Sul bilinguismo

Spazio di discussione su questioni che non rientrano nelle altre categorie, o che ne coinvolgono piú d’una

Moderatore: Cruscanti

Avatara utente
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Intervento di Freelancer »

Bue ha scritto:Il fatto e` che le persone genuinamente bilingui (quelle che hanno i genitori di madrelingua diversa) esistono. Mi sembra abbastanza vano discuterne accademicamente come se non si avesse accesso almeno a parte dell'informazione. L'abbiamo, basta prendere queste persone e chiedere loro direttamente come stanno le cose! Non potremo mai entrare nella testa altrui, ma almeno chiedere se hanno una lingua preferenziale per rappresentarsi il mondo si`!
Alcune pagine interessanti sull'argomento, basate sull'esperienza personale, sono state scritte da George Steiner (trilingue) in After Babel e possono essere lette tramite Amazon,
qui
(cominciare a leggere da pagina 120)
amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Un punto interessante della discussione sarebbe stabilire che cosa accada nei casi di bilinguismo (o poliglottismo) all'interno di macroaree linguistiche in cui sono presenti idiomi strutturalmente affini sul piano lessicale e morfosintattico (i poliglotti di madrelingua neolatina che conoscono più d'una lingua neolatina oltre alla loro parlata originaria, ad esempio). Potrebbe darci dei lumi Brazilian Dude (che non conosce solo lingue neolatine, peraltro). La mia opinione in merito è che sia presente in maniera molto spiccata il fenomeno a cui allude una delle fonti citate dal buon Infarinato, circa la neuropsicologia del multilinguismo: evidentemente, tanto per fare un esempio, il parlante italiano (con retroterra di conoscenza dialettale) che apprende il francese, lo spagnolo, il portoghese etc., si comporta, a livello neuropsichico, come se si esprimesse utilizzando allomorfi e allofoni come super-varianti diatopiche della stessa lingua.

Credo che una qualche luce sulla questione possano gettarla gli esperimenti delle lingue artificiali a base prevalentemente neolatina create a valle della nascita dell'esperanto e dei suoi idoj: mi riferisco in particolare all'Interlingua dell'IALA, alla Lingua Romana, ma ancor più al doppio sistema di flessione pianificato per il Sermo, e il Comunleng.

Chiunque si sia documentato in merito, o abbia almeno frequentato i luoghi di discussione relativi alla corrente naturalistica delle lingue ausiliarie, avrà incontrato affermazioni del tipo: "non c'è bisogno di inventare una lingua artificiale: la lingua comune è già latente nelle parole e nelle strutture patrimonio comune delle parlate europee occidentali" (presupposto della fondazione IALA dell'Union Mundial pro Interlingua). Più interessanti gli esperimenti del Sermo e del Comunleng. Il Sermo prevede ad esempio un doppio canale di flessione verbale: uno neolatino, con desinenze personali, e uno "all'inglese", senza desinenze personali. La motivazione linguistica di tale duplicità di dialetti artificiali è esplicitata da parte dei pianificatori del Comunlèng: in Europa essi identificano un fondo linguistico comune greco-latino con apporti germanici, unitamente a un sistema di strutture morfosintattiche comuni, all'interno di un diasistema flessionale che per i verbi prevede un sistema neolatino mediterraneo sintetico con desinenze personali riconoscibili, un sistema mitteleuropeo, francese, tedesco e olandese, con desinenze personali via via più obliterate foneticamente, e invine un sistema anglo-nordico, con desinenze personali totalmente o quasi obliterate. Nel campionario delle forme del Comunleng i due estremi sono contemplati come possibili e grammaticali.

Al di là delle idee che si possono avere sulla validità dell'impresa di pianificare lingue ausiliarie, qualunque sia il principio informante tale operazione, un dato comune unisce tutti i glossoteti dell'Interlingua (che propriamente è frutto di un decennale lavoro di squadra), del Sermo, della Lingua Romana e del Comunleng: sono individui multilingui, con conoscenza approfondita e cosciente di molte grammatiche di lingue europee affini, neolatine e non, le quali sono convissute fianco a fianco dall'epoca della disgregazione del diasistema protoromanzo in poi (una caratteristica, questa, largamente condivisa anche dai padri fondatori del concetto di lingua ausiliaria, Zamenhof in testa).

Le lingue ausiliarie più o meno naturalistiche che essi tentano di creare, fanno pensare al fatto che questi parlanti estremamente peculiari posseggano una sorta di supercompetenza linguistica di fondo "comune", trans-idiolettica (mi si conceda il neoconio, ancorché strano), e col tempo finiscano effettivamente per trattare il sistema di regole della loro lingua e delle lingue affini che conoscono, come varianti operative equipollenti geograficamente determinate dello stesso diasistema (una sorta di super-registri laboviani varianti in funzione dello spostamento in diatopia, anziché sociologicamente determinati). Di qui l'esigenza, variamente espressa, da parte di questi parlanti, di formalizzare almeno in linea di principio (attraverso la lingua ausiliaria), una sorta di denominatore linguistico-strutturale comune di riferimento (o costituire le convenzioni di base di una sorta di Gedankenesprachbund, una sorta di curiosa lega linguistica mentale). Per parlanti di questa specie, fra l'altro (per venire ad argomenti che ci toccano), il forestierismo diffuso e l'eventuale convivenza di sistemi fonologici eterogenei si pongono sovente come la dimensione epifenomenica di un'alternanza dei registri non dovuta a ostentazione, né meramente idiolettica, cioè non semplicemente chiusa all'interno delle pur ampie possibilità di realizzazione rese possibili nell'asse paradigmatico del loro sistema linguistico d'origine (mi si passi per buona l'espressione, usata per pura comodità espositiva).
______________________

