Dell’evoluzione e del progresso

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bubu7
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Re: Dell’evoluzione e del progresso

Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto: ... vorrei formulare un’ipotesi che forse sta alla base di molti nostri dissensi...
La sua ipotesi non è sbagliata, ma è incompleta.

È vero che io cerco di indagare sui fenomeni linguistici seguendo le indicazioni della ricerca scientifica, ma è anche vero che a quest'osservazione spassionata si affiancano scelte personali (quindi, in un certo senso, sentimentali) che non necessariamente seguono l’ultima moda.
Quello che principalmente le contesto, sono certe scelte che mi sembra vadano contro le conclusioni della quasi totalità dei linguisti. Conclusioni di linguisti di tutte le nazionalità riguardo alla situazione italiana e a quello che si potrebbe fare tenuto conto di tutte le variabili in gioco.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Re: Dell’evoluzione e del progresso

Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:
bubu7 ha scritto:Non risponda ancora, la prego, lancio queste riflessioni parziali ma mi riprometto di ritornarci per completarle appena possibile.
Attendo le sue precisazioni...
Purtroppo mi manca il tempo per sviluppare in tempi rapidi le tracce contenute nelle mie domande.
Se crede, può quindi replicare liberamente ai miei interventi. :)
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

bubu7 ha scritto:È vero che ogni evoluzione linguistica sia sempre positiva? E in che senso?
Per me, appunto, c’è l’evoluzione buona e quella cattiva. Mi riferivo, nell’asserzione dell’intervento d’apertura, a un mio sentimento nei confronti della sua posizione al riguardo (mi sembrava, ma spero di sbagliarmi, che lei fosse a favore dei cambiamenti, qualunque essi siano).
bubu7 ha scritto:La lingua ha una sua forma essenziale? Qual è questa forma? Questa forma deve rimanere invariata? Se no, quando si può parlare di cambiamento positivo e quando di corruzione?
Certo che l’italiano ha una forma essenziale, determinata dalla struttura della grande maggioranza del suo lessico (e qui non mi posso ripetere). Tale forma fa dell’italiano una lingua distinta da tutte le altre e perché italiano resti deve per forza mantenerla, altrimenti dovremmo parlare di una lingua diversa, per esempio d’itangliano. La corruzione, per me, consiste proprio nello snaturamento morfologico e fonetico cagionato dall’impiego usuale – e non occasionale, a mo’ di citazione – di molti anglicismi crudi. Illustri studiosi come Bruno Migliorini e Arrigo Castellani, come tutti sanno, l’hanno detto meglio di me. Mi permetto di ricitare questi due passi del «Morbus anglicus» (non per lei, ma per chi non ha letto l’articolo):
La nostra lingua non ammette consonanti in fin di parola (a eccezione delle liquide e nasali, ma di norma, se non si tratta di poesia, solo all’interno di frase), e ancor meno gruppi consonantici. Né mi pare sia concepibile una «trasformazione delle norme di utilizzazione dei fonemi italiani» (De Mauro, brano cit. sopra) per cui a un certo punto diventi normale avere parole in consonante o gruppo consonantico invece che in vocale. Un italiano in cui le parole terminassero per -t, -ft, -sp, -ps, -nk, ecc. non sarebbe più italiano. Privo d’una chiara e salda individualità fonetica, non sarebbe nemmeno più una lingua nel pieno senso della parola. [...]

