Cento anni di lingua italiana (1861-1961)

Spazio di discussione dedicato alla storia della lingua italiana, alla sua evoluzione e a questioni etimologiche

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Cento anni di lingua italiana (1861-1961)

Intervento di Freelancer »

Questo volumetto raccoglie tre saggi di Giacomo Devoto, Bruno Migliorini e Alfredo Schiaffini. Alcuni passi dei saggi dei primi due linguisti aggiungono qualche briciolo di informazione e qualche altro spunto ad argomenti di cui parliamo spesso in questa sede.
All'inizio di [i]Cento anni in cinque ventenni[/i], Giacomo Devoto ha scritto:La lingua italiana passa nei cento anni attraverso diverse fasi, risente di diversi motivi conduttori, di fronte ai quali reagiscono resistenze e negazioni più o meno efficaci: la classicità manzoniana, il momento epico col Carducci, il momento musicale col D'Annunzio, quello marziale col fascismo, e finalmente la nuova classicità crociana.
Al disotto dei grandi modelli e delle corrispondenti correnti polemiche, la lingua letteraria italiana si diffonde e si svolge: nella amministrazione, nella borghesia, nel popolo. I dialetti declinano, annacquano il loro vocabolario, ma reagiscono a loro modo nella cadenza della pronuncia della lingua letteraria.
Il vocabolario della tecnica si impone, e si espande in impieghi figurati: alle formule chimiche e matematiche si affiancano le sigle del commercio e dell'organizzazione politica. Lo sviluppo della burocrazia, il declino dell'analfabetismo non elevano il livello della lingua letteraria. Di fronte ad essa rimangono aperti, antitetici, gli ideali di classicità e popolarità. Per questo, cento anni di storia della lingua italiana aderiscono ai cento anni di storia della società italiana.
Nel capitolo [i]L'età manzoniana (1861-1881): Pro e contro il modello fiorentino[/i] di [i]Cento anni in cinque ventenni[/i], Giacomo Devoto ha scritto:La parola gas, nata nel secolo XVII, si impone nel ventennio in tutte le città con l'illuminazione, poi con la cucina. Essa impone alla lingua italiana una finale in consonante, dà l'avvio al terzo sistema fonologico italano.
Nel capitolo [i]L'età carducciana (1881-1901): Imagini e ritmi dell'antichità classica[/i] di [i]Cento anni in cinque ventenni[/i], Giacomo Devoto ha scritto:La parola tram per indicare un veicolo a rotaie, prima a cavalli poi elettrico, si diffonde nelle città principali, e conferma la possibilità delle parole italiane di uscire in consonante.
Nel capitolo [i]L'età dannunziana (1901-1921): La lingua come ornamento e melodia[/i] di [i]Cento anni in cinque ventenni[/i], Giacomo Devoto ha scritto:La grande nuova parola è sport, addirittura con due consonanti in finale. Essa sopravvive vigorosa, anche se molti anglismi del gioco del calcio vengono abbandonati. Nascono le sigle, di cui la più famosa è la FIAT, sorta nel 1899 e divenuta di patrimonio comune a partire dal 1906: sigla ancora facile da pronunciare e fornita di un significato latino.
Nel capitolo [i]L'età fascista (1921-1941): Le iperboli della politica e il ritegno dei letterati[/i] di [i]Cento anni in cinque ventenni[/i], Giacomo Devoto ha scritto:Nonostante la resistenza ufficiale, parole straniere continuano ad imporsi. La più tipica è in questo periodo il jazz, che proviene dagli Stati Uniti. Essa pone non soltanto il problema fonetico della sua finale, ma anche quello ortografico della sua iniziale.
Nel capitolo [i]L'età attuale (1941-1961): La classicità crociana e l'avvento di gerghi e dialetti nella lingua letteraria[/i] di [i]Cento anni in cinque ventenni[/i], Giacomo Devoto ha scritto:Le parole straniere continuano ad affluire, e con gli apparecchi jet o aviogetti, e la catena di alberghi Jolly sempre più diffusi, ci si domanda se non siamo alla vigilia di una diversa lettura del segno j.
Le sigle, sempre più complesse, sono il nocciolo a loro volta di una scrittura sillabica: CGIL = Cigielle, CLN = Cielleenne.
In [i]Cento anni di lessico italiano[/i], Bruno Migliorini ha scritto:La penetrazione delle parole straniere nel nostro vocabolario richiederebbe una esemplificazione e una discussione molto lunghe, per vedere quali siano i campi in cui più i forestierismi abbondano, e per vedere da che lingua essi provengono e quali difficoltà le diverse provenienze producono: per esempio, parole come tango o rumba o canasta, che provengono dall'Argentina e da Cuba, non presentano alcuna difficoltà perché hanno una struttura identica a quella delle parole italiane; mentre non si può dire lo stesso per jazz e charleston, e per innumerevoli parole inglesi penetrate negli ultimi decenni.
I pareri se convenga o no cercare di adattare o sostituire quelle parole forestiere che non corrispondono agli schemi strutturali italiani sono molto discordi. Naturalmente nessuno si sogna di italianizzare parole come boomerang o tomahawk, che si riferiscono a cose rare ed esotiche, ma ci si può domandare se è ben fatto che molti alberghi si vergognino di chiamarsi alberghi e si chiamino hôtels, se è meglio dire transistore o transistor, e come si possa tradurre recital, visto che non si sa nemmeno se pronunciarlo all'inglese o alla francese.
Le spinte puristiche, un po' brusche e talvolta un po' goffe, esercitate durante il periodo fascista hanno finito col produrre, dopo il crollo del regime, un'ondata anche più forte di forestierismi. Eppure che sia opportuno dire piuttosto autista che chaffeur (cioè che sia bene evitare una parola che contiene un suono non italiano per una professione così frequente), che sia meglio dire marroni canditi piuttosto che marrons glacés, a me non par dubbio.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

