84. Se le due vocali sono ambedue forti {= accentate (
NdI)}, formano iato (es.
libertà utile,
sarà alto,
mangerò erba) [186];
se è forte solo la prima, la seconda diviene asillabica (es.
libertà ĭncerta,
virtú ĕroica,
fu ăiutato); se è forte solo la seconda o nessuna delle due è forte, diventa asillabica la prima (es.
verdĭ alberi,
quellĕ anime,
poverĕ orfane;
zefirŏ aleggia,
vaghĭ aspetti,
nottĕ amena) o si perde (cfr. n. 85). [187] Può anche diventare asillabica la seconda, se nessuna delle due è forte, quando questa seconda sia
i ovvero
u (es.
queste ĭmmagini,
quelle ŭsure): cfr. n. 68. [188]
Nelle stesse condizioni avvengono i trittongamenti. [189] Es.
di rocŏ aŭgel diventĭ un bianco cigno (Poliziano),
già le setolĕ arricciă ĕ arrotă i denti (Idem).
85. In un grado piú forte d’unione [190] la vocale terminativa si perde. [191]
Nella formula «vocale +
l,
m,
n,
r (tenui, non rafforzate!) +
a», la vocale finale è sostituita da un apostrofo, salvo in
ora e i suoi composti,
suora dinanzi a un nome proprio.
Nella formula «vocale +
l,
m,
n,
r (come sopra) +
e, i, o», la vocale perduta non è sostituita dall’apostrofo.
In ogni altra formula alla vocale eliminata si sostituisce l’apostrofo. [192]
In questi casi [w] iniziale della seconda parola si comporta come vocale nel maschile, come consonante nel femminile; [j] è spesso incerta, ma dovrebbe seguire [w]. Cfr. n. 118–120.
Le elisioni meno frequenti sono quelle in cui nella prima parola la consonante è fricativa, o
mm,
m. Le elisioni avvengono di regola tra il sostantivo, l’aggettivo, le finali
-mo,
-no,
-nno,
-ro del verbo, l’infinito, l’avverbio o una proclitica (cfr. n. 76) e un complemento immediato. Rare sono però le elisioni dei plurali, se non si tratti di vocali eguali. Delle proclitiche non si elidono
ma,
né; solo in qualche caso
da,
se (congiunzione); solo dinanzi a
u si elide
su quando non divenga
sur (cfr. n. 86); di
che si elidono anche i composti;
ora sostantivo si elide solo in
un’or di notte. Es.
buon anno,
quest’anima,
un orso,
un’orsa,
quell’inglese,
signor Antonio,
sant’Antonio,
donn’Elvira,
amor innocente,
suor Elena,
voglion altro,
farebber altrimenti,
sudar acqua,
far entrare,
andar innanzi,
venir essa,
andar a cavallo,
poc’oltre,
senz’altro, anch’io,
or egli,
ancor ella,
ben accolto,
l’anno,
c’invitano,
s’intende,
ch’egli,
bench’egli (1).
S’intende che ortograficamente il monosillabo debole
ci s’eliderà solo dinanzi a
e,
i (es.
c’erano,
c’invitano) e
gli solo dinanzi a un altro
i (es.
gl’idoli,
gl’italiani). [193] Negli altri casi la
-i resta [194], ma come segno distintivo. Nella pronuncia sostenuta abbiamo
amicĭ onesti,
agĭ eccessivi, escĭ ormai invece di [amiːʧ onɛsti] ecc., come divengono semplicemente asillabiche molte vocali finali che nella pronuncia rapida o trascurata invece si elidono.
- (1) [195] In una lingua come la nostra dove tutte le parole (eccetto alcune voci onomatopeiche, come patatrac, bum, e con, in, non, per) finiscono in vocale, l’apostrofo è una pedantesca superfluità grammaticale, con la solita mania di distinguere e suddistinguere: cfr. n. 77 nota. Scrivendo quell uomo non si capisce forse, o si capisce meno, che è stata tolta una vocale? Affermano i grammatici che noi cosí distinguiamo il maschile un animo dal femminile un’anima. Come se, senz’apostrofo, non si capisse lo stesso che animo è maschile e anima femminile; come se un artista e un’artista non si distinguessero, al pari di tantissime altre parole che non godono il privilegio dell’apostrofo, dal contesto! E perché poi, se questo è vero, si scrive quest’animo come quest’anima? E a che mai corrisponde la distinzione tra quest’uomo e pover uomo? [196] Stringi stringi, rimane che l’apostrofo è realmente utile solo quando l’accorciamento della parola lascia come finale non una consonante, ma una vocale: es. de’ miei, su’ pini, gua’, ve’.