P. s. non del tutto attinente- Una situazione simile di unificazione risultante del multilinguismo individuale e collettivo potrebbe essere quella delle lingue sinotibetane in relazione al vernacolo comune, all'interno della Repubblica Popolare Cinese, e in minor misura vi si potrebbe assimilare quella dell'Hindi rispetto ai dialetti indiani moderni di origine indoeuropea. Ovviamente, la differenza sta nel fatto che in Cina e in India la lingua franca comune è sorta naturalmente ed è istituzionalizzata, mentre in Europa non è accaduto (si tenga però presente che le lingue indoeuropee moderne in India e le lingue sinotibetane parlate nella sola Cina propriamente detta si differenziano fra loro non meno delle lingue neolatine in Europa).
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Qualche piccola osservazione.
Prima di tutto il bilinguismo non è un fenomeno così raro, anzi. Ognuno di noi che abbia una competenza dialettale attiva è già un bilingue.
Forse non sono stato sufficientemente chiaro ma, secondo me, l’aspetto più interessante di quanto stiamo dicendo, è l’acquisizione di due lingue, tipologicamente molto distanti, nel periodo di plasticità mentale nel quale l’individuo crea la propria rappresentazione del mondo.
Faccio un esempio.
Ho un tavolo con sopra un bicchiere. Questa è una rappresentazione a oggetti. Per certe lingue, a parte che i due oggetti possono essere visti come un tutt’uno, è proprio la priorità dell’oggetto rispetto, che ne so, all’azione, ad essere messa in dubbio.
In questo caso è praticamente impossibile che le due rappresentazioni vengano acquisite contemporaneamente come strumenti per rappresentare la realtà. Si avrebbe una dissociazione mentale.
La seconda lingua può essere acquisita solo in un secondo tempo e rimane, comunque, a un livello più superficiale della prima. Vi sarà cioè una traduzione della rappresentazione della realtà dalla prima alla seconda lingua, ma non vi può essere una compresenza allo stesso livello.
Ovviamente, questa situazione si rifletterà in un diverso substrato fisiologico per le due lingue.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Qualche lieve obbiezione, rispetto a ciò che scrive Bubu7, quando dice:
In questo caso è praticamente impossibile che le due rappresentazioni vengano acquisite contemporaneamente come strumenti per rappresentare la realtà. Si avrebbe una dissociazione mentale.

Assumiamo, in primo luogo, che sia evidente che tutti gli strumenti di elaborazione della realtà siano posti, cognitivamente parlando, su un piano paritario: quelli derivanti dalle elementari strutture classificatorie e pertinentizzatrici delle lingue tanto quanto le più articolate strutture (Gestalten) con cui l'uomo organizza le percezioni e le esperienze, non meno delle più complesse strutture classificatorie, pertinentizzatrici e interpretative delle Weltanschauungen. Qualcuno potrebbe dirmi che tale assunzione di fondo, una sorta di principio euristico à la Popper, sarebbe erronea, per le differenze qualitative fra vari livelli di complessità. Questo qualcuno che ponesse tale contro-argomento, sarebbe in errore egli stesso: infatti esiste una contiguità strutturale e di sviluppo fra le categorie linguistiche, gli schemi d'azione e le categorie cognitive degli individui e la loro formulazione culturale articolata e conscia: fra Piaget, Saussure e Chomskj pare infatti si sia stabilito che le strutture cognitive alla base del linguaggio verbale, delle filosofie, delle culture e delle forme di organizzazione del sensorio evolvano in maniera del tutto similare e si comportino allo stesso modo. Dunque, ciò posto, assumeremo per forza di cose che l'organizzazione cognitiva alla base del linguaggio sia, di fatto, una Weltanschauung (una visione del mondo operante) come un'altra.

Ora, si incontrano facilmente persone in cui convivono modi di essere e concezioni differenti. Modi di essere, concezioni e strutture comunicative e verbali sono in effetti, per riciclare lo strumentalismo deweyano, mezzi di interpretazione del mondo. Anche a radicalizzare il determinismo linguistico dell'ipotesi Sapir-Whorf, in linea teorica e pratica un bilinguismo estremo (tipico ad esempio di parlanti che si servono al contempo di una lingua ergativa e di una lingua accusativa), non mi pare che porti a una sensazione di dissociazione mentale, né sembra che dissociati siano coloro che lo sperimentano sulla loro pelle. Altrimenti dovremmo pensare che in Spagna, nel Paìs Basco, ci sia un'incidenza media di disturbi psichiatrici da spersonalizzazione molto più forte che altrove, dato che molti baschi parlano la loro lingua ergativa e il castigliano, accusativo, senza alcun problema. Lo stesso dovrebbe accadere nel Caucaso (anzi, lì dovrebbero essere tutti folli, visto che il Caucaso registra un addensamento di famiglie linguistiche spaventosamente frastagliato). Non mi pare che i georgiani siano stati (Stalin a parte) mediamente più folli degli altri popoli dell'ex-URSS (o che le turbolenze locali debbano attribuirsi a questioni di multilinguismo). In definitiva, penso sia una questione di abitudine. Culture diglossiche o multilingui sono sempre esistite, e in definitiva cambiare strumento di espressione è sempre stata solo una questione di registro e di opportunità comunicativa.

Più che dissociazione mentale, si prova inizialmente lo straniamento interiore derivante da una maggior ricchezza di strumenti e dalla necessità di impersonificare ruoli linguistici differenti.

Ricordiamoci che ognuno di noi può guidare un'auto, reggere un timone, stringere delle briglie, volare su un deltaplano, posare le mani su un manubrio e azionare i comandi di pilotaggio di un aereo: situazioni motorie che richiedono dinamiche di coordinazione molto diverse, per tipologie di muscoli e aree di cervello da attivare; azioni che in un determinato momento entrano a far parte degli automatismi dello psichismo (e guai se non fosse così, altrimenti i piloti d'aereo, che chiaramente imparano a volare dopo aver preso la patente, finirebbero tutti in un sozzo trescone d'ali schiantate). Con le diverse lingue, si tratta solo di attivare l'area di Broca...
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Caro amicus, la ringrazio per le sue obiezioni.
Penso che i nostri percorsi formativi (io nasco neurofisiologo) ci fanno affrontare il problema sotto prospettive leggermente diverse (il che mi sembra un bene più che un male).

Io non ho detto che non si possa diventare (più o meno facilmente) perfettamente bilingui, anche se le due lingue sono tipologicamente molto diverse.
Ho detto che l’acquisizione della (prima) visione del mondo nel bambino (che avviene in un intervallo più ristretto all’interno del periodo di massima plasticità delle strutture linguistiche cerebrali) non può avvenire in due lingue tipologicamente molto diverse.
Già due lingue simili provocherebbero disorientamento perché il bambino dovrebbe, ad esempio, associare a uno stesso oggetto o concetto, termini diversi.
L’apprendimento di due lingue tipologicamente molto diverse, in questo periodo evolutivo, non può che provocare dissociazioni mentali.
Diverso è l’apprendimento della seconda lingua in un periodo successivo. Vi sarà una traduzione (più o meno cosciente) dalla prima alla seconda lingua.

Analogamente, già per un adulto, imparare contemporaneamente due cose della stessa difficoltà, come pilotare un aereo e un’astronave, potrebbe essere problematico, ma lo sarebbe ancora di più, per un bambino, imparare contemporaneamente a camminare e a andare in bicicletta.