La parola tram per indicare un veicolo a rotaie, prima a cavalli poi elettrico, si diffonde nelle città principali, e conferma la possibilità delle parole italiane di uscire in consonante.
Tutto è possibile, anche un’ipotetica parola quale potrebbe essere *wakjhorstibdukp, dal momento che venisse usata. Quello che bisogna domandarsi esula dallo spettro delle possibilità, e rientra nel campo dell’auspicabilità, valutata sul metro d’una lunghissima tradizione. È in fondo una questione, anche, etica. Che una lingua accolga una manciata di parole strutturalmente difformi dalle proprie non è un gran male, soprattutto se si tratta di voci di basso uso; che una lingua si dimentichi di sé stessa, accogliendo giornalmente una valanga di forestierismi crudi, è invece un gran male, perché giú per tale rovinosa china finirà col perdere quel suo aspetto caratteristico che fa di essa un idioma riconoscibile, con una sua identità plastica e fonica.
La grande nuova parola è sport, addirittura con due consonanti in finale. Essa sopravvive vigorosa, anche se molti anglismi del gioco del calcio vengono abbandonati.
E abbiamo già visto, detto e ridetto che gl’italiani sono incapaci di pronunciarla fermandosi in modo netto nella t finale. Ecco perché i vocaboli terminanti in consonante o nesso consonantico si sarebbero dovuti (si dovrebbero) adattare, con aggiustamenti minimi (sporte). E passino pure quelle tre o quattro parole comuni uscenti in nesso consonantico; mi pare tuttavia da incoraggiare la tendenza assimilatrice, che fa la reale potenza d’una lingua di cultura, la quale subordina al proprio sistema il materiale altrui.

E non sono d’accordo – una tantum ;) – col Migliorini quando dice che boomerang non va adattato: non è affatto un oggetto cosí esotico oggigiorno, tant’è che è un banalissimo balocco che si trova nei negozi di giocattoli. Inoltre ha dato vita a usi figurati tutt’altro che rari: un’iniziativa boomerang, l’effetto boomerang, ecc. Sarebbe dunque opportuno rivestirlo all’italiana: iniziativa bumerango, effetto bumerango.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Ci rifaccio: meglio evitare adattamenti "pesanti". Il boomerang resta un oggetto di origine straniera non di uso così frequente, a parte quelle due locuzioni. Credo sia meglio al massimo adattarne l'ortografia, usando la variante bumerang.

