Il confronto. Sul futuro della lingua italiana
Inviato: ven, 05 gen 2007 18:31
Qualche tempo fa Marco mi aveva chiesto se potevo procurarmi il testo di due interventi di Arrigo Castellani e Tullio De Mauro apparsi in Asterischi Laterza nel 1992. Li riporto sotto. Il primo intervento di Castellani dice quanto già sappiamo da Morbus Anglicus e altri suoi scritti. Seguono l'intervento di Tullio De Mauro e la replica finale di Castellani che, sarà mia impressione, mi sembra mitigata per effetto delle misurate parole di De Mauro.
Delle quattro grandi lingue neolatine (francese, italiano, portoghese e spagnolo), la nostra è quella che resiste meno bene alla pressione esercitata dall’inglese. Per quale ragione? Principalmente, credo, perché in Italia non si ha coscienza (o non si ha sufficientemente coscienza) della necessità di preservare le caratteristiche essenziali della lingua, ossia, prima di tutto, le sue strutture fonetiche.
Le parole italiane terminano in vocale, quelle inglesi per lo più in consonante o gruppo consonantico.
Un anglicismo adattato ha gli stessi diritti d’esser considerato italiano d’una voce proveniente dal latino volgare (la frase una buona bistecca contiene tre parole italiane, sebbene due siano d’origine latina e l’altra, bistecca, sia l’adattamento nostrale di beef-steak).
Gli anglicismi non adattati, invece, rimangono corpi estranei. Un loro continuo e massiccio aumento non può che condurre alla creolizzazione della lingua. E purtroppo oggi gli anglicismi non vengono quasi mai adattati.
In Francia la coscienza del problema è maggiore, per quanto le strutture fonetiche del francese siano molto meno minacciate delle nostre (il francese ha consonanti e gruppi consonantici finali: un elemento disgregatore, anche per il francese, è tuttavia rappresentato, in molti casi, dalla non corrispondenza della pronuncia alla grafia). E in Francia non mancano interventi statali.
Si tratta d’interventi (come il rifiuto d’accettare terminologie anglo-americane, per esempio quella dell’informatica: il faceto software, con cui tanti italiani si risciacquano la bocca, anche se con qualche difficoltà, è lì sostituito dal più razionale logiciel) che non dipendono dal partito al governo, ossia rispondono a una convinzione, se non generale, almeno largamente diffusa della loro opportunità.
Ma le lingue più vitali nella loro reazione all’inglese sono le lingue iberiche. Lo spagnolo ha detto fin dall’inizio deporte invece di sport (e il portoghese deporto), e dice estándar per standard e computador per computer.
La Real Academia española ha un prestigio enorme nel mondo ispanico: le sue decisioni sono accettate da tutti gli ambienti responsabili della cultura e influiscono sull’uso di centinaia di milioni di persone.
Torniamo a noi: ho scritto altrove, e lo ripeto qui, che «un italiano in cui le parole terminassero per -t, -ft, -sp, -ps, nk, ecc., non sarebbe più italiano. Privo d’una chiara e salda individualità fonetica, non sarebbe nemmeno più una lingua nel pieno senso della parola». Quali sono i rimedi? Proporrei, per prima cosa, che tutti i direttori di periodici e di servizi televisivi fossero resi consapevoli del fatto che tanti anglicismi sono perfettamente inutili (meeting per incontro, summit per vertice, ecc.), e che non fa fino adoperarli, e che anzi adoperandoli ci si squalifica.
Proporrei, anche, che gli anglicismi veramente necessari venissero se possibile adattati (come s’adattano senza pensarci due volte i dialettalismi settentrionali uscenti in consonante). Quindi, per esempio, non performance ma performanza, non sponsor ma sponsóre, e non lobby ma lobbia (che non c’è pericolo di confondere col pressoché scomparso cappello a lobbia).
Proporrei, inoltre, che gli anglicismi necessari e non adattabili fossero sostituiti con neoformazioni italiane. Io ne ho indicate varie: abbuio per blackout, fubbia (fumo + nebbia) per smog (smoke + fog), guardabimbi per babysitter, intrèdima (composto con èdima ‘settimana’, che è dell’italiano antico e vive ancora qua e là in Toscana) per week-end, velopàttino per windsurf, vendistica per marketing, e perfino, con procedimento morfologico alquanto temerario, vendissimo per bestseller (mi sembra che possano essere anche utilizzate parole uscite dall’uso, come ubìno ‘tipo di cavallo’ per hobby, o d’uso ormai raro, come nocchiero per il sempre più in voga skipper).
Ma io sono una persona sola, una persona che può sbagliare, e anzi sbaglia spesso e volentieri, cercando di mettere in circolazione neologismi che nessuno vuole.
La mia ultima proposta sarebbe che una grande casa editrice, eventualmente la casa editrice Laterza, creasse un comitato di tre o quattro persone al quale fosse affidato il compito di suggerire termini italiani, esistenti o non esistenti, per sostituire quelli inglesi di cui si ravvisi la desiderabilità.
[Arrigo Castellani]
La vendistica dell’editore Laterza va sempre più migliorando e parecchi tra noi autori sperano che i loro libri diventino dei vendissimi. Così potremo finalmente dedicarci ai nostri ubini. Io, per me, non avendo più problemi di guardabimbi, vorrei procacciarmi un velopattino e darmi arie di nocchiero trascorrendo cosi, fubbia permettendo, ogni intrèdima.