Venendo ai suoi preliminari, devo confessare che le sue affermazioni non mi sono molto chiare.
Non so se posso spingermi a fare il seguente collegamento e, anche se ciò mi fosse consentito, che cosa vorrebbe dire:
amicus_eius ha scritto:Assumiamo, in primo luogo, che sia evidente che tutti gli strumenti di elaborazione della realtà siano posti, cognitivamente parlando, su un piano paritario [. Questo possiamo assumerlo perché] esiste una contiguità strutturale e di sviluppo fra le categorie linguistiche, gli schemi d'azione e le categorie cognitive degli individui e la loro formulazione culturale articolata e conscia…
Non capisco bene cosa intenda per “contiguità strutturale” e poi quando dice:
… pare infatti si sia stabilito che le strutture cognitive alla base del linguaggio verbale, delle filosofie, delle culture e delle forme di organizzazione del sensorio evolvano in maniera del tutto similare e si comportino allo stesso modo…
Che intende con “evolv[o]no in maniera del tutto similare e si comport[a]no allo stesso modo”?

Sull’assunzione finale:
Dunque, ciò posto, assumeremo per forza di cose che l'organizzazione cognitiva alla base del linguaggio sia, di fatto, una Weltanschauung (una visione del mondo operante) come un'altra.
concordo (anche se non sono sicuro che vogliamo intendere la stessa cosa).
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Mi rendo conto di essere stato un po' contorto.

In effetti, ciò che intendevo dire in prima battuta, come premessa logica del discorso, era che due visioni del mondo possono convivere in parallelo in una stessa persona, come possono farlo due strutture linguistiche assai eterogenee sul piano tipologico, senza che ciò implichi scissione dell'io o dissociazione mentale.

Ho instaurato un parallelo funzionale fra: 1) lo sviluppo delle organizzazioni percettive nell'età evolutiva, che segue un processo di crisi e riassestamento di paradigmi; 2) lo sviluppo delle teorie scientifiche e filosofiche, che segue un processo di crisi e riassestamento di paradigmi, 3) lo sviluppo delle strutture di classificazione del reale alla base delle grammatiche, che, nel corso dell'evoluzione storica di una comunità di parlanti, ma anche nel corso dell'evoluzione del singolo parlante, procede sempre attraverso lo stesso urto cognitivo di riassestamento e adeguamento a/di paradigmi. A questo parallelo funzionale se ne associava un altro: le visioni religiose e filosofiche, le teorie scientifiche e le grammatiche costruiscono, a vari livelli, una trama cognitiva del reale. Dunque, sono in tutto e per tutto equivalenti. Soprattutto, ogni fenomeno culturale può ricondursi a un atto retico, in tutto o in parte, e un atto retico comporta, in quanto perlocuzione, un'assunzione di ruoli, dunque l'ingresso in un certo habitus psicologico. Il convivere di diversi ruoli, diverse concezioni, applicate in diversi ambiti dalla stessa persona, o anche applicate nello stesso contesto alla stessa situazione su livelli interpretativi, cognitivi e retici differenti, non implica dissociazione, dicevo. Per conseguenza, lo stesso deve accadere con due lingue diverse.

Relativamente all'acquisizione di lingue tipologicamente assai differenti in età giovanissima, le sue affermazioni mi sorprendono alquanto. In fondo, dato che devono apprendere il linguaggio, i bambini non sono in realtà dotati di amplissima versatilità, sul piano comunicativo? In fin dei conti, inventano addirittura lingue segrete, non solo quelle costruite a partire dalla lingua madre con l'inserzione di suffissi inventati, ma veri e propri gerghi e codici a sé. Mi sembra alquanto azzardato, per un cervello neurofisiologicamente così plastico (ma lei mi correggerà se sbaglio) come quello dei bambini, parlare di bilinguismo che conduce a dissociazioni mentali. Vorrei che si ponesse l'accento su un dato terminologico: "dissociazione mentale", ovvero scissione dell'io, non è, in ambito tecnico, specie nelle scienze umane, una locuzione da applicare alla leggera. Essere mentalmente dissociati implica un grave disordine cognitivo, associato a una totale perdita del senso interiore di unità dell'io e alla disintegrazione della personalità. Si tenga presente, come esempio concreto, che molti dei bambini georgiani apprendevano, nella pratica quotidiana, ai tempi dell'URSS, due lingue: una, il georgiano, una lingua non indoeuropea ad ergatività parziale, con grappoli consonantici al limite del pronunciabile e solo quattro vocali, l'altra, il russo, una lingua slava, indoeuropea, nettamente accusativa, con distinzione aspettuale del verbo, e un cospicuo novero di vocali fra arrotondate, preiotizzate e quant'altro. Non credo che le instabilità politiche della Georgia (e dell'area caucasica in genere) siano però da ricondursi a una diffusa sofferenza schizofrenica ingenerata da bilinguismo precoce, per quanto i problemi etnici c'entrino, per altri rispetti! In soldoni, la psiche umana sarà fragile quanto si vuole, e quella del bambino anche di più, ma è mai possibile che si scinda o dissoci solo perché con alcune persone deve usare una proposizione articolata, mentre con altre una desinenza? :wink:

Aggiungo che esistono di fatto forme di progettualità educative orientate a favorire l'apprendimento di una seconda lingua (anche molto diversa dalla lingua madre: il giapponese rispetto all'inglese, per esempio) in giovanissima età (parlo di bambini nella prima età scolare). Non credo che siano progettualità educative orientate a favorire la dissociazione mentale, visto che si basano sull'idea di assecondare e incanalare la spontaneità dei bambini e la loro propensione al gioco (verbale, soprattutto).
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