Naturalmente non è affatto possibile ora abolire l’apostrofo postconsonantico; ma se s’arrivasse a sviluppare nel pubblico la coscienza, che ora manca, della sua inutilità, una riforma potrebbe avvenire.
86. Dinanzi all’art.
uno la prep.
su riprende la finale primitiva (
sur) quando non si elida (cfr. n. 85), come riprendono la loro consonante le particelle
a,
e,
o divenendo
ad,
ed,
od (lat.
ad,
et,
aut), in genere quando siano seguite da vocali eguali. Es.
sur una sedia,
ad altri,
ed egli,
od ogni. [197]
La lingua antica aveva anche le coppie
che ched,
ma mad,
né ned,
se sed.
87. I fenomeni di fonetica sintattica che abbiamo descritto, sono impediti (cfr. n. 83):
a) da una pausa. Cosí abbiamo
sant’Antonio, ma
Luigi è santo,
Antonio è santo. In versi del tipo
segue chi fuggĕ,
a chi la vuol s’asconde (Poliziano);
fermossĭ, e di spiar vago per uso (Leopardi), la pausa dopo
fugge,
fermossi non impedisce la sineresi
(-ĕa-,
-ĭe-). In questo caso non può piú parlarsi di fenomeno fonetico, ma psicologico. La sineresi (sineresi subiettiva), essendo potenzialmente possibile, è percepita, per il sentimento del ritmo, come realmente avvenuta nonostante la pausa.
b) dall’allungamento d’una vocale finale. Cfr.
degli imbrogli di don Abbondio e
degl’imbrogli di Renzo nel secondo capitolo dei
Promessi Sposi.
c) da un sensibile dislivello di tono musicale. Cfr.
sant’Antonio e
santo Antonio non fu (cioè: A. non fu santo) o meglio due versi come
tu chiamar sant’Antonio potrai e
chiamar santo Antonio potrai (cioè: potrai chiamar A. santo): il dislivello è tra la sillaba forte
san- e la iniziale
An-.
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[186] La prima delle due vocali forti che vengono a contatto, d’ordinario, perde il suo accento:
sarà alto si pronunzia
sàra àlto collo stesso ritmo di
èra àlto. Cfr. n. 82.
[187] Si può benissimo formare un iato anche quando è forte una sola delle due vocali che vengono a contatto, sia essa la prima (es.
fu aiutato) {in questo caso, però, solo frapponendo un colpo di glottide:
v. supra Bertinetto (
NdI)} o la seconda (es.
verdi alberi).
[188] Nella lingua antica, e nel linguaggio poetico fino all’Ottocento, era possibile l’aferesi d’un
i- atono che fosse seguito da un’
l o
m o
n, seguita a sua volta da un’altra consonante:
lo ’mpero,
lo ’ngegno,
e ’l sole.
[189] Nella frase si possono avere anche i quadrittonghi (es.
Mario e Antonio), che nell’interno di parola sono del tutto eccezionali (cfr. piú giú,
I fondamenti della prosodia italiana, n. 28 nota), e perfino le unioni di cinque vocali (es.
Mario e Aurelio), che nell’interno di parola non si hanno mai.
[190] Questo grado piú forte d’unione si ha solo quando la vocale finale della prima parola è atona: le vocali toniche non cadono mai. Solo apparente è l’eccezione (non piú comune oggi nella lingua scritta) di
benché,
perché e altri composti di
che. Queste congiunzioni portano l’accento grafico (salvo che siano scritte in forma divisa, quelle che ce n’hanno una); ma non è detto che l’accento d’intensità cada sulla vocale finale, anzi qualche volta il ritmo della frase impedisce che vi cada. In
benché creda [bɛŋke kkreːda], per es., l’
-é graficamente accentata non porta in realtà un accento, trovandosi a ridosso d’un’altra sillaba che porta quello di frase. L’
-é che cade in
bench’io creda [bɛŋk iːo kreːda], per es., è appunto, nonostante l’accento grafico, un’
-e atona.
[191] «La lingua parlata, anche delle persone colte, ricorre spessissimo all’elisione (es.
vorrann’uscire, entrat’e uscito); la lingua scritta ammette solo eccezionalmente certe elisioni piú ardite e limita molto anche i troncamenti» (
Dizionario enciclopedico italiano, vol. XI, cit., p. 333, col. 1ª).
[192] La regola è che si segna l’apostrofo quando della vocale finale si può avere solo l’elisione davanti a un’altra vocale; non si segna invece quando la parola si può troncare cosí davanti a vocale come davanti a consonante. Quindi:
un orso (accanto a
un lupo), ma
un’orsa (di fronte a
una lupa);
suor Alfonsina (accanto a
suor Giovanna), ma
sant’Orsola (di fronte a
santa Chiara).