Se l’italiano derivasse da un dialetto della Val Padana, se Dante, il Petrarca e il Boccaccio fossero nati, per esempio, a Bergamo, e se il parlare di quella città fosse stato accettato dal resto del nostro paese, le difficoltà sarebbero minori. Ma Dante, Petrarca e Boccaccio hanno scritto in fiorentino; la lingua che abbiamo ereditata dai nostri antenati è il fiorentino (con qualche cambiamento, s’intende, e con accrescimenti lessicali). E il fiorentino è un parlare centro-meridionale; un parlare che diversamente dalla maggioranza di quelli settentrionali (abbastanza vicini al tipo galloromanzo) conserva le vocali atone e le vocali finali e, fedele alle tendenze del latino volgare d’Italia, semplifica determinati gruppi consonantici.
bubu7 ha scritto:Esiste un problema di basso livello culturale degl’italiani? È un problema di oggi o che oggi si è aggravato? A questo problema è legato quello della dipendenza della nostra terminologia scientifica dall’estero?
Di questo s’è già discusso qui. Penso che l’adozione dei termini tecnici (e no) anglo-americani sia legata alla bassa cultura. In passato chi maneggiava la lingua erano le sole persone cólte, perlopiú scrittori, e quindi i termini forestieri assumevano veste italiana; oggi la lingua è parlata (e, in minor grado, scritta) dalla maggioranza degl’italiani, che spesso la lingua conoscono in maniera epidermica e che non hanno le risorse per tradurre o adattare (la mia è solo una costatazione). Mi sembra evidente: in genere le persone dòtte evitano i forestierismi nei loro scritti (basta vedere la prosa scientifica di Serianni), e questo lo fa anche lei. È pacifico che coloro che non conoscono l’inglese non possano ricorrere neanche alla traduzione letterale. Finisco (per ora) con una citazione dello stesso Luca Serianni (tratta da La Crusca risponde, Firenze, Le Lettere, 1995, p. 20):
Molte volte il termine straniero risponde a una semplice ostentazione snobistica e rivela, più che le aperture internazionali, la pigrizia, il provincialismo e magari la superficiale cultura di chi scrive. L’uso avventato di forestierismi inutili può giocare anche brutti scherzi. Se lo scritto è destinato alla stampa, il tipografo talvolta storpia la parola straniera non familiare, facendo fare così una brutta figura allo scrivente. Attenzione poi, se non si conosce più che bene una lingua straniera; chi dice o scrive “il brutto affaire degli appalti truccati” mostra una pratica assai approssimativa del francese: bisognerebbe dire “la brutta affaire” (affaire è femminile). Decisamente meglio, dunque, “il brutto affare”.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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LE FORME DELLA LINGUA

Intervento di Uri Burton »