amicus_eius ha scritto: In effetti, ciò che intendevo dire in prima battuta, come premessa logica del discorso, era che due visioni del mondo possono convivere in parallelo in una stessa persona, come possono farlo due strutture linguistiche assai eterogenee sul piano tipologico, senza che ciò implichi scissione dell'io o dissociazione mentale.
Non sono convinto della bontà di questo parallelismo.
Non c’è dubbio che io possa logicamente concepire due o più visioni del mondo contraddittorie, ma le persone non dissociate hanno una visione del mondo.
Se credo che un dio governi il mondo, non posso credere contemporaneamente che tutto sia governato solo dalle leggi fisiche.
Condivido invece quanto afferma sulla convivenza, in una stessa persona, di strutture linguistiche eterogenee.
amicus_eius ha scritto:Aggiungo che esistono di fatto forme di progettualità educative orientate a favorire l'apprendimento di una seconda lingua (anche molto diversa dalla lingua madre: il giapponese rispetto all'inglese, per esempio) in giovanissima età (parlo di bambini nella prima età scolare).
Un punto della nostra divergenza d’idee penso dipenda da un fraintendimento a cui mi fa pensare la parte che ho evidenziato.
Non metto in dubbio che i bambini a quell’età siano nella condizione ideale (la sola?) per apprendere perfettamente due (o più) lingue.
Ma il bambino curdo e quello che impara il giapponese conoscono già a quell’età una prima lingua materna nella quale è rappresentato il loro mondo.
La dissociazione di cui parlo è quella di un bambino, che non sa ancora parlare, al quale vengono insegnate contemporaneamente due lingue tipologicamente molto diverse.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Lei è, mi perdoni la brutale franchezza, semplicemente e obbiettivamente in errore.

Prima di tutto, lei ignora deliberatamente che la storia del pensiero filosofico è piena di individui non dissociati che hanno posto un dio a capo del sistema del mondo, tenendo conto che il mondo stesso è organizzato da leggi fisiche. Anzi, lei sostanzialmente sembra non tenere conto del fatto che l'idea di legge fisica e di tecnologia non è possibile, in origine (vedi il pensiero di Max Weber), senza l'idea di un dio trascendente. Il dio trascendente infatti permette di sdivinizzare la natura e dunque di concepirla come controllabile dalla tecnologia (il concetto di Entgotterung di cui parla il positivismo logico). Precisamente, l'idea che il mondo sia governato da leggi esprimibili matematicamente, è figlia del platonismo tardo associato al cristianesimo (Galileo diceva che la Natura è il libro che Dio ha scritto in lingua matematica, Newton diceva che lo spazio e il tempo assoluti sono il corpo di Dio: e non facevano queste affermazioni per paura; erano organicamente radicate nelle scaturigini del loro pensiero). Ma si tenga conto anche del fatto che la scienza è nata, sia pur con posizioni conflittuali, in una civiltà in cui questa Entgotterung o sdivinizzazione non era avvenuta. I filosofi presocratici, Socrate, Platone, Aristotele, gli Stoici, possono considerarsi i fondatori dell'approccio critico-scientifico (e lasciamo stare le stupidaggini che hanno fatto con Aristotele in determinate epoche della storia: quelle con l'aristotelismo vero non c'entrano) eppure condividevano il politeismo immanentistico proprio della fede degli antichi. Ancora più indietro nel tempo, è noto che le civiltà arcaiche si servirono del linguaggio mitico e magico per memorizzare vere e proprie cognizioni scientifiche: è noto che i miti antichi (come hanno stabilito Hertha von Dechend e Giorgio de Santillana) erano, nel loro nucleo essenziale, un primitivo linguaggio astronomico associato a una concezione animistico-magica del mondo: una sorta di scienza in embrione. Questo spiega anche come mai le civiltà con il più ricco retroterra di miti sono poi evolute in civiltà avanzatissime (in ordine sparso, vedi i Sumeri, i Cinesi, i Greci, gli Indiani).

Se noi ammettessimo quello che lei dice
Non c’è dubbio che io possa logicamente concepire due o più visioni del mondo contraddittorie, ma le persone non dissociate hanno una visione del mondo.
Se credo che un dio governi il mondo, non posso credere contemporaneamente che tutto sia governato solo dalle leggi fisiche.
allora dovremmo pensare che la pazzia e la dissociazione mentale muovono il mondo, e novelli Erasmi da Rotterdam, farne il dovuto elogio, disprezzando allegramente (e giustamente) coloro i quali, quadrati nella presunta unità dell'io e tetragoni in una visione unidirezionale, si contentano di un sapere dato e sistemato.

Quanto all'altra affermazione da lei sostenuta
La dissociazione di cui parlo è quella di un bambino, che non sa ancora parlare, al quale vengono insegnate contemporaneamente due lingue tipologicamente molto diverse.
mi pare di aver già fatto presente il caso di Baschi e popoli Caucasici, a cui potremmo aggiungere i parlanti delle lingue dravidiche dell'India meridionale, che si trovano da piccoli, da quasi neonati, in un marasma di lingue fra il loro dialetto natale, l'hindi e l'inglese, che sono lingue strutturalmente diverse.

Quindi, quale che sia l'effettiva neurofisiologia del cervello multilingue (il funzionamento del cervello anche monolingue è ben lungi dall'essere compreso nella sua interezza), penso che un'ampia messe di dati osservativi contraddica quanto lei sostiene.

Ritornando al discorso della convivenza scienza-fede in una stessa persona (per quanto sia discutibile la fede) lei sembra non tener conto del fatto che si tratta di due linguaggi e di due universi segnici paralleli, che portano a interpretazioni parallele del mondo, senza che i due universi segnici si tocchino. La fede è questione di interpretare come ierofania (manifestazione del sacro) una cratofania (manifestazione del potere dell'essere) -Eliade. La scienza è orientata a rendere controllabile e condivisibile il discorso su un fenomeno. La fede nasce dalla dimensione esistenziale e individuale dell'incontro con l'apertura e l'imprevedibilità dell'esperienza del singolo. La scienza nasce dall'esigenza di rendere ragione dell'ordine delle cose in modo intersoggettivo. La fede (o in generale una metafisica=teoria non scientifica non controllabile) è una questione di orientamento esistenziale; la scienza è il linguaggio della controllabilità, della condivisibilità e dell'evidenziamento dell'errore. I due linguaggi possono influenzarsi, visioni fideistiche possono osteggiare la scienza: ma quando ciò accade l'inconciliabilità non è nella scienza e nella fede, ma nell'interesse di un potere materiale che trova di volta in volta più conveniente l'una o l'altra (e trasforma le fedi in fanatismi e la scienza in scientismo).
Ultima modifica di amicus_eius in data gio, 04 gen 2007 0:19, modificato 1 volta in totale.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

amicus_eius ha scritto:Lei è, mi perdoni la brutale franchezza, semplicemente e obbiettivamente in errore.
Per questa volta la perdono. :wink:
Forse avrebbe potuto sospettare che era l’interpretazione che stava dando del mio pensiero a non essere corretta (come ha potuto pensare che io potessi ignorare [e non condividere, in massima parte] le sue puntualizzazioni?).