Relativamente a sport, la forma sporte dà luogo a una curiosa omofonia. Meglio usare parole alternative: agonismo, attività agonistica, atletica, allenamento...

L'argomento è vecchio, lo so, lo so... :)

_____________________

(Criterii: 1) evitare neoconii troppo duri -andrebbe creata una scala di artificiosità o durezza; 2) preferire agili perifrasi o parole frase, dove non sia presente il traducente diretto o la possibilità di estensione terminologica; 3) parole straniere che riesce impossibile adattare del tutto, perché sono oggetti strettamente legati a una certa cultura, oggi è meglio accoglierle, cercando però almeno di eliminare le discrasie fra pronuncia e ortografia: perciò effetto bumerang, jogurt e panna etc.).
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

amicus_eius ha scritto:Relativamente a sport, la forma sporte dà luogo a una curiosa omofonia.
Non mi pare che l’omofonia sia un ostacolo: se ne trovano a palate di già esistenti, senza che questo intralci la comunicazione.

Riguardo a boomerang, ricordo che in spagnolo si dice bumerán, e non credo che sia un oggetto ivi piú diffuso...

Tutta la vigente avversione per l’adattamento fa sí che il lessico italiano non si arricchisce piú, se non di forme aliene.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Brazilian dude
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Intervento di Brazilian dude »

E in portoghese bumerangue.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

In Cento anni di lessico italiano, Bruno Migliorini ha scritto:Le spinte puristiche, un po' brusche e talvolta un po' goffe, esercitate durante il periodo fascista hanno finito col produrre, dopo il crollo del regime, un'ondata anche più forte di forestierismi.
Penso che quest’interpretazione non si possa più applicare all’oggi. L’ingresso dei forestierismi non mi sembra legato ad una reazione a spinte puristiche bensì a sudditanza culturale.
Marco1971 ha scritto: Quello che bisogna domandarsi esula dallo spettro delle possibilità, e rientra nel campo dell’auspicabilità, valutata sul metro d’una lunghissima tradizione. È in fondo una questione, anche, etica. Che una lingua accolga una manciata di parole strutturalmente difformi dalle proprie non è un gran male, soprattutto se si tratta di voci di basso uso; che una lingua si dimentichi di sé stessa, accogliendo giornalmente una valanga di forestierismi crudi, è invece un gran male, perché giú per tale rovinosa china finirà col perdere quel suo aspetto caratteristico che fa di essa un idioma riconoscibile, con una sua identità plastica e fonica.
Parlare di bene o male in relazione a questi cambiamenti mi sembra pericoloso oltreché antistorico e poco scientifico.
Legare questi cambiamenti (più o meno rivoluzionari) al male è ancora più pericoloso e potrebbe portare, questo sì, giù per una “rovinosa china”.

Il francese ha subito cambiamenti rivoluzionari mantenendo una propria identità (non nel senso di stabilità ma di caratterizzazione).
La lingua inglese (il nemico supremo!) ha anch’essa subito cambiamenti rivoluzionari, rispetto al periodo preumanistico, accogliendo latinismi a valanga. Possiamo dire che ha perso la sua identità?

Chi ha studiato un po’ di storia della lingua latina, pensi agl’intensi scambi col greco che hanno caratterizzato tutta la sua vita, dal periodo arcaico al periodo preletterario, da quest’ultimo al periodo repubblicano fino ad arrivare al periodo classico con tutte le sfaccettate posizioni delle diverse correnti di pensiero sulla lingua. Possiamo dire che il latino abbia perso la propria identità? Nonostante il massiccio afflusso di grecismi dovuti alla superiorità culturale della Grecia in molti campi? No, non lo possiamo dire.
Perché la salvezza di una lingua non dipende da una conservazione e cristallizzazione delle proprie strutture, ma dalla forza culturale del popolo che la parla. Cioè la preservazione dell’identità linguistica rientra nel campo sociolinguistico e non nel campo delle alchimie di laboratori accademici.
Una lingua può cambiare tantissimo, acquisire lessico o strutture più profonde da una lingua anche abbastanza diversa (come lo erano latino e greco) ma può mantenere la propria identità se è il mezzo d’espressione di una cultura forte. Così ha fatto il latino così, forse in misura minore, l’inglese (è curioso, e forse dovrebbe farci riflettere, che i parlanti di entrambe queste lingue di successo avessero o hanno difficoltà a comprendere la lingua degli antenati).