bubu7 ha scritto:Il fatto che Leopardi potrebbe aver detto cose simili è insignificante in questa sede, in un verso o nell’altro.
Insignificante per lei, anche per molti altri, glielo concedo, ma non per tutti.
bubu7 ha scritto:Focalizziamo la nostra attenzione sulle importanti questioni sollevate da Marco.
Benissimo. Lo farò anch’io, anche se da un’angolazione (parzialmente) diversa da quella di Marco.
bubu7 ha scritto:È vero che ogni evoluzione linguistica sia sempre positiva? E in che senso?
Di per sé la lingua è neutra, almeno partendo dall’ipotesi scientifica del nostro tempo, che è quella di Noam Chomsky: la sua forma è più o meno accettabile secondo la percezione dei parlanti nativi.
bubu7 ha scritto:La lingua ha una sua forma essenziale? Qual è questa forma? Questa forma deve rimanere invariata? Se no, quando si può parlare di cambiamento positivo e quando di corruzione?
Il linguaggio come mezzo espressivo è tuttavia anche una funzione della cultura. Di qui l’esigenza di regole di stile, che in questo contesto non sono sinonimo di «grammatica chomskiana»; vale a dire, del programma che definisce la lingua come fenomeno «biologico». Questo è senz’altro un giudizio di valore (di nuovo: glielo concedo) perché presuppone che alcuni cambiamenti siano positivi e altri no. In proposito teniamo però presente due cose: se per conservatorismo s’intende un gretto, supino e acritico adeguamento al passato, il conservatorismo è intellettualmente morto; se invece per conservatorismo s’intende il mantenimento di ciò che nel passato è culturalmente valido – in altre parole, conforme alla nostra civiltà estetica e alle caratteristiche stilistiche e strutturali della lingua – allora in un modo o nell’altro siamo tutti conservatori. Altrimenti Lenin non si sarebbe opposto allo smantellamento del patrimonio letterario zarista auspicato dagli estremisti della rivoluzione di ottobre.
bubu7 ha scritto:Esiste un problema di basso livello culturale degl’italiani? È un problema di oggi o che oggi si è aggravato? A questo problema è legato quello della dipendenza della nostra terminologia scientifica dall’estero?
Ma questo è evidente. Il Paese non inventa nulla. Non tiene il passo con le altre potenze economiche, neanche nel settore umanistico. E questo a causa (1) della mancanza di fondi per la ricerca in tutti i campi, (2) del malavitoso sistema delle raccomandazioni e delle baronie universitarie e (3) del disinteresse, se non addirittura disprezzo, che le parti sociali manifestano per chi si dedica a discipline non strettamente legate al profitto.
Uri Burton
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:…mi sembrava, ma spero di sbagliarmi, che lei fosse a favore dei cambiamenti, qualunque essi siano…
No, non sono favorevole a tutti i cambiamenti. Come dicevo, una cosa è l’osservazione e la descrizione dei cambiamenti in atto, oppure le proposte per possibili correzioni di rotta alla luce dello stato attuale della ricerca linguistica; un’altra la mia posizione personale che si può intuire anche dalle mie scelte linguistiche.
Marco1971 ha scritto:Tale forma fa dell’italiano una lingua distinta da tutte le altre e perché italiano resti deve per forza mantenerla, altrimenti dovremmo parlare di una lingua diversa, per esempio d’itangliano.
La stragrande maggioranza dell’attuale lessico italiano ha una struttura classica. Inoltre, nella maggioranza dei casi in cui un anglicismo crudo è produttivo, la famiglia che ne deriva ha generalmente una struttura italiana classica.
L’attuale snaturamento fonetico è insignificante, praticamente inesistente. I termini stranieri vengono pronunciati all’italiana.
Castellani dice: “la lingua italiana non ammette consonanti in fin di parola”, se è per questo non ammetteva neanche certi nessi all’interno delle parole (sia nella grafia che nella pronuncia). La massiccia introduzione di latinismi e grecismi ha modificato questa caratteristica. L’italiano è forse diventato itanino o itaneco? Questo per dire che cambiamenti strutturali nel lessico ci sono già stati ma l’italiano ha continuato a essere una lingua distinta dalle altre. La storia della lingua, poi, riporta innumerevoli altri cambiamenti di forma, nella morfologia e nella sintassi (parti più conservatrici e quindi più vicine al nucleo della lingua), cambiamenti influenzati o meno dall’esterno, ad esempio dal francese o dallo stesso latino, senza che l’italiano abbia mai cessato di avere una sua identità.
Anche riguardo alle terminazioni consonantiche, le affermazioni di Castellani sono incomplete: molti dialetti meridionali ammettono la terminazione consonantica seguita da una scevà più o meno avvertibile. Quindi, le terminazioni consonantiche incriminate trovano riscontro, nell’effettiva pronuncia degl’italiani, nei sistemi fonologici dialettali. Si tratterebbe di una delle tante influenze bidirezionali, tra italiano e dialetto, passando per gl’italiani regionali.
Di obiezioni ce ne sarebbero ancora tante.
Per esempio, io considero l’italiano il latino di oggi e solo una visione da miope (nel senso vero di chi da lontano non può distinguere tutti i particolari) le fa considerare due lingue distinte. Le chiamiamo con due nomi per comodità visto che su lunghi intervalli temporali le corruzioni si accumulano. Oggi tutto questo dovrebbe qualitativamente fermarsi? La forma, che è sicuramente cambiata dal latino all’italiano, dovrebbe congelarsi? Questo non è mai accaduto nella storia delle lingue, se non per brevi periodi e con enorme danno per la lingua interessata.

Il problema vero della forma è un problema culturale. E con questo vengo al terzo gruppo di domande.
L’identità di una lingua si mantiene se è sostenuta da una cultura forte. Identità che permane anche se vi sono combiamenti rivoluzionari nella lingua stessa, perché più che di identita linguistica si dovrebbe parlare d’identità culturale.
E qui torniamo al discorso che ho sempre fatto. Non si dovrebbe confondere la causa con l’effetto. Il basso livello culturale degl’italiani e la correlata debolezza economica e tecnologica, sono all’origine dell’aumentato afflusso di anglicismi. Se avessimo una cultura forte e facessimo noi le scoperte scientifiche e tecnologiche, inventeremmo noi le parole e le esporteremmo, come qualche volta è accaduto nel passato.
Quindi studiate e fate studiare.
Da una parte aumenterebbe la coscienza linguistica e la capacità di trovare traducenti ai forestierismi esistenti e dall’altra ne ridurremmo l’afflusso perché saremmo noi a esportare cultura.