In questo caso i termini da me usati erano stati scelti con attenzione.
bubu7 ha scritto:Se credo che un dio governi il mondo, non posso credere contemporaneamente che tutto sia governato solo dalle leggi fisiche.
Ho parlato di governo di un dio, nel senso di ‘regolare e tenere sotto stretto controllo’, e non di semplice esistenza, e l’ho contrapposto al completo governo da parte delle leggi fisiche.

La sua piacevole e dotta esposizione non mi sembra che entri in contraddizione con la mia affermazione.

Un caro saluto. :)
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Uri Burton
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Iscritto in data: mar, 28 dic 2004 6:54

INCONCILIABILITÀ O NO?

Intervento di Uri Burton »

I due linguaggi possono influenzarsi, visioni fideistiche possono osteggiare la scienza: ma quando ciò accade l'inconciliabilità non è nella scienza e nella fede, ma nell'interesse di un potere materiale che trova di volta in volta più conveniente l'una o l'altra (e trasforma le fedi in fanatismi e la scienza in scientismo).
Caro Amicus, ho trovato l’intervento interessantissimo. Per limite mio, però, non mi è del tutto chiara la fine. Se non chiedo troppo, sarebbe possibile una sia pur breve elaborazione?

Grazie di cuore,
Uri Burton
amicus_eius
Interventi: 131
Iscritto in data: ven, 10 giu 2005 11:33

Il quadrifoglio fra i trifogli, ovvero, tutto è pieno di dèi

Intervento di amicus_eius »

Bubu7 ha scritto
In questo caso i termini da me usati erano stati scelti con attenzione.
bubu7 ha scritto:
Se credo che un dio governi il mondo, non posso credere contemporaneamente che tutto sia governato solo dalle leggi fisiche.
Ho parlato di governo di un dio, nel senso di ‘regolare e tenere sotto stretto controllo’, e non di semplice esistenza, e l’ho contrapposto al completo governo da parte delle leggi fisiche.
Cercherò di chiarire meglio i termini del mio intervento, e nello stesso tempo tenterò di rispondere alla gentile richiesta di Uri Burton. Temo che non sarò breve.

I termini da lei usati erano certo stati scelti con attenzione. Con altrettanta attenzione erano stati vagliati. Nel parlare di pensatori e scienziati come Pitagora, Platone, Aristotele, per il mondo antico, o come Keplero, Galileo, Leibniz, Spinoza, Newton etc. intendevo proprio il concetto di governo di dio che lei mi definisce: quei pensatori non prescindevano dall'idea di onnipervasività e onnipresenza del divino.

La struttura cognitiva e simbolica alla base della religione non ammette esclusioni o limitazioni. Mircea Eliade, all'inizio della sua Storia delle religioni, definisce molto chiaramente la dinamica di sviluppo di una visione religiosa: l'esperienza esistenziale straordinaria (qualunque ne sia la natura: un temporale estremamente violento o una coincidenza fortunata), è percepita come manifestazione di una potenza che esce dal controllo e dalla prevedibilità ordinarie: tale potenza è latente nella dimensione ordinaria delle cose e talora si manifesta. Il processo di manifestazione della potenza è la cratofania. La cratofania si presenta, agli occhi del singolo, come vera e propria esperienza di rottura. Psicologicamente è quello che in termini tecnici si può definire un life event (un evento vitale, un evento di portata esistenziale). Si tenga conto del fatto che, in linea di principio, il sapere di sfondo tecnico può anche essere quello di una civiltà interstellare, ma l'evento fortunoso che colpisce il singolo in positivo o in negativo resta imprevedibile, imperscrutabile, totalmente incontrollabile e impredicibile nella sua effettualità, nel suo reale accadere, come esperienza di un singolo qui ed ora (spero che fin qui il discorso sia più o meno chiaro). La cratofania è strettamente collegata a quello che un altro filosofo delle religioni, Rudolf Otto, chiama il numinoso. Un evento-vita che irrompe nel quotidiano (ad esempio: una diagnosi esiziale che poi si rivela sbagliata, un innamoramento, un lutto, un fenomeno naturale eccezionale, un fiore particolarmente grande e bello, un albero particolarmente carico di frutti in una terra per il resto arida o creduta tale) viene percepito automaticamente come un segno, un cenno: un numen (indoeuropeo *neu: accennare, vedi il verbo greco neuo che descrive l'atto con cui Zeus sancisce le sue promesse agli uomini) da parte di una forza personale o no, che è latente nell'apparente dominabilità sensoria (o tecnica o cognitiva) del reale che si fa oggetto di esperienza.
La cratofania, o dimostrazione di potenza, è automanticamente fonte del sacro, di ciò che è separato e sancito (sac-er sa-n-c-tus: dall'indoeuropeo *sak- separare): la manifestazione del sacro si definisce ierofania. La ierofania è imprescindibile da un'esperienza drammatica che si fa racconto ed è tramandata come parola fondante: mito (mythos: parola o racconto -orale-: indoeuropeo: *mudh- lingua). La cratofania, la ierofania, il mito sono sempre dietro l'angolo. Sono collegati a un universo simbolico che cerca di raccontare l'unicità dell'esistenza nella sua irripetibilità effettuale. Voglio dire che l'esperienza esistenziale del singolo (che può essere in qualche modo condivisa e comunicata, ma mai resa uniforme e omogenea per tutti) e il suo incontro col mondo, sono carichi in ogni singolo, insignificante evento, di una oggettiva forza ontologica e di una oggettiva impredicibiltà, capaci, di fatto, di stritolare ogni pur solidissima visione scientifica (e ipotesi predittiva) del problema. Questo resta vero, inevitabilmente, anche se il sapere di sfondo è (per assurdo) quello di una civiltà interstellare estesa su un miliardo di pianeti, per ripetere la battuta di prima. Noi possiamo ipotizzare che se prendiamo freddo le nostre difese immunitarie ne risentiranno e un infezione rinitica a lungo covata si manifesterà come raffreddore comune (ragionamento scientifico di natura ipotetica e intersoggettiva, fondato sul concetto di uniformità delle dinamiche esplicative); non possiamo certo prevedere come e quando e in che circostanza questi eventi effettivamente si realizzeranno nella nostra vita. La medicina ci darà la previsione ipotetica dello starnuto; non ci potrà dare la predizione fattuale dell'evento reale. D'altro canto, l'influenza potrebbe beccarci, e renderci impresentabili, proprio il giorno prima di un'occasione di carriera importante (esame, concorso, colloquio di lavoro). Le circostanze esistenziali, individuali, del raffreddore ci faranno perlomeno imprecare ("ih, che seccia!") sull'impoderabilità degli eventi. In quell'istintiva imprecazione c'è il germe del sacro come categoria cognitiva e del mito come linguaggio di quella categoria cognitiva. Ciò che il primo violento starnuto di quel raffreddore significherà per noi, sarà certo comunicabile ad altri, ma tale discorso, nella sua finalità comunicativa più profonda e autentica, non sarà volto a costruire un discorso di dinamiche esplicative uniformi e ripetibili. Sarà volto a condividere il senso di un'esperienza individuale nelle sue implicazioni esistenziali (a un livello più o meno superficiale, più o meno universalizzabile), magari al fine di costituire convenzioni sul piano del modo di vivere (questo non è precisamente il caso del raffreddore, ma spero ci siamo capiti). Ovviamente, una descrizione scientifica del mondo ha altre finalità: soprattutto si esprime in un linguaggio che non è quello delle ierofanie e delle cratofanie alla base della religione. Una prova? La stessa scienza e il suo mondo di scoperte possono essere oggetto di culto (Auguste Comte, e prima di lui la Dea Ragione dei rivoluzionari francesi, e prima ancora il numero divino di Pitagora), possono essere viste come cratofanie e ierofanie. Le religioni si basano tutte sullo stesso processo esistenziale, cognitivo e simbolico: un'esperienza eccezionale che è percepita come espressione di una potenza trascendente e che perciò determina la percezione del numinoso e del sacro. Ovviamente, le religioni estenderanno la radicalità della loro concezione, con l'estendersi del quadro dell'esperienza storica e conoscitiva dell'uomo. In origine, le cratofanie erano eventi per noi banali (un quadrifoglio nel campo di trifogli); poi si è passati per la fase in cui si realizza che ogni evento è potenzialmente una cratofania (Talete di fronte al magnetismo: tutto è pieno di dèi); infine si è arrivati a vedere il sacro nelle sue radici originarie: che cosa è eccezionale e numinoso, e dunque sacro? L'esistere mio qui ed ora e di questo mondo di fronte a me e non di un altro (cratofania originaria della radice dell'Essere) e il fatto che io sono capace di riconoscere ciò che è eccezionale e numinoso, e dunque sacro (cratofania dell'Uomo). Di qui, ridotto all'osso, il mito (attenzione a non intendere questa parola come depotenziata o derisoria: il mito è vero -dice sempre Mircea Eliade-, di una verità che gli è propria e dotata di un fortissimo peso informante e informativo): "Dio ha creato il mondo e l'uomo", "Dio è latente nel mondo e nella storia dell'uomo", "Nel mondo e nella storia dell'uomo in qualche modo Dio si incarna, si comunica (in qualunque forma gli piaccia -est articulum fidei Deum formam humanam assumere: idem poterat assumere formam assinam -Guglielmo da Occam)".