Marco1971 ha scritto:E abbiamo già visto, detto e ridetto che gl’italiani sono incapaci di pronunciarla fermandosi in modo netto nella t finale. Ecco perché i vocaboli terminanti in consonante o nesso consonantico si sarebbero dovuti (si dovrebbero) adattare, con aggiustamenti minimi (sporte). E passino pure quelle tre o quattro parole comuni uscenti in nesso consonantico; mi pare tuttavia da incoraggiare la tendenza assimilatrice, che fa la reale potenza d’una lingua di cultura, la quale subordina al proprio sistema il materiale altrui.
Come abbiamo detto, l’assimilazione parziale degli anglicismi avviene sempre, e più che alla potenza della lingua è dovuta alla relativa ignoranza dei parlanti cioè alle stesse ragioni che provocano oggi l’afflusso dei forestierismi. È significativo che una maggiore fedeltà alla pronuncia (e alla grafia) originale sia sempre legata a un più alto livello culturale della società.

In conclusione un afflusso massiccio di forestierismi diventa “un male” solo se dipende dalla povertà di una cultura. Se potessimo parlare di male e di bene, la povertà culturale sarebbe il vero male.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

bubu7 ha scritto:Parlare di bene o male in relazione a questi cambiamenti mi sembra pericoloso oltreché antistorico e poco scientifico.
Legare questi cambiamenti (più o meno rivoluzionari) al male è ancora più pericoloso e potrebbe portare, questo sì, giù per una “rovinosa china”.
Antistorico non mi pare: la storia c’insegna che in molte epoche si son levate voci di lamento per le sorti della lingua. Ma piú m’interesserebbe che lei esplicitasse il pericolo o i pericoli ai quali allude.
bubu7 ha scritto:Il francese ha subito cambiamenti rivoluzionari mantenendo una propria identità (non nel senso di stabilità ma di caratterizzazione).
Il francese antico è lingua altra dal francese moderno, tant’è vero che oggi risulta del tutto incomprensibile ai parlanti nativi.
bubu7 ha scritto:La lingua inglese (il nemico supremo!) ha anch’essa subito cambiamenti rivoluzionari, rispetto al periodo preumanistico, accogliendo latinismi a valanga. Possiamo dire che ha perso la sua identità?
La fonotassi inglese, per quanto ne so, ammetteva e ammette le combinazioni di suoni presenti nelle parole latine.
bubu7 ha scritto:Chi ha studiato un po’ di storia della lingua latina, pensi agl’intensi scambi col greco che hanno caratterizzato tutta la sua vita, dal periodo arcaico al periodo preletterario, da quest’ultimo al periodo repubblicano fino ad arrivare al periodo classico con tutte le sfaccettate posizioni delle diverse correnti di pensiero sulla lingua. Possiamo dire che il latino abbia perso la propria identità? Nonostante il massiccio afflusso di grecismi dovuti alla superiorità culturale della Grecia in molti campi? No, non lo possiamo dire.
È una questione di misura. Vorrei chiederle, visto che è molto informato al riguardo, se in latino le parole greche venivano adoperate usualmente nella loro grafia originaria (coll’alfabeto greco) o se non venissero traslitterate e adattate. Io so soltanto che, tanto per fare un esempio, philosophia non solo s’è traslitterata, ma non è neanche in contrasto colla fonotassi latina.
bubu7 ha scritto:Perché la salvezza di una lingua non dipende da una conservazione e cristallizzazione delle proprie strutture, ma dalla forza culturale del popolo che la parla. Cioè la preservazione dell’identità linguistica rientra nel campo sociolinguistico e non nel campo delle alchimie di laboratori accademici.
E non le pare che le due cose siano in fondo legate? Come lei ha piú volte detto (e su questo concordo profondamente), se oggi siamo invasi è per debolezza culturale.
bubu7 ha scritto:Una lingua può cambiare tantissimo, acquisire lessico o strutture più profonde da una lingua anche abbastanza diversa (come lo erano latino e greco) ma può mantenere la propria identità se è il mezzo d’espressione di una cultura forte. Così ha fatto il latino così, forse in misura minore, l’inglese (è curioso, e forse dovrebbe farci riflettere, che i parlanti di entrambe queste lingue di successo avessero o hanno difficoltà a comprendere la lingua degli antenati).
Quando vien meno del tutto la comprensibilità e le forme non sono neanche minimamente riconoscibili, allora per me si deve parlare di lingua diversa.
bubu7 ha scritto:Come abbiamo detto, l’assimilazione parziale degli anglicismi avviene sempre, e più che alla potenza della lingua è dovuta alla relativa ignoranza dei parlanti cioè alle stesse ragioni che provocano oggi l’afflusso dei forestierismi. È significativo che una maggiore fedeltà alla pronuncia (e alla grafia) originale sia sempre legata a un più alto livello culturale della società.
Cosí dovrebbe essere, ma non sempre è... Io ho sentito professori universitari pronunciare certe parole inglesi (o anche francesi) in modo tale che non si capiva quale fosse la parola che intendessero proferire.
bubu7 ha scritto:In conclusione un afflusso massiccio di forestierismi diventa “un male” solo se dipende dalla povertà di una cultura. Se potessimo parlare di male e di bene, la povertà culturale sarebbe il vero male.
E perché non possiamo parlare di bene e di male? La lingua non è solo un inarcarsi piú o meno fluido di suoni articolati, è anche il patrimonio di tutt’un popolo e non si può ragionevolmente prescindere dai vincoli affettivi che legano gl’individui alla loro storia, personale e collettiva.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:Antistorico non mi pare: la storia c’insegna che in molte epoche si son levate voci di lamento per le sorti della lingua. Ma piú m’interesserebbe che lei esplicitasse il pericolo o i pericoli ai quali allude.