Ci sarebbero ancora tantissime cose da dire, ad esempio, sull’importanza dell’attuale maggiore diffusione, negl’italiani, della competenza linguistica relativa all’italiano; dell’importanza di questo fattore perché si possa considerare viva una lingua. Il fatto che l’italiano sia parlato liberamente, senza pastoie puristiche, ha permesso il riavviarsi, per l’italiano, di quei motori selettivi che lo stanno riavvicinando tipologicamente alla grande famiglia romanza europea.

Una piccola postilla.
Serianni nella Crusca per voi ha scritto:Attenzione poi, se non si conosce più che bene una lingua straniera; chi dice o scrive “il brutto affaire degli appalti truccati” mostra una pratica assai approssimativa del francese: bisognerebbe dire “la brutta affaire” (affaire è femminile).
Il Devoto Oli (Serianni) 2007 ha scritto:Affaire […] s.f. fr.(pl. affaires), in it. s.m. (invar. o anche pl. orig.)
Sul dizionario, di cui è uno dei curatori, non vi è alcuna indicazione su un possibile uso femminile.
Io sono d’accordo col Serianni del 2006, spero lo sia anche lui.
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Re: LE FORME DELLA LINGUA

Intervento di bubu7 »

Uri Burton ha scritto:
bubu7 ha scritto:Il fatto che Leopardi potrebbe aver detto cose simili è insignificante in questa sede, in un verso o nell’altro.
Insignificante per lei, anche per molti altri, glielo concedo, ma non per tutti.
Quel che intendevo è che preferirei non approfondire, in questa discussione, cosa volesse dire il Leopardi in quelle citazioni. :)
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

bubu7 ha scritto:La stragrande maggioranza dell’attuale lessico italiano ha una struttura classica. Inoltre, nella maggioranza dei casi in cui un anglicismo crudo è produttivo, la famiglia che ne deriva ha generalmente una struttura italiana classica.
A meno di rinunciare alla morfologia verbale e ai suffissi produttivi, non può certo essere diversamente.
bubu7 ha scritto:L’attuale snaturamento fonetico è insignificante, praticamente inesistente. I termini stranieri vengono pronunciati all’italiana.
Pronunciare un termine straniero all’italiana non rende punto «italiane» le sequenze fonetiche che ne risultano: /'striming/, /'wajerlEs/, /kard/ sono combinazioni «anitaliane».
bubu7 ha scritto:Castellani dice: “la lingua italiana non ammette consonanti in fin di parola”, se è per questo non ammetteva neanche certi nessi all’interno delle parole (sia nella grafia che nella pronuncia).
Dal punto di vista fonetico, invece, l’introduzione, nel corpo di parola, di nessi consonantici originariamente estranei non mi sembra equiparabile a nessi simili in fin di parola: come nel canto ogni frase è un arco con un inizio e una fine, cosí la sostanza fonica si riconosce essenzialmente dalle sue estremità. Prendiamo l’esempio di atleta (che, proprio nella forma plurale atlete, si trova in Boccaccio; tali nessi scritti abbondano negli antichi): secondo il primo sistema fonologico dovrebbe essere *alleta; tuttavia, il nesso -tl- interno non è propriamente strutturante; se invece avessimo *atlet (o *allet) l’architettura della parola non risponderebbe piú a quella regolare. Insomma, la terminazione consonantica è un fatto fonetico molto piú vistoso dei nessi interni perché altera la prosodia della lingua.
bubu7 ha scritto:La massiccia introduzione di latinismi e grecismi ha modificato questa caratteristica. L’italiano è forse diventato itanino o itaneco?
No, perché i latinismi e i grecismi non hanno intaccato le terminazioni vocaliche.
bubu7 ha scritto:Anche riguardo alle terminazioni consonantiche, le affermazioni di Castellani sono incomplete: molti dialetti meridionali ammettono la terminazione consonantica seguita da una scevà più o meno avvertibile. Quindi, le terminazioni consonantiche incriminate trovano riscontro, nell’effettiva pronuncia degl’italiani, nei sistemi fonologici dialettali. Si tratterebbe di una delle tante influenze bidirezionali, tra italiano e dialetto, passando per gl’italiani regionali.
Le affermazioni del Castellani non sono incomplete, si riferiscono all’italiano senz’aggettivi, non alla maggiore o minore facilità di pronuncia di certi parlanti. L’italiano non è un dialetto meridionale, né settentrionale, e il fatto che certe terminazioni consonantiche siano possibili in alcuni dialetti non ne giustifica, ai miei occhi come a quelli d’altri, l’importazione nella lingua nazionale.
bubu7 ha scritto:La forma, che è sicuramente cambiata dal latino all’italiano, dovrebbe congelarsi? Questo non è mai accaduto nella storia delle lingue, se non per brevi periodi e con enorme danno per la lingua interessata.
E quali mai danni potrebbe arrecare all’italiano la conservazione della sua monda, insuante (gàrbavi? :D) e estuante caratteristica formale?