Ne consegue, che la religione si sostanzia in un linguaggio che è quello del mito come condivisione di una super-narrazione fondante sul piano dell'esistenza. La scienza per altro risponde ad altre esigenze: la ricerca critica e controllabile e fortemente intersoggettiva di dinamiche esplicative (catene logiche di teorie=sequenze causali di eventi) vòlta a costituire una conoscenza obbiettiva del mondo, formulata in modo da essere sempre correggibile. La religione (mito) non pretende di essere universale nel senso di uniforme: è lo sforzo di condividere tramite il segno (che può cambiare nella storia e nello spazio) un'esperienza esistenziale sensata. Le caste sacerdotali asservite alla politica e all'economia ne fanno una tecnica dell'irregimentazione delle coscienze e dell'organizzazione del controllo sociale. La scienza non pretende di indicare agli individui il senso del loro esistere: è orientata a fornire una descrizione obbiettiva e correggibile del reale, fondandosi sul presupposto esplicito della fallibiltà del conoscere. La tecnica che dalla scienza deriva, cerca di estendere le possibilità di controllo dell'uomo sul suo ambiente, espandendone la creatività, senza dimenticare la sua intrinseca limitatezza. I poteri economici e militari ne fanno uno strumento di guadagno e di dominio. Scienza e tecnica, mito e fede (e metafisica=teoria non scientifica non religiosa, come ad esempio il marxismo o lo spinozismo), possono sovrapporsi, influenzarsi, talora coincidere: sempre possono convivere, perché sono e restano sistemi di simboli paralleli. Quando si ostacolano, è perché sono state snaturate e deviate dai loro fini.

La dissociazione mentale non c'entra.

Quanto al discorso sul multilinguismo, che si era perso nella nebbia, siamo sempre sulla stessa falsariga. Una lingua è un modo di organizzare le categorie distintive che contrassegnano le cose. Come tale, è uno strumento comunicativo e cognitivo, così come lo sono, su piani più complessi, le idee e le visioni del mondo. Una stessa mente può usare due o più strumenti, senza essere sdoppiata o dissociata. E può apprendere a usarli dalla nascita, senza scindersi in personalità multiple. Niente scenarii da Psycho, dunque, s'il vous plait.

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Re: Il quadrifoglio fra i trifogli, ovvero, tutto è pieno di

Intervento di bubu7 »

amicus_eius ha scritto: La dissociazione mentale non c'entra.

Quanto al discorso sul multilinguismo, che si era perso nella nebbia, siamo sempre sulla stessa falsariga. Una lingua è un modo di organizzare le categorie distintive che contrassegnano le cose. Come tale, è uno strumento comunicativo e cognitivo, così come lo sono, su piani più complessi, le idee e le visioni del mondo. Una stessa mente può usare due o più strumenti, senza essere sdoppiata o dissociata. E può apprendere a usarli dalla nascita, senza scindersi in personalità multiple. Niente scenarii da Psycho, dunque, s'il vous plait.
Non condivido queste sue conclusioni e inoltre continuo a pensare che, nonostante il suo attento vaglio, la mia affermazione, sull’impossibilità di immaginare contemporaneamente un governo completo di un dio e delle leggi fisiche, sia ancora fraintesa nella sua replica.

A parte questo trascurabile aspetto la devo ringraziare per averci permesso, ancora una volta, di abbeverarci alla fonte del suo multiforme sapere.
Anche se fosse solo quest’ultimo il risultato del nostro dissenso, posso comunque ritenermi soddisfatto. :)
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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UNA DOMANDA E UN COMMENTO

Intervento di Uri Burton »

Ringrazio anch’io, e calorosamente, Amicus: con la sua saggezza ci ha fornito un esame a cattedrale – un insieme nel quale tutti gli elementi sono interdipendenti – di ciò che io, con parole mie, chiamerei il rapporto tra ideologia e esperienza. Avrei però ancora una domanda da rivolgergli e un commento da esprimere.

