«L’italiano imbastardito»
Inviato: ven, 05 gen 2007 0:54
Propongo ai nostri lettori un articolo di Alfonso Leone, intitolato proprio L’italiano imbastardito e uscito nell’ultimo numero degli Studi Linguistici Italiani (2006), rivista fondata da Arrigo Castellani e oggi diretta da Luca Serianni. Solo qualche brano, che mi ha rassicurato...
A parte l’episodio personale, che cosa dicevo io?Da allora [= all’incirca mezzo secolo fa] ad oggi tuttavia l’esterofilia ha fatto passi da gigante, fuori di ogni senso di misura, e sarebbe l’ora non dico di tornare alle appendici, ma di radiare totalmente le voci straniere che sempre piú numerose imbastardiscono ogni giorno il nostro idioma, fatta ovviamente eccezione di quelle poche che, per i motivi che ho sopra indicati [= voci d’uso internazionale o che suscitano una particolare atmosfera], possono anche considerarsi parte integrante del lessico italiano e che andrebbero quindi incorporate (come del resto tante espressioni latine) nel patrimonio linguistico italiano. Quando insomma si perde il senso di misura, quando si procede a rotta di collo, bisogna pur ricorrere a rimedi estremi. E le istituzioni che vigilano sulla lingua e le scuole che la insegnano dovrebbero tentar di fare la loro parte.
La mia impressione è che oggi si proceda a rotta di collo. Ad ogni piè sospinto, in ciò che leggo e in ciò che si sente, le voci straniere la fanno da padrone. Molti le usano per dimostrar di conoscere (e poco importa se approssimativamente) l’inglese; le usano per snobismo, per darsi arie, per apparire, rispetto agli altri miseri mortali che non le conoscono, colti e raffinati. Fanno tuttavia esternazione, almeno a mio giudizio, di gusti pacchiani, volgari cioè o cafoneschi. Né manca chi le usa per pigrizia, per evitare di cercare il termine italiano corrispondente.
[...] C’è anche dell’altro, lo so. Siamo nell’era dei computer e delle tante diavolerie che spesso sento accompagnate dal termine digitale, e le nuove invenzioni ci pervengono attraverso la lingua degli inventori. Ma sforziamoci, per quanto è possibile, di venire italianizzando, man mano che ne facciamo uso, i termini barbari, magari piegando ad altri significati, attraverso l’estensione semantica, termini italiani in qualche modo affini.
Nel corso dei secoli l’italiano si è arricchito di voci straniere di varia provenienza (bianco, divano, bottiglia, bistecca, zucchero, limone, marmellata, uragano), ma rimanendo pur sempre italiano. Quelle voci straniere che abbiamo incorporato sono state dunque una conquista, un progresso. Oggi le voci straniere restano tali. Il lessico italiano si gonfia sempre di piú di voci straniere, ma non progredisce. E quando non c’è progresso, c’è impoverimento e stagnazione, indubbia anticamera di un sia pur lontano declino.
[...] Io sono del parere che dovremmo anzitutto sforzarci noi di abbandonare i gusti esterofili, di sentir cafonesca la tendenza all’uso dei termini stranieri. Una volta modificatosi il gusto, la tendenza dell’italiano ad assimilare le voci straniere o ad esprimerle attraverso l’estensione di voci italiane esistenti a poco a poco risorgerebbe e, fra tante, le forme piú accette prenderebbero a poco a poco piede, come appunto è avvenuto nei secoli passati.
Tuttavia mi affretto anche ad aggiungere che quanto ho or ora detto non esclude che se scuole e istituzioni che vigilano sulla lingua facessero la loro parte contro il suo imbastardimento, farebbero in qualche modo da freno e, a forza d’insistere, contribuirebbero anche all’educazione del gusto. Non risolverebbero – è pacifico – il problema, non sarebbero il toccasana; ma senza un benché minimo freno, senza un campanello d’allarme, si corre – a mio avviso – a briglie sciolte, e quindi verso il precipizio.
[...] L’altro giorno, chiedendo a una mia nipotina novenne, afflitta perché si era fratturata il ditino di un piede, come mai l’incidente era avvenuto, mi rispose: «Mentre giocavo, al Baby Plànet». Io, sia perché ormai alquanto duro di orecchio, sia perché del tutto disinformato di simili nuovi locali di divertimento, percepii solo un’emissione incomprensibile di suono. Mia nipote allora, cogliendo intelligentemente il mio imbarazzo, si affrettò a tradurre: Piccolo Pianeta. Meglio forse avrebbe detto Pianeta dei bambini. Comunque l’immediata traduzione fu per me come un raggio di luce che mi rischiarò il cervello. Mi domando tuttavia: «Che male ci sarebbe stato se, trasferendosi questi giochi fuori dalla terra d’origine, il loro nome si fosse contemporaneamente adattato alla lingua del paese che li accoglieva?».