Ossequente, non ossequiente

Spazio di discussione su questioni di grafematica e ortografia

Moderatore: Cruscanti

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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Bene, l’importante è chiarirsi. :)
Come avrà potuto notare leggendo i miei precedenti interventi, non erano in discussione le sue personali scelte stilistiche, che non consideravo errate, ma solo i suoi suggerimenti sulla forma più corretta da usare, che mi sembrava avessero una valenza generale e non legate alle particolari inclinazioni del Gabrielli.
Del quale conoscevo quanto riportato nel libro da lei citato (tanto che in una prima versione del mio intervento avevo scritto: «…checché ne dica il Gabrielli») ma poi avevo optato per le indicazioni riportate in una fonte più ufficiale come il suo vocabolario (certo, non controllando la voce fare). Comunque quest’ambiguità è un’ulteriore prova della (relativa) inaffidabilità dell’Autore.

Per quanto riguarda il Battaglia, non le devo certo ricordare la sua prevalente impronta di vocabolario storico e quindi l’attenzione da porre nell’interpretazione delle sue indicazioni (e citazioni).
Se non ricordo male, le citazioni senza la a (due o tre) sono le più antiche e quella di Calvino è la più recente.
Neanche questo le era stato contestato: infatti lei usa la forma tradizionale ma oggi sicuramente non consigliata dai dizionari più autorevoli.
Quanto al suo iniziale accenno agli scrittori più attenti e raffinati, oltre a non condividere la sua affermazione (ma questa è solo una mia opinione) spero che non vorrà escludere dalla categoria proprio Calvino…

Rispondo anche al suo poscritto perché questa volta l’osservazione non mi sembra (ma spero di non sbagliarmi) usata per “sminuire” l’interlocutore.
Si trattava di un refuso, ma dopo averlo corretto ho deciso di riformulare la frase in un altro modo perché quel “mole” poteva dare un’indicazione sbagliata: infatti non era vero che avevo consultato 6,02 × 10 E 23 vocabolari. :D
Le ripeto comunque la mia preghiera: queste indicazioni fuori tema sarebbero molto più gradite per posta personale, sarebbe così fugato anche il più vago sospetto che lei le faccia con fini “eterodossi”. :)
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Intervento di Freelancer »

bubu7 ha scritto:
Marco1971 ha scritto:Mi permetta però di farle una piccola osservazione, visto che lei tiene a tutti questi dettagli. La forma «piú corretta» sarebbe non ha nulla che vedere, senza a. ;)
Marco1971 ha scritto:...(io lo uso da sempre e nessuno mi ha rimproverato). :)
Eccomi! :)

Ha fatto bene a mettere tra virgolette l'espressione «più corretta» infatti quella da lei preferita è solo la forma «più tradizionale», oggi variante di (estrema) minoranza della forma nulla/niente a che…
Se vogliamo dare un’indicazione precisa a chi ci legge, sarà quindi quest’ultima la forma da consigliare, cioè più corretta, per chi volesse scrivere in italiano modello. Il GRADIT, il DISC, il Devoto-Oli (1987), lo Zingarelli 2002 e perfino il Gabrielli (in due volumi) riportano solo quest’ultima forma mentre il Treccani le riporta entrambe, senza esprimere preferenze.
Tra l’altro, la forma nulla/niente a che… non è neanche completamente assente dalla nostra tradizione letteraria: una ricerca sulla LIZ 4.0 la mostra in Emilio De Marchi, Federigo Tozzi, Italo Svevo, Ippolito Nievo, Giuseppe Rovani e Luigi Pirandello.
Aggiungo a quanto sopra che nel 1985 Ornella Castellani Pollidori ha scritto un lungo saggio che traccia la storia di questo modulo: A proposito di un'a di troppo: "avere a che fare", aggiungendovi una postilla nel 2002.
La linguista riconosce ovviamente la diffusione del modulo con la a; riporto qui solo un paio delle sue considerazioni:
Per concludere, una facile profezia. Continuando di questo passo, il sintagma avere a che si annetterà via via altre frasi. Abbiamo già avere a che vedere, a che dire, a che spartire; c'è da scommettere che presto cominceremo a leggere e a sentir dire anche avere a che discutere, a che litigare, a che protestare, a che temere, ecc.
L'italiano che si affaccia nel terzo millennio si direbbe dunque aver perso memoria di un costrutto vivo per secoli, perfettamente acclimatato nelle sue strutture sintattiche, e che è stato largamente usato, per così dire, fino a ieri l'altro. Con questo, sarebbe inesatto sostenere che oggi la totalità degl'italiani conosca e adoperi solo il modulo avere a che fare (e relativi a che vedere, a che dire, ecc.). La fedeltà al costrutto tradizionale aver che fare si continua a riscontrare, sia pur raramente, presso studiosi o comunque persone di cultura, tra cui anche qualche noto giornalista.
(Seguono varie testimonianze registrate.)
Ultima modifica di Freelancer in data mar, 11 ago 2015 7:35, modificato 2 volte in totale.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Grazie infinite, Roberto, per queste autorevoli citazioni, che mi ridanno un po’ di speranza nei confronti del bon usage. :)
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Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Grazie, Roberto, per aver segnalato l'articolo della Pollidori, che non conoscevo: potrebbe darne gli estremi per meglio rintracciarlo?
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Freelancer
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Intervento di Freelancer »

Incarcato ha scritto:Grazie, Roberto, per aver segnalato l'articolo della Pollidori, che non conoscevo: potrebbe darne gli estremi per meglio rintracciarlo?
Uscito per la prima volta in SLI, XI 1985, pp. 27-49. Ripubblicato (con postilla), pp. 425-450, nella raccolta di saggi della stessa Pollidori In riva al fiume della lingua, Salerno Editrice 2004, prezzo 68 euro, disponibile tramite Internet Bookshop per chi vive all'estero.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Una raccolta molto bella e interessante. Notevole, fra altre cose, l’ampio saggio sull’articolo e il possessivo.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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