Non volevo dire che non si è mai parlato di bene o di male, riguardo alle sorti della lingua, ma che esse non sono categorie storiche.
Il pericolo, di cui abbiamo parlato varie volte, è di congelare la lingua, com’è accaduto in qualche periodo del nostro passato, per poi trovarsi, all’inevitabile scongelamento, a fare i conti con una realtà che si è allontanata per conto proprio. Con tutti gl’inevitabili traumi associati (che abbiamo vissuto nell’ultimo secolo e stiamo ancora vivendo).
Marco1971 ha scritto:Il francese antico è lingua altra dal francese moderno, tant’è vero che oggi risulta del tutto incomprensibile ai parlanti nativi.
Si potrebbe anche dire però: nonostante il francese antico sia incomprensibile ai parlanti moderni si può parlare sempre di una stessa lingua (come si fa per il latino arcaico rispetto al latino classico).
Marco1971 ha scritto:È una questione di misura. Vorrei chiederle, visto che è molto informato al riguardo, se in latino le parole greche venivano adoperate usualmente nella loro grafia originaria (coll’alfabeto greco) o se non venissero traslitterate e adattate. Io so soltanto che, tanto per fare un esempio, philosophia non solo s’è traslitterata, ma non è neanche in contrasto colla fonotassi latina.


Se è per questo, il latino nei confronti del greco è stato smisurato e difficilmente si troverà una lingua talmente infarcita di un’altra lingua.
La domanda sulla grafia originaria e la traslitterazione è, a mio parere, mal posta. Una cosa è l’alfabeto usato per esprimere i suoni di una lingua altra sono i suoni.
Anche noi traslitteriamo i termini di popoli che usano altri alfabeti, ma gl’inglesi usano il nostro stesso alfabeto (più o meno esteso).
Le parole greche in latino hanno subito gli adattamenti più vari da un minimo a un massimo: a seconda di varianti diastratiche, diatopiche e diacroniche.
Per rendere la marea di termini greci acquisiti in tutta la sua storia, il latino si è dovuto dotare di nuovi grafemi (ch, ph, th, x, y, z) e addirittura di nuove lettere: x, y, z.
Come vede, nel caso di philosophia, vi è stato qualcosa di meno di una completa traslitterazione perché il termine (non questo in particolare, ovviamente, ma questa tipologia) ha comportato l’introduzione di un nesso estraneo. Anche la fonotassi di conseguenza è cambiata.
Marco1971 ha scritto:Quando vien meno del tutto la comprensibilità e le forme non sono neanche minimamente riconoscibili, allora per me si deve parlare di lingua diversa.


