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"Soccombuto" (raro, ma esiste)
Inviato: sab, 16 dic 2006 23:53
di Fausto Raso
In una rubrica di lingua in linea un lettore pone la seguente domanda:
Le scrivo per sapere la corretta dicitura del participio passato del verbo soccombere
Ed ecco la risposta:
Non esiste. Ci troviamo di fronte a un verbo difettivo
Esiste, invece, anche se di uso raro:
soccombuto registrato dal De Mauro in linea. È lo stesso caso, insomma, di
splenduto
Inviato: dom, 17 dic 2006 0:00
di Marco1971
Colgo l’occasione per rimandare a un mio
intervento di qualche anno fa.
Inviato: dom, 30 mag 2010 11:56
di PersOnLine
Ma esistono dei verbi difettivi appartenenti alla prima coniugazione?
Altra piccola curiosità. Delle volte i dizionari, ad esempio il DOP, indicano i tempi mancanti in due modi: come
non usati, es.
soccombere, o come
mancanti, es.
procombere; mi viene da pensare che i verbi realmente difettivi siano soltanto questi ultimi, giusto? e che, nel silenzio, il tempo marcato come
non usato si coniughi regolarmente, no? Inoltre, qual è il dizionario più accurato nel dare questo tipo di indicazioni?
Inviato: dom, 30 mag 2010 14:13
di Marco1971
Della prima coniugazione ho trovato solo aggradare, fallare e ostare. Il dizionario piú preciso nelle indicazioni morfologiche (anche per le reggenze) è senza dubbio il Gabrielli bivolume, ora difficile da reperire sul mercato, che dà anche procombuto, con la dicitura «non usato ma usabile».
Inviato: dom, 30 mag 2010 19:51
di PersOnLine
Marco1971 ha scritto:Il dizionario piú preciso [...] è senza dubbio il Gabrielli bivolume [...].
Ma questo
Gabrielli sul sito della Hoepli può considerarsi ugualmente valido?
Inviato: dom, 30 mag 2010 21:10
di Marco1971
Questo è il rifacimento monovolume, in cui hanno tolto tutto quello che rende insostituibile la versione originale bivolume, cioè tutte le indicazioni normative. Contiene inoltre parecchi errori e inesattezze.
Inviato: dom, 30 mag 2010 21:58
di Fausto Raso
Marco1971 ha scritto:Questo è il rifacimento monovolume, in cui hanno tolto tutto quello che rende insostituibile la versione originale bivolume, cioè tutte le indicazioni normative. Contiene inoltre parecchi errori e inesattezze.
Infatti! E molto spesso i "rifacitori" contraddicono quello che sostiene il Maestro nel suo "Dizionario Linguistico Moderno".
Inviato: dom, 30 mag 2010 22:41
di Marco1971
Giusto. Preciso però che ci sono discrepanze anche tra il Dizionario Linguistico Moderno e il piú tardo Grande Dizionario Illustrato della Lingua Italiana in due volumi. Il Gabrielli piú maturo del bivolume s’era liberato dalle iniziali posizioni estremistiche.
Inviato: dom, 30 mag 2010 23:26
di Ferdinand Bardamu
Marco1971 ha scritto:Della prima coniugazione ho trovato solo aggradare, fallare e ostare. Il dizionario piú preciso nelle indicazioni morfologiche (anche per le reggenze) è senza dubbio il Gabrielli bivolume, ora difficile da reperire sul mercato, che dà anche procombuto, con la dicitura «non usato ma usabile».
Non sono riuscito a trovare né sul Treccani in linea né sul Devoto-Oli la difettività di
fallare. Potrebbe dirmi di quali modi e tempi mancherebbe?
Inviato: lun, 31 mag 2010 0:12
di Marco1971
Serianni lo mette tra i verbi difettivi perché nell’uso moderno s’adopera quasi esclusivamente nella «3a e 6a persona dell’indicativo presente: falla, fallano. Participio passato: fallato».
Tuttavia, la sua osservazione è pertinentissima, e sicuramente (in un uso non comune, però, penso) si potrebbe impiegare anche in altri tempi e persone ancor oggi. Solo che la sua letterarietà è limitante. Possiamo forse dire che non è difettivo di per sé, ma di fatto nell’uso.
Inviato: lun, 31 mag 2010 10:50
di Ferdinand Bardamu
Grazie.
Effettivamente
fallare per
sbagliare è molto letterario e sostenuto; forse l'uso vivo si limita a alcune frasi fatte e proverbi, come
chi fa falla et similia.