La domanda. Nell’esposizione manca il nome di chi ha cambiato, nella mente dello scienziato e non solo dello scienziato, la percezione dell’origine e dell’esistenza: Charles Darwin. Si tratta d’un empirical miss o di un’omissione voluta?

Il commento. Siamo sicuri che il marxismo sia in tutto e per tutto un mito? Depurato dell’ineluttabilità rivoluzionaria finale, rimane pur sempre un poderoso strumento d’analisi e come tale è infatti usato da scienziati sociali di tutte le persuasioni politiche. In particolare, senza i mezzi d’indagine che offre il pensiero marxista, una teoria della dipendenza – anche linguistica –si ridurrebbe a un esercizio privo di significato.

Certo, si potrebbe obiettare che il marxismo senza la fede nella rivoluzione comunista non è marxismo. Ma c’è da chiedersi se Marx, di fronte al ricalcitrare della storia, non direbbe quello che in un altro contesto disse: «per fortuna io non sono marxista», contentandosi cosi di avere definito il capitalismo (un modo di produrre in cui una classe vende la propria capacità lavorativa) e d’avere predetto la tendenza decrescente del tasso di profitto (tuttora in costante contrazione, tanto da richiedere la continua calata in nuovi mercati).
Uri Burton
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Intervento di amicus_eius »

Bubu7 mi replica:

amicus_eius ha scritto:
La dissociazione mentale non c'entra.

Quanto al discorso sul multilinguismo, che si era perso nella nebbia, siamo sempre sulla stessa falsariga. Una lingua è un modo di organizzare le categorie distintive che contrassegnano le cose. Come tale, è uno strumento comunicativo e cognitivo, così come lo sono, su piani più complessi, le idee e le visioni del mondo. Una stessa mente può usare due o più strumenti, senza essere sdoppiata o dissociata. E può apprendere a usarli dalla nascita, senza scindersi in personalità multiple. Niente scenarii da Psycho, dunque, s'il vous plait.
Non condivido queste sue conclusioni e inoltre continuo a pensare che, nonostante il suo attento vaglio, la mia affermazione, sull’impossibilità di immaginare contemporaneamente un governo completo di un dio e delle leggi fisiche, sia ancora fraintesa nella sua replica.

A parte questo trascurabile aspetto la devo ringraziare per averci permesso, ancora una volta, di abbeverarci alla fonte del suo multiforme sapere.
Anche se fosse solo quest’ultimo il risultato del nostro dissenso, posso comunque ritenermi soddisfatto.
La sua affermazione può voler dire soltanto: non è possibile che io pensi che non si muova foglia che Dio non voglia e nello stesso tempo pensi che non si muova atomo che le leggi fisiche non governino (in modo indeterministico, ovviamente).

Io le ripeto: se è questa la sua affermazione (come credo che lo sia), è a questa affermazione, e a non altro, che il mio ragionamento risponde. Devo essere proprio ridotto male, se non riesco a spiegarmi nemmeno sulle premesse...

Il discorso è semplice: io posso ammettere in pieno la costruzione ( sempre di fondo parziale e ipotetica) delle leggi fisiche nella loro catena logica di dinamiche esplicative; e nello stesso tempo toccare con mano l'imprevedibilità della mia esperienza esistenziale reale (reale e non ipotetica) e trovare ad essa una risposta all'interno delle categorie cognitive della religione o della metafisica. Questo è tanto vero, che le metafisiche (=le visioni religiose e ideologiche degli scienziati) in bene o in male hanno sempre influenzato la storia della scienza: è un dato incontrovertibile osservato e spiegato dalle epistemologie di Popper, di Lakatos, di Feyerabend: lei è padronissimo di sostenere il contrario, ma così non va da nessuna parte, glielo garantisco. Può anche avvenire che si tengano separate le due sfere: il mondo di segni della religione ripiegato sull'individua effettualità esistenziale, e le dinamiche esplicative del ragionamento scientifico a spiegare l'universo, la civiltà e la storia nel loro funzionamento e sviluppo, fermo restando che la scienza è ipotesi del possibile (descrive una cosa che potrebbe accadere date certe condizioni, e in subordine cerca di costruire modelli plausibili di eventi sperimentalmente riscontrati e fattuali), mentre la religione (la metafisica) è giustificazione del reale (presume di razionalizzare, far accettare l'accadimento esistenziale effettuale, è interpretazione e cognizione di un reale, umano, generico: anche quando si tratta, ad esempio -cornua faciamus, qui è l'ipocondriaco che è in tutti noi a parlare- di un reale scientificamente descritto, come una diagnosi circostanziata di una malattia grave, che segna l'esistenza di una persona). Può succedere che la scienza diventi oggetto di religione, essendo percepita essa stessa come accesso a una ierofania. Allora la ierofania diventa in concreto l'universo stesso, che si autoconosce attraverso l'intelligenza. Il discorso non cambia e le posizioni possibili e autoconsistenti in materia sono infinite (e nessuno degli eventuali assertori manifesta segni di spaltung).

A sua volta Uri Burton acutamente scrive:
La domanda. Nell’esposizione manca il nome di chi ha cambiato, nella mente dello scienziato e non solo dello scienziato, la percezione dell’origine e dell’esistenza: Charles Darwin. Si tratta d’un empirical miss o di un’omissione voluta?

Il commento. Siamo sicuri che il marxismo sia in tutto e per tutto un mito? Depurato dell’ineluttabilità rivoluzionaria finale, rimane pur sempre un poderoso strumento d’analisi e come tale è infatti usato da scienziati sociali di tutte le persuasioni politiche. In particolare, senza i mezzi d’indagine che offre il pensiero marxista, una teoria della dipendenza – anche linguistica –si ridurrebbe a un esercizio privo di significato.