Può darsi che tra qualche anno parleremo cosi. Può darsi cioè che le proposte dell’amico Castellani siano accolte e diventino parte dello standard (o standardo?) usuale. Non si dica che sono ridicole. Cent’anni fa, i puristi ridevano o dicevano di ridere dinanzi al verbo deragliare: oggi, non fa più effetto a nessuno. Dunque, può anche darsi che ci sia qualche intrèdima nel nostro futuro.
Dinanzi a questa prospettiva, non peggiore di altre, ci si possono porre però due domande: se diremo intrèdima avremo davvero difeso la lingua italiana? E l’intervento locale d’un singolo può pretendere di modificare l’uso d’una lingua? Nel suo Corso di linguistica generale Ferdinand de Saussure spiegò bene due cose.
1. Una lingua è un meccanismo così complicato, un insieme cosi vasto e complesso di parole e regole, che il singolo non ha possibilità di cambiarne un pezzo isolato.
2. Inoltre Saussure spiegò anche un’altra cosa: una lingua non è solo un repertorio di parole, forme, regole, come può essere una segnaletica o un linguaggio algebrico. È anche (nel senso più forte: include anche nella sua grammatica) una «massa parlante» ed è il «temps» storico in cui si colloca. Credere di potere intervenire su un punto particolare con pretese di successo non è nemmeno arrogante; è inutile. Secondo il detto dell’antico rammentato da Svelonio, «Tu Caesar civitatem dare potes hominibus, non verba». Anche Cesare, se vuole farsi capire, deve fare i conti con le complesse consuetudini espressive reali della gente. Il mutamento delle lingue, continuo, inevitabile, e, per dirla con gli studiosi di istorica, un «accadimento», risultato dell’imprevedibile equilibrarsi degli innumeri effettivi comportamenti linguistici dei singoli utenti della lingua, ciascuno dei quali si sforza di utilizzare i materiali linguistici messigli a disposizione dal suo tempo e dal suo popolo, obbedendo alle esigenze (che sono, si noterà, antinomiche) del minimizzare gli sforzi e massimizzare le distinzioni tra le cose da dire, dell’aderire all’uso linguistico altrui e, insieme, del differenziarsene. Allo stato attuale degli studi, anche i più sofisticati, queste carambole linguistiche si rivelano incalcolabili, non razionalizzabili.
Accade così che lingue fino a un’epoca parche nell’avere parole con terminazione vocalica, in un momento successivo si riempiano di parole provenienti da altre lingue o coniate ex novo con terminazione vocalica: sta accadendo cosi al British e all’American English sotto la pressione di sigle e parole artefatte di nuovo conio e, soprattutto, per la diffusa accettazione di vocaboli giapponesi, spagnoli e italiani. (L’italiano è la lingua di massima incidenza tra i neologismi dell’americano, e giovani americani venendo in Italia si chiedono come mai qui sia tanto diffusa la loro parola pizza.) E accade all’inverso che lingue privilegianti parole con terminazione vocalica possano, si votet usus, accogliere parole con terminazione consonantica) come sta accadendo al giapponese, che ha ormai accolto nessi fino a ieri ignoti (non solo per la finale consonantica!) come fascist, film, fan, ecc.
Lo stesso sta avvenendo nell’italiano del Novecento, che, del resto, come Castellani sa assai bene, aveva già modificato le sue regole di incontro di consonanti entro la parola; nessuno più ha difficoltà a dire Amleto o ectipico.
Ma, allora, ognuno parla come gli pare e piace? Attenzione: stiamo dicendo che non il singolo, ma la «massa parlante» parla come gli pare e piace, col solo limite intrinseco del rispettare l’opportunità di farsi capire. Il singolo può anche divergere dalle forme correnti con varie finalità ma questo comportamento, se non è più che accorto, ha in sé la sua pena: l’incomprensione altrui e, spesso, il ridicolo. Padrone ciascuno di procacciarsi l’una e l’altro, purché, s’intende, non infastidendo i dissenzienti.
La buona circolazione linguistica entro una comunità non si garantisce dunque intervenendo sulle parole e regole, ma, caso mai, migliorando le conoscenze (anche linguistiche) e le possibilità di commercio intellettuale e civile dei parlanti.
[Tullio De Mauro]
Una breve aggiunta dopo aver letto il testo del collega De Mauro. Il suo spiritoso inizio porta, in fondo, acqua al mio mulino: quelle frasi dimostrano come i miei adattamenti «s’intessano bene in un discorso italiano, anche se presentati l’uno dopo l’altro» (dicevo cosi nel 1987, a proposito d’un analogo esercizio a cui s’era dedicato il giornalista Luciano Satta sulla «Nazione» di Firenze). Circa il problema dell’intervento del singolo in fatto di lingua, consento e al tempo stesso fortemente dissento dal De Mauro. Il divenire della lingua è frutto d’innumerevoli microinterventi. Ma ci sono anche dei macrointerventi. Questo vale in particolare per l’italiano. Il De Mauro non parlerebbe come parla se nel 1525 Pietro Bembo non avesse dettato le sue norme nelle Prose della volgar lingua, se tali norme non fossero state seguite, pur con qualche aggiustamento, da Leonardo Salviati e dagli Accademici della Crusca, e se il Manzoni non avesse corretto i Promessi sposi e scritto la Relazione del 1868. Lungi da me il voler promuovere un macrointervento. Ma un intervento «medio» forse sì, se si mettessero insieme alcuni linguisti non percorsi da brividi al solo sentir parlare di mezzi di difesa, e cercassero di migliorare almeno le condizioni generali di quel malato di morbus anglicus che sta diventando o è diventato l’italiano.
[Arrigo Castellani]