MarMar ha scritto: ven, 08 mag 2020 15:09
Come si analizza sintatticamente un periodo quale "bisogna sentire parlare più spesso di questo argomento"?
Temo che le risposte date in questo filone abbiano lasciato la nostra nuova utente un po’ con l’amaro in bocca, come, in verità, spesso accade quando si parla d’analisi logica.
A tal proposito, non mi stanco mai di citare le
sagge parole di Luca Serianni, affinché siano sempre ben chiari i limiti di questo tipo d’analisi. È per questo che i moderatori di questo fòro raramente intervengono per rispondere a quesiti di questa natura. E in effetti non siamo intervenuti dopo la
risposta di Daphnókomos, che poteva andar bene cosí: solo quando sono stati sollevati dubbi tassonomici al riguardo, non ho saputo resistere alla tentazione di evidenziare l’«indecidibilità» che spesso si accompagna a tali tentativi classificatòri.
Intendiamoci: l’analisi logica non è sempre fine a sé stessa o solo utile a tradurre dalle (o nelle) lingue classiche (anche se da ciò trae la sua origine). Classificare sintagmi e costrutti può essere molto utile per comprendere il funzionamento d’una lingua, cosa sia grammaticale e cosa no, quali proprietà condivida un gruppo particolare di verbi rispetto a un altro gruppo simile ma diverso. In tema con la nostra discussione, si veda ad esempio la
trattazione dei verbi di percezione (o «percettivi») dell’
Enciclopedia dell’italiano Treccani: le differenze coi verbi estimativi e con la costruzione causativa, il tipo d’infinitiva da essi retti (…sarà una caso che si parli d’«infinitive» e non di «oggettive» o «soggettive» [implicite]?