Certo, si potrebbe obiettare che il marxismo senza la fede nella rivoluzione comunista non è marxismo. Ma c’è da chiedersi se Marx, di fronte al ricalcitrare della storia, non direbbe quello che in un altro contesto disse: «per fortuna io non sono marxista», contentandosi cosi di avere definito il capitalismo (un modo di produrre in cui una classe vende la propria capacità lavorativa) e d’avere predetto la tendenza decrescente del tasso di profitto (tuttora in costante contrazione, tanto da richiedere la continua calata in nuovi mercati).
In effetti il darwinismo è una teoria (valida nei presupposti generali) e un programma di ricerca scientifico (progressivo) che, come ogni altro sistema teorico di natura scientifica, rientra comunque nell'ambito di un'ipotesi esplicativa del possibile. Essa di principio non contrasta con una visione religiosa specifica, per quanto abbia, come tutte le teorie scientifiche e i programmi di ricerca, forti valenze metafisiche e implicazioni esistenziali. Evidentemente, il darwinismo supera il fissismo delle specie (un altro programma di ricerca, rivelatosi non dinamico e addirittura regressivo). Evidentemente, le visioni metafisiche e le interpretazioni teologiche ancorate a un'idea di fissismo tramontano insieme allo stesso fissismo. Le religioni e i miti in sé sono un'altra cosa, perfino quando parlano di terra quadrangolare (= simbolo arcaico di una terminologia mitologico-astornomica per indicare la regione del piano dell'eclittica compresa nel quadrato i cui vertici sono i punti equinoziali e solstiziali -vedi De Santillana - Dechend). Detto fra noi, la stessa evoluzione diviene poi oggetto di una sorta di "deificazione" con Spencer, con Bergson, e in sommo grado con Teilhard De Chardin.

Il discorso che cercavo di costruire implicava la compresenza di un qualunque tipo di visione religiosa insieme a tutto il bagaglio scientifico dell'età contemporanea, compreso il concetto di evoluzione. Spostiamo a tal proposito il discorso sul concetto di "disegno intelligente" e di antievoluzionismo latente nei cleri delle religioni tradizionali. Con tutta evidenza, si tratta di una posizione che non ha altra radice se non la scarsa capacità di riflessione filosofica dei cleri stessi, quando non la malafede ideologica di chi, volto al mantenimento del controllo delle coscienze e alla conservazione della poltrona, trova pericoloso qualunque atteggiamento critico sia pur larvato (il che oggi è semplicemente osceno).

Chi teme che il big bang, o l'evoluzionismo, o i tentativi di spiegazione teorica delle cause dello stesso big bang, siano tentativi di eliminare Dio o il divino dalla storia, in effetti ha una concezione assai meschina di Dio o del divino. Chi ha premuto per far sparire Darwin dalle scuole, crede in un Dio dei vuoti, un tappabuchi (Bonhoeffer) annidato nelle ombre dell'ignoranza. Questa visione del mondo è evidentemente incompatibile con la scienza, ma, si badi bene, è incompatibile anche con una vera concezione religiosa dell'esistenza. Chi ragiona in questi termini fa di Dio una cosa fra le cose, una causa fra le altre cause (il bisticcio etimolgico è puramente deliberato). Chi teme che l'evoluzione, o l'inflazione infinita di Linde, o le brane di Hawking, o la fisica dell'energia negativa di Kasimir, Krashnikov e Alcubierre, o le teorie del cosmo madre di Gott e Li siano tutte confutazioni secolaristiche di Dio o del divino, in realtà fa due cose estremamente brutte: 1) pretende di poter controllare il divino assegnandogli un posto tecnicamente esplicativo in un mondo incasellato ideologicamente da una sorta di sudicia burocrazia della trascendenza; 2) pretende di stabilire così un controllo limitante sugli spazi di libertà e di iniziativa della coscienza umana. Ora, se la religione nel suo momento più autentico è culto della ierofania dell'Essere (e del Fondamento) e della ierofania dell'Uomo, chi crede in un dio dei vuoti è praticamente ateo, e doppiamente blasfemo, poiché offende in modo sanguinoso e colpisce al cuore le due matrici generative del sacro come tale, attuando sistematicamente una pratica repressiva delle coscienze, sul piano pratico, e una strutturale deminutio dell'uomo e di dio sul piano teoretico.

Quanto al marxismo: in quanto -ismo, esso va tenuto ben distinto dalla dimensione critica della filosofia marxiana (di qui la famosa frase "per fortuna io non sono marxista"). Il marxismo originario, quello di Marx e in molto minor misura quello di Engels, è costituito da due assunzioni metodologiche non direttamente dimostrabili: 1) la dimensione critica (si veda l'introduzione del Capitale) estrinsecantesi nella trasformazione della dialettica giustificativa e conservativa di Hegel, in dialettica negativa e rivoluzionaria -in pratica fallibilista; 2) il materialismo storico. Le tesi sviluppate da Marx sono analisi controllabili, dunque scientifiche, dunque parziali e storicamente determinate. Quello che fa il marx-ismo, in opposizione alla filosofia marx-iana, è trasformare un'assunzione critico-metodologica in articolo di fede (il che era contrario alla sostanza del pensiero di Marx, alla sua dimensione critica) e in sottordine cristallizzare le ipotesi scientifiche di Marx in precetti preconfezionati. Dunque la filosofia marxiana è un programma di ricerca e le analisi marxiane sono analisi socio-economiche. Il marxismo si configura come una mitizzazione che uccide Marx, poiché si fonda su un discorso profondamente anti-marxiano. Oggi molto delle analisi di Marx appare superato (proprio perché si tratta di analisi scientifiche). Difficilmente superabili, a meno che non si sia in malafede, sono le due assunzioni di fondo, che costituiscono i capisaldi intellettuali di un materialismo critico difficilmente aggirabile nell'analisi dei fenomeni storico-sociali.

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La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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...Ricordiamoci appunto che i nostri antenati sono molti e di molte stirpi...
Ultima modifica di amicus_eius in data dom, 07 gen 2007 1:47, modificato 1 volta in totale.
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GRAZIE, AMICUS

Intervento di Uri Burton »

Quello che fa il marx-ismo, in opposizione alla filosofia marx-iana, è trasformare un'assunzione critico-metodologica in articolo di fede (il che era contrario alla sostanza del pensiero di Marx, alla sua dimensione critica) e in sottordine cristallizzare le ipotesi scientifiche di Marx in precetti preconfezionati...
Usandoli, come diceva il grande sociologo americano C. Wright Mills, as a cheap substitute for learning.

Sono a corto di parole. Amicus ha «spartito» con noi la sua immensa cultura, e se non gli pongo altre domande è per non abusare del suo tempo di là dal lecito, proponendo per di più argomenti che forse si discostano troppo non solo da questo filone ma anche dai vari temi discussi nel forum.

Grazie, dunque. Un grazie che esprime tutta la mia gratitudine e al quale si unisce mia moglie, studiosa di metafisica freudiana, che ha con sommo interesse letteralmente divorato le sue risposte.
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