Sulle sue altre considerazioni, in linea di massima, concordo. :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto: Le affermazioni del Castellani non sono incomplete, si riferiscono all’italiano senz’aggettivi, non alla maggiore o minore facilità di pronuncia di certi parlanti. L’italiano non è un dialetto meridionale, né settentrionale, e il fatto che certe terminazioni consonantiche siano possibili in alcuni dialetti non ne giustifica, ai miei occhi come a quelli d’altri, l’importazione nella lingua nazionale.
Qui sta uno dei noccioli della questione.
Certo, l’italiano non è un dialetto meridionale o settentrionale ma non è neanche più l’italiano letterario derivante dal dialetto toscano tre-cinquecentesco. La lingua nazionale si estende su un territorio in cui più del novanta per cento dei parlanti subisce l’influsso delle proprie radici dialettali. In più, il peso sociale di Roma e Milano è molto maggiore della loro consistenza demografica. Al contrario, l’influsso regionale toscano è irrilevante per modificare la norma.
Come può tutto questo non modificare le caratteristiche di una lingua e soprattutto, perché non lo dovrebbe fare? Cosa c’è di male nel fatto che una lingua si adegui, in parte, alle mutate caratteristiche dei parlanti?
Quello che il Castellani coniugava al presente va tutto coniugato al passato. Cosa c’è di strano in questo? Il mondo cambia e solo la lingua dovrebbe rimanere formalmente invariata? Proprio quest’ultima sarebbe invece la stranezza.

Allora dove il Castellani diceva:
La nostra lingua non ammette consonanti in fin di parola…
[...]
...la lingua che abbiamo ereditata dai nostri antenati è il fiorentino...
secondo me si dovrà dire:

…non ammetteva…

… era il fiorentino [emendato] (e lo è ancora in massima parte) ma oggi fattori sociolinguistici, di origine esogena ed endogena, hanno in parte modificato alcune sue caratteristiche marginali.
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Intervento di Marco1971 »