Tuttavia sarebbe bello rispolverarlo, come molti dei verbi letterari caduti in disuso.
Inviato: lun, 31 mag 2010 22:44
di Marco1971
Ferdinand Bardamu ha scritto:Tuttavia sarebbe bello rispolverarlo, come molti dei verbi letterari caduti in disuso.
Sono d’accordo con lei, e non occorrerebbe neanche ch’io lo dicessi.
Propongo a lei e a chiunque sia interessato questi due passi dello
Zibaldone di Leopardi (non ho la pazienza di cambiare tutti gli accenti, che lascio tali e quali). Il secondo è lunghino, ma ne vale la pena (come sempre, d’una straordinaria attualità).
La lingua italiana non si è mai tolto il potere di adoperar quelle parole, frasi, modi, che sebbene antichi e non usati, sieno però intesi da tutti senza difficoltà, e possano cadere nel discorso senza affettazione: i quali sono infiniti per chi conosce la lingua, ma bene a fondo; e questi sono pochissimi o nessuno. (21 novembre 1820)
Questo accade in ogni lingua; tutte si vanno rinnovando, cioè dismettendo delle vecchie, e adottando delle nuove voci e locuzioni. Se questa seconda parte viene a mancare, la lingua non solamente col tempo non crescerà nè acquisterà, come hanno sempre fatto tutte le lingue colte o non colte, e come si è sempre inculcato a tutte le lingue colte, ma per lo contrario perderà continuamente, e scemerà, e finalmente si ridurrà così piccola e povera e debole, che o non saprà più parlare nè bastare ai bisogni, o ricorrerà alle straniere; ed eccoti per un altro verso che quello stesso preteso preservativo contro la barbarie, cioè la intolleranza della giudiziosa novità, la condurrebbe alla barbarie a dirittura. E per parlare particolarmente della lingua italiana non vediamo noi negli effetti 1. quanto le lingue sieno soggette a perdere delle ricchezze loro: 2. come perdendo da una parte e non guadagnando dall’altra, la lingua non più per vezzo (che oramai il vezzo del francesismo è fuggito, anzi temutone da tutti gli scrittori italiani il biasimo e il ridicolo) ma per decisa povertà e necessità imbarbarisca? Prendiamoci il piacere di leggere a caso un foglio qualunque del Vocabolario e notiamo tutte quelle parole e frasi ec. che sono uscite fuor d’uso, e che non si potrebbero usare, o non senza difficoltà. Io credo che nè meno due terzi del vocabolario sieno più adoperabili effettivamente nè servibili in nessuna occasione, nè merce mai più realizzabile. Queste perdute, infinite altre che sebbene dimenticate e fuor d’uso, sono però ricchezza viva e realissima (come spesso necessarissima) perchè chiare a chiunque, e ricevute facilmente e naturalmente dal discorso e dagli orecchi di chi si voglia, ma tuttavia sono abbandonate e dismesse per ignoranza della lingua (la quale in chi maggiore in chi minore, in quasi tutti si trova, perchè il pieno possesso dell’immenso tesoro della lingua non appartiene oggi a nessuno neanche de’ più stimati per questo); finalmente la mancanza delle voci nuove adatte e necessarie alla novità delle cose, costringono gli scrittori d’oggidì a ricorrere alla barbarie, trovando la lingua loro del tutto insufficiente ai loro concetti, benchè sempre poverissimi, triti, ordinari, triviali, ristrettissimi, scarsissimi; e benchè spesso anzi per lo più vecchissimi e canuti.
Conchiudo che la giudiziosa novità, (e massime tutta quella che si può derivare dalle nostre stesse fonti) l’arruolare al nostro esercito nuove truppe, l’accrescere la nostra città di nuove cittadinanze, in luogo che pregiudichi per natura sua, e quando si faccia nei debiti modi, alla purità della lingua, è anzi l’unico mezzo sufficiente di difesa, di far testa, di resistere alla irruzione della barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente a tutte le lingue che mentre il mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi stessi parlatori camminano, e avanzano, o certo si muovono; non vogliono più, o sono impedite di più camminare nè progredire, nè muoversi in verun lato o modo: e vogliono, o son forzate a volere (inutilmente) quella stabilità, che non ebbero mai nè avranno gli uomini e le cose umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui seguito le costringe in ogni modo la natura. Conchiudo che impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità, non è preservarle, ma tutt’uno col guidarle per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie. (8-14 marzo 1821)