In genere la situazione non è mai così drastica. Noi, ad esempio, avvertiamo una certa familiarità col latino. Dico sempre che noi siamo i latini del duemila.
Marco1971 ha scritto:E perché non possiamo parlare di bene e di male? La lingua non è solo un inarcarsi piú o meno fluido di suoni articolati, è anche il patrimonio di tutt’un popolo e non si può ragionevolmente prescindere dai vincoli affettivi che legano gl’individui alla loro storia, personale e collettiva.

Non si può e non si deve. Ma se uno è più aperto ai naturali cambiamenti della lingua e, soprattutto, se individua nella povertà culturale il vero nocciolo del problema (e di conseguenza il vero campo sul quale agire) non è che sia meno legato affettivamente alla propria storia, ecc.
Ultima modifica di bubu7 in data mar, 30 gen 2007 15:02, modificato 1 volta in totale.
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[FT o quasi] Xenofonemi del latino [classico]

Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:Le parole greche in latino hanno subito gli adattamenti più vari da un minimo a un massimo: a seconda di varianti diastratiche, diatopiche e diacroniche.
Giusto, e sottolineo diastratiche.
bubu7 ha scritto:Per rendere la marea di termini greci acquisiti in tutta la sua storia, il latino si è dovuto dotare precocemente di nuovi grafemi (ch, ph, th, x, y, z) e addirittura di nuove lettere: x, y, z.
Come vede, nel caso di philosophia, vi è stato qualcosa di meno di una completa traslitterazione perché il termine (non questo in particolare, ovviamente, ma questa tipologia) ha comportato l’introduzione di un nesso estraneo. Anche la fonotassi di conseguenza è cambiata.
Esageruma nen! :D

Diciamo che i grafemi e digrammi da Lei citati rappresentavano per il latino [classico] (Amicus eius potrà, se vorrà, piú competentemente chiosare) dei fonostilemi analoghi agli xenofonemi /y ø R … / oggi usati in italiano dai parlanti cólti in una pronuncia particolarmente accurata di locuzioni straniere (o di forestierismi non adattati, ma generalmente [non ancora] ben acclimati), e /y/ era comunemente reso con , /ph/ con [f], /kh/ con [k], etc., e forse alcuni di voi ricorderanno quel carme di Catullo in cui il poeta prende in giro quel tizio che «aspira» anche l’«inaspirabile»…

Tornando a philosophia (e a tutte le parole di questo tipo), essa subisce un profondo cambiamento nel passaggio dal greco al latino, per il quale la quantità [breve] della iota/i è piú importante del tono/accento e che quindi la subordina al suo «sistema moraico», spostando di fatto l’accento dalla [seconda] i alla [seconda] o.
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto:
bubu7 ha scritto:Le parole greche in latino hanno subito gli adattamenti più vari da un minimo a un massimo: a seconda di varianti diastratiche, diatopiche e diacroniche.
Giusto, e sottolineo diastratiche.
Più che sottolineare diastratiche è importante aggiungere diafasiche.
La variabilità negli adattamenti (e nell'uso di grecismi) era anche una caratteristica della situazione comunicativa: si guardi il Cicerone ufficiale e quello delle lettere private.
Infarinato ha scritto: ...forse alcuni di voi ricorderanno quel carme di Catullo in cui il poeta prende in giro quel tizio che «aspira» anche l’«inaspirabile»…
Questo che lei dice però non rende bene, secondo me, il clima di quel periodo. Gli aspiratori non appartenevano solo a strati bassi.
Più in generale, l'atteggiamento dei letterati di fronte ai grecismi variava, anche in uno stesso periodo, da quello di un Terenzio a quello di un Plauto. Senza che quest'ultimo, più aperto all'accoglienza dei grecismi (più o meno assimilati), fosse meno apprezzato del primo.
Bisogna aggiungere poi che, contrariamente a quanto avviene oggi per l'inglese, i contatti col mondo greco sono avvenuti in diversi periodi storici e a diversi livelli (commerciale, filosofico, ecc.).
Infarinato ha scritto:Tornando a philosophia (e a tutte le parole di questo tipo), essa subisce un profondo cambiamento nel passaggio dal greco al latino, per il quale la quantità [breve] della iota/i è piú importante del tono/accento e che quindi la subordina al suo «sistema moraico», spostando di fatto l’accento dalla [seconda] i alla [seconda] o.
Non sto dicendo che i termini greci non abbiano subito cambiamenti (più o meno profondi) ma che la lingua latina ha subito cambiamenti altrettanto profondi per il contatto col mondo greco.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Intervento di Marco1971 »