bubu7 ha scritto:Qui sta uno dei noccioli della questione.
Certo, l’italiano non è un dialetto meridionale o settentrionale ma non è neanche più l’italiano letterario derivante dal dialetto toscano tre-cinquecentesco.
E invece sí, caro bubu, l’italiano è tuttora, fondamentalmente, il dialetto fiorentino del Trecento (con modifiche, queste sí, marginali e per cosí dire strutturalmente irrilevanti).
bubu7 ha scritto:La lingua nazionale si estende su un territorio in cui più del novanta per cento dei parlanti subisce l’influsso delle proprie radici dialettali. In più, il peso sociale di Roma e Milano è molto maggiore della loro consistenza demografica. Al contrario, l’influsso regionale toscano è irrilevante per modificare la norma.
Ma i parlanti, sia settentrionali sia meridionali, non hanno alcuna difficoltà a pronunciare le parole uscenti in vocale; né mi pare che essi vogliano a tutti i costi modificare la lingua seguendo le loro abitudini fonetiche dialettali. Al contrario, penso che la maggioranza preferirebbe attenersi alle forme tradizionali.
bubu7 ha scritto:Come può tutto questo non modificare le caratteristiche di una lingua e soprattutto, perché non lo dovrebbe fare? Cosa c’è di male nel fatto che una lingua si adegui, in parte, alle mutate caratteristiche dei parlanti?
Le mutate caratteristiche dei parlanti? Cos’è mutato nei parlanti? Cinque secoli fa non parlavano già i loro dialetti? E questi dialetti si sono modificati in maniera cosí radicale da trasformare profondamente le loro consuetudini fonatorie? Non mi sembra un bene che la lingua cambi solo per fantomatiche «mutate caratteristiche dei parlanti».
bubu7 ha scritto:Quello che il Castellani coniugava al presente va tutto coniugato al passato. Cosa c’è di strano in questo? Il mondo cambia e solo la lingua dovrebbe rimanere formalmente invariata? Proprio quest’ultima sarebbe invece la stranezza.
E la fisionomia umana, dai tempi di Dante a oggi, è cambiata? Eppure la vita è completamente diversa oggi. Oppure dovremmo avere solo un occhio e trasformarci in ciclopi per stare al passo coi tempi? :D La struttura individuante dell’italiano non ha alcun bisogno di mutazione per essere una lingua moderna in grado d’esprimere tutte le realtà del mondo attuale e di quello futuro.
bubu7 ha scritto:...era il fiorentino [emendato] (e lo è ancora in massima parte) ma oggi fattori sociolinguistici, di origine esogena ed endogena, hanno in parte modificato alcune sue caratteristiche marginali.
A quali caratteristiche marginali allude?
Marco1971 ha scritto:E quali mai danni potrebbe arrecare all’italiano la conservazione della sua monda, insuante (gàrbavi? :D) e estuante caratteristica formale?
Attendo tuttora la sua risposta a questa domanda.
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:E invece sí, caro bubu, l’italiano è tuttora, fondamentalmente, il dialetto fiorentino del Trecento (con modifiche, queste sí, marginali e per cosí dire strutturalmente irrilevanti).
Se rilegge con attenzione l’ultima parte del mio precedente intervento vedrà che in parte concordo con la sua affermazione.
Marco1971 ha scritto:Ma i parlanti, sia settentrionali sia meridionali, non hanno alcuna difficoltà a pronunciare le parole uscenti in vocale; né mi pare che essi vogliano a tutti i costi modificare la lingua seguendo le loro abitudini fonetiche dialettali. Al contrario, penso che la maggioranza preferirebbe attenersi alle forme tradizionali.
Il punto è che non hanno neanche eccessive difficoltà a pronunciare parole terminanti in consonante, con l’eventuale aggiunta dello scevà. E questo perché queste terminazioni si ritrovano nei rispettivi dialetti.
Marco1971 ha scritto:Le mutate caratteristiche dei parlanti? Cos’è mutato nei parlanti? Cinque secoli fa non parlavano già i loro dialetti? E questi dialetti si sono modificati in maniera cosí radicale da trasformare profondamente le loro consuetudini fonatorie? Non mi sembra un bene che la lingua cambi solo per fantomatiche «mutate caratteristiche dei parlanti».
Ad occhio e croce direi che il “fantomatiche” è di troppo, ma non vorrei correre il rischio di essere tacciato di permalosità dalla mia amica Giulia Tonelli. :)
Quello che volevo dire è che il bacino d’utenza dell’italiano è cambiato. Lo spiego nel mio precedente intervento.

Marco1971 ha scritto:E la fisionomia umana, dai tempi di Dante a oggi, è cambiata? Eppure la vita è completamente diversa oggi. Oppure dovremmo avere solo un occhio e trasformarci in ciclopi per stare al passo coi tempi? :D La struttura individuante dell’italiano non ha alcun bisogno di mutazione per essere una lingua moderna in grado d’esprimere tutte le realtà del mondo attuale e di quello futuro.
Si sta addentrando in un campo minato. Le posso garantire che il paragone non regge. A meno di non usare un fattore di scala diverso. Con questo accorgimento possiamo dire che la fisionomia umana è sicuramente cambiata come è cambiata quella della lingua.
Marco1971 ha scritto:A quali caratteristiche marginali allude?
Una di queste è esplicitata nella prima delle due correzioni alle ipotesi del Castellani. Per le altre, oltre ad averle enumerate innumerevoli volte, basta leggersi una buona Storia della lingua italiana.
Marco1971 ha scritto:Attendo tuttora la sua risposta a questa domanda.
Anche di questo abbiamo parlato spesso. Delle caratteristiche dell’italiano nei secoli scorsi e del suo progressivo allontanamento dalla realtà legato a una conservazione non illuminata.
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Intervento di Marco1971 »

Se abbiamo detto tutto e le risposte definitive a tutte le domande sono in tutti i suoi interventi, ritengo, per parte mia, superfluo proseguire, a meno che qualcun altro porti sangue nuovo in questo filone.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di Bue »

Marco1971 ha scritto:ritengo, per parte mia, superfluo proseguire, a meno che qualcun altro porti sangue nuovo in questo filone.
Argh...! Sangue?!? :o :shock: :? :lol:
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