comprese e non condivise dai più.