bubu7 ha scritto:Il pericolo, di cui abbiamo parlato varie volte, è di congelare la lingua, com’è accaduto in qualche periodo del nostro passato, per poi trovarsi, all’inevitabile scongelamento, a fare i conti con una realtà che si è allontanata per conto proprio. Con tutti gl’inevitabili traumi associati (che abbiamo vissuto nell’ultimo secolo e stiamo ancora vivendo).
Tralascio tutte le questioni tecniche del suo intervento – alla luce dell’esperienza, che m’insegna a desistere da certe discussioni prima che troppo s’imbizantiniscano – e mi concentro, brevissimamente, su quest’unico punto.

Anzitutto c’è da dire che mantenere le strutture fondamentali della lingua non equivale affatto a un «congelamento» (che significherebbe impedire alla lingua di crescere e d’arricchirsi per imbalsamarla), bensí alla conferma della vera sua vitalità, quella d’un organismo sano capace di rinnovarsi e d’ampliarsi senza rinunciare alle sue fattezze primiere. Non v’è infatti arricchimento là dov’essa a sé medesima rinunzia per mutar di pelle: è tollerabile una non completa omogeneità, con poche eccezioni sparse; meno soffribile appare il pullulare crescente di alienanti bacilli.

La lingua cammina sempre, ma talvolta si perde nel buio della selva e si rivela necessario darle una mano perché ritrovi la diritta via. E qualche microintervento non duole.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
fiorentino90
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Intervento di fiorentino90 »

Marco1971 ha scritto:
amicus_eius ha scritto:Riguardo a boomerang, ricordo che in spagnolo si dice bumerán, e non credo che sia un oggetto ivi piú diffuso...
In italiano si potrebbe scrivere búmeran. Del resto, boomerang si può anche pronunciare senza g finale.
DiPI ha scritto:boomerang
ˈbumeran(ɡ)
La forma italiana bumerang esiste e è riportata sia dal DOP sia dalla Treccani. Dovreste aggiungerla alla lista!!!

boomerang: búmerang /ˈbumeran(ɡ)/, búmeran, bumerango.
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Carnby
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Intervento di Carnby »

fiorentino90 ha scritto:Del resto, boomerang si può anche pronunciare senza g finale.
Direi che in inglese si debba pronunciare «senza»: le pronunce più diffuse di ng finale sono [-ŋ], [-n] (più popolare), [-ŋɡ] (dialettale e meno frequente).
fiorentino90
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Intervento di fiorentino90 »

Carnby ha scritto:
fiorentino90 ha scritto:Del resto, boomerang si può anche pronunciare senza g finale.
Direi che in inglese si debba pronunciare «senza»: le pronunce più diffuse di ng finale sono [-ŋ], [-n] (più popolare), [-ŋɡ] (dialettale e meno frequente).
Sí, mi riferivo alla pronuncia italiana di boomerang, parking e simili.
fiorentino90 ha scritto:boomerang: búmerang /ˈbumeran(ɡ)/, búmeran, bumerango.
No, mi correggo. Se si scrive boomerang, si può pronunciare senza o con /g/. Tuttavia, se s'usa la forma adattata bumerang (che esiste già), si può pronunciare solo /ˈbumeranɡ/ (cosí com'è scritto) perché non è piú inglese, ma italiano (anche se non al 100%).

boomerang: búmerang, búmeran, bumerango.
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Scilens
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Iscritto in data: dom, 28 ott 2012 15:31

Intervento di Scilens »

un toscano direbbe senz'altro bumeranghe (per sentito dire)
e leggendolo sarebbe portato ad un bumerang, dove questa g sarebbe dolce come nel gelato
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