Ci torneremo).
Ma veniamo alla nostra frase [complessa], o periodo: la prenderò piuttosto larga, anche andando temporaneamente «fuori fòro», ma credo che in questo caso sia istruttivo per chiarire l’àmbito (e i relativi limiti) di questo tipo d’analisi.
Innanzitutto, la frase non è delle piú felici: abbiamo un verbo d’obbligo,
bisogna, che regge un verbo percettivo,
sentire, il cui soggetto non ha mai un «
ruolo semantico» d’agente, sibbene d’esperiente. Come si fa a
imporre a qualcuno di «sentire»? Al massimo, gli si può imporre d’«ascoltare» o di «andare a sentire». Intendiamoci: questo aspetto
semantico è irrilevante ai fini dell’analisi della struttura
sintattica del periodo in questione, ma lo rende molto marginale, ai limiti dell’agrammaticalità, rendendocelo cosí di meno immediata decifrazione.
Un’altra cosa che dobbiamo sempre ricordarci di fare in analisi logica è diffidare delle
presunte equivalenze e delle altrettanto
presunte ellissi: dobbiamo analizzare la frase che abbiamo davanti, punto. «Rigirare» una frase, integrarla di elementi [che si presume] sottintesi, trasformare un costrutto da implicito in esplicito, un verbo da attivo a passivo (o viceversa) può essere utile per comprendere la particolare formulazione cui ci troviamo difronte, ma è quest’ultima che dobbiamo analizzare, non i suoi [presunti] equivalenti. Cosí come
il topo è mangiato dal gatto è semanticamente equivalente, ma non sintatticamente [né pragmaticamente] equivalente a
il gatto mangia il topo, cosí
bisogna sentir parlare, sebbene semanticamente equivalente sia a
bisogna che tutti sentiamo parlare sia a
bisogna che si senta parlare, non è ad essi sintatticamente equivalente, e il suo svolgimento in forma esplicita (fra l’altro ambiguo, «indecidibile», come in questo caso) non ci aiuta [ad analizzare sintatticamente la frase di partenza].
Un altro punto da tener presente è che l’analisi logica è un’analisi rigorosamente
sincronica. Considerare un particolare costrutto in diacronia può essere utile a comprendere meglio la sua attuale struttura sintattica, ma nulla possiamo dedurre riguardo a quest’ultima dalla struttura che il costrutto aveva nei secoli scorsi, per non parlare di quella dell’equivalente costrutto della lingua madre. Tuttavia, abbiamo detto che l’analisi logica nasce per facilitare la traduzione dalle lingue classiche, quindi non pare inopportuno vedere se il confronto col latino non ci offra magari degli spunti interessanti.
La questione si riduce quindi a questo: ci sono, in latino, dei
criteri formali per stabilire se l’infinitiva retta, ad esempio, da un
oportet («bisogna / è opportuno») possa a sua volta considerarsi la reggente di un’oggettiva anziché di una soggettiva e, se esistono, ci aiuta questo a individuare analoghi criteri per l’italiano?
Prendiamo due frasi del classico per eccellenza, Cicerone:
hoc fieri et oportet et opus est (
Att. 13, 25, 1: «è opportuno e d’uopo [endiadi] far ciò» [lett. «essere fatto», cioè «che sia fatto / che si faccia»]);
nec mediocre telum ad res gerendas existimare oportet benevolentiam civium (
Lael. 17, 61: «né bisogna considerare la benevolenza dei cittadini mezzo inadeguato alla gestione dei nostri affari»). Vediamo, quindi, che in latino si usa indifferentemente l’infinito passivo o quello attivo a seconda che si voglia mettere in evidenza il soggetto o l’oggetto dell’infinitiva, esattamente come si farebbe in italiano nelle succitate frasi del gatto e del topo. Potremmo quindi ragionevolmente classificare come «soggettiva» un’infinitiva dipendente da un’infinitiva retta da
oportet nel caso in cui in quest’ultima figurasse un infinito passivo, come «oggettiva» quando l’infinitiva sovraordinata contenesse invece un infinito attivo… E in italiano?
Il confronto col latino ci permette di stabilire che un analogo criterio formale per l’italiano
non esiste. Infatti, l’infinito passivo non è possibile (
bisogna fare ciò, ma *
bisogna essere fatto ciò;
bisogna sentire qualcosa, ma *
bisogna essere sentito qualcosa:
bisogna essere fatti e
bisogna essere sentiti sono ovviamente possibili, ma non ammettono altro soggetto da quello impersonale, da un «
noi logico»), mentre il passivo è ovviamente possibile nel costrutto esplicito:
bisogna che ciò sia fatto e
bisogna che qualcosa sia sentito sono altrettanto grammaticali che un
bisogna che facciamo ciò e un
bisogna che sentiamo qualcosa, rispettivamente.
Quanto all’infinito col «
si passivo» (o «passivante»), esso è categoricamente escluso, essendo possibile solo nella «costruzione a sollevamento» (
possono trovarsi nuovi reperti), nella costruzione latineggiante di
accusativus cum infinitivo (
ritengo essersi speso troppo), [facoltativamente] dopo un
da retto da aggettivo (
un libro piacevole da leggersi) o nella relativizzazione di un oggetto in una relativa infinitiva (
cerco un libro da leggersi in treno) {su tutto questo si veda Giampaolo Salvi, «La frase semplice», in L. Renzi, G. Salvi & A. Cardinaletti (a cura di),
Grande Grammatica Italiana di Consultazione, Bologna, «Il Mulino», 2001, vol. I, 37–127, § I.6.3.1, pp. 117–9, da cui sono tratti tutti gli esempi}. Quindi, sebbene costrutti espliciti quali
bisogna che si faccia ciò e
bisogna che si senta qualcosa siano, come ben sappiamo, perfettamente grammaticali, *
bisogna farsi ciò (nel senso di «essere fatto») e *
bisogna sentirsi qualcosa (nel senso di «essere sentito») sono impossibili.
Potremmo quindi legittimamente sostenere che, in assenza d’un tale criterio formale, in frasi come quella da cui siamo partiti (
bisogna sentire parlare piú spesso di questo argomento) non è possibile caratterizzare ulteriormente l’infinitiva retta dalla soggettiva di primo grado (
sentire).
Tuttavia, possiamo ancor piú ragionevolmente asserire che, poiché l’infinito della sovraordinata è un infinito attivo (e non sono possibili —con quel significato— né l’infinito passivo né l’infinito col
si passivo), tale infinitiva (
parlare piú spesso di questo argomento) dev’essere un’oggettiva, come nell’interpretazione originaria di Daphnókomos (e probabilmente della stragrande maggioranza delle grammatiche tradizionali). Questa è in effetti anche l’interpretazione piú economica.
Rimane forse un ultimo dubbio da chiarire: se davvero quell’infinitiva di 2º grado è un’oggettiva, qual è il soggetto [
sintattico] di
sentire? La risposta è semplice: non c’è.

Come non c’è Il soggetto di
fare in
bisogna fare qualcosa o di
mangiare in
bisogna mangiare, frasi entrambe perfettamente grammaticali. E, se per la prima frase potremmo ipotizzare un’equivalenza con
bisogna che sia fatto qualcosa, ricominciando cosí tutto il discorso daccapo (discorso che ha dimostrato come tale ipotesi non porti a una conclusione soddisfacente), per la seconda bisogna per forza rassegnarsi al fatto che un vero soggetto sintattico non ci sia. D’altra parte, l’infinito è un modo non finito del verbo, il cui soggetto (nelle subordinate) è generalmente «coreferente» (

cioè rimanda allo stesso designato) con quello della reggente, ma che formalmente non esiste. In
fa freddo senza nevicare si può presumere che il soggetto
vuoto [∅] di
nevicare sia lo stesso di
fa freddo (e infatti non sono possibili frasi con designati diversi come *
si trattava di neve senza tuttavia far freddo, appetto alla grammaticale
si trattava di neve senza che tuttavia facesse freddo, in cui l’obbligo di coreferenza non sussiste per il costrutto esplicito:
cfr. Salvi,
op. cit., p. 64).
Ma in
bisogna fare qualcosa,
bisogna mangiare, il soggetto di
bisogna è l’infinitiva stessa, il cui soggetto non può evidentemente essere lo stesso della principale. Sul piano logico, peraltro, la frase non presenta alcuna ambiguità interpretativa: il soggetto dell’infinitiva è un
noi generico.