[193] Nella scrittura, l’elisione del
ci avverbio è rappresentata costantemente, per mezzo dell’apostrofo, davanti alle voci del verbo
essere: es.
non c’è stato nessuno [non ʧ ɛ staːto nessuːno]. L’apostrofo è facoltativo col
ci avverbio davanti ad altri verbi, e col
ci pronome in ogni caso; ma nella pronunzia l’elisione, o che sia segnata o che non sia, normalmente si fa: es.
non ci (o
c’)
ebbe colpa [non ʧ ɛbbe kolpa]; non
ci (o
c’)
è stato detto [non ʧ ɛ staːto detto];
non ci (o
c’)
invitò [non ʧ imviˈtɔ] {per Camilli & Fiorelli [m] = [m] e [ɱ] (
NdI)}. Cosí pure si fa normalmente l’elisione, sia del
ci avverbio sia del
ci pronome, anche davanti alle vocali
a,
o,
u, dove non c’è modo di rappresentarla nella scrittura:
ci andava [ʧ andaːva],
ci odiava [ʧ odĭaːva] {per Camilli & Fiorelli [ĭ] = [j], che può diventare occasionalmente [i̯] per necessità metriche in base a criteri etimologici (
NdI)}. L’
-i si fa sentire solo se si voglia insistere sul
ci.
[194] L’elisione di
gli nella scrittura davanti a
i- è da molti ritenuta erronea, quantunque l’ammissibilità dell’apostrofo in tal caso sia riconosciuta esplicitamente da quasi tutte le grammatiche, anche dalle piú modeste. È un fatto d’ignoranza e nulla di piú: chi condanna l’elisione di
gli davanti a
i- confonde questo caso, com’è chiaro, con quello di
gli davanti ad
a-,
e-,
o-,
u-, dove l’elisione è normale nella pronunzia ma non è piú possibile nell’ortografia, che pure l’ammetteva fin verso i primi dell’Ottocento. Tuttavia bisogna fare i conti anche coll’ignoranza e riconoscere che l’apostrofo in incontri come
gl’impose o
gl’indici è evitato dai piú, sia che a torto lo ritengano erroneo, sia che (pur sapendo come stanno le cose) lo ritengano stilisticamente troppo raffinato, da lasciare ai letterati, o funzionalmente troppo scomodo, da lasciare a chi conosce tutte le regole e le eccezioni. Quindi, nell’ortografia oggi prevalente, non ci sarebbe piú modo di far notare differenze di stile come quella tra un
degli imbrogli in pronunzia strascicata e un
degl’imbrogli in pronunzia affrettata (cfr. n. 87
b): si scriverebbe in ogni caso
degli imbrogli, come già al tempo del Manzoni si sarebbe scritto in ogni caso
degli ostacoli senza possibilità d’apostrofo. Di conseguenza, è pienamente giustificata, oggi, l’elisione nella lettura, anche là dove la scrittura non la rappresenti: non solo
agli amici [aʎʎ amiːʧi],
gli ospiti [ʎ ˈɔspiti],
gli offro [ʎ ɔffro], ma anche
degli istituti [deʎʎ istituːti],
gli inglesi [ʎ iŋɡleːsi]
e tanto piú
gli inni [ʎ inni], dove coll’elisione si evita un iato particolarmente duro.
[195] Precedente edizione di questa nota:
Per l’unità ortografica, cit.,
p. 513.
[196] Comunemente
pover’uomo si scrive coll’apostrofo, giacché non si potrebbe avere
pover davanti a consonante: qualunque conto si voglia fare del
pover cielo di Dante, il
pover manuale del Carducci è una licenza poetica.
[197] S’intende che le forme
sur,
ad,
ed,
od sono soltanto facoltative. Piú in particolare: 1)
su uno è la forma che oggi prevale, di fronte a
su di uno comune soprattutto nell’uso scritto non letterario, a
sur uno letterario e raro, a
s’uno arcaico o dialettale; 2)
ad, raro nell’uso parlato, è assai comune nello scritto, specie davanti ad
a- (non però davanti a
ad-:
a Adolfo), ed è quasi costante davanti al pronome
esso e quando ha il significato burocratico di ‘a fine di’ (
ad evitare…); 3)
ed, raro nell’uso parlato, è assai comune nello scritto, specie davanti a
e- (non però davanti a
ed-:
e Edoardo); 4)
od, praticamente sconosciuto all’uso parlato, è usato nello scritto, quasi solo davanti a
o- (non però davanti a
od-:
o Odorico).