Un'«invasione barbarica»
Inviato: sab, 10 feb 2007 12:07
Con una certa ciclicità mi ritrovo ad affrontare la solita [per noi] questione dei barbarismi linguistici (tra l’altro, ho appena finito di leggere il bell’articoletto di Alfonso Leone L’italiano imbastardito), e, puntualmente, dopo essermi confrontato, al di fuori della mia turris eburnae, con alcuni ‘parlanti’ sul solito [per gli altri] uso improprio della lingua d’Albione, eccomi a compilare questa noterella, immagino di scarso interesse, ma che – confesso – in me avrebbe una funzione, per dir così, apotropaica (oltre all’idiosincrasia condivisa, immagino, da tutti noi sull’uso degli anglismi, è in me una 'resistenza' nei confronti dell’inglese senz’altro).
Insomma, muoverei [quasi retoricamente] da un’accesa discussione, intrapresa con una persona a me cara e che, con esuberanza, mi parlava ormai da un buon quarto d’ora, intessendo il proprio discorso con assidue ‘macule lessicali’, dei brutali anglismi che irrimediabilmente distoglievano la mia attenzione dai contenuti extralinguistici, infine rendendomi penoso l’ascolto di quella conversazione che mi suonava come un tradimento, un affronto personale (tu quoque!).
Così, quando ho preso la parola per esprimere la mia opinione, mi sono sentito moralmente costretto a chiedere, prima di tutto, il senso di quell’eloquio, in cui mi pareva di cogliere una qualche provocazione. Lo sguardo fattosi incredulo della persona a me cara, allora, pareva voler dire: «ma è possibile che tu non pensi ad altro?!» E in quel sottaciuto «non altro» vedevo il severo rimprovero per un’«inutile» e forse sciocco «accanimento» – vedevo cioè quello stesso atteggiamento di sufficienza che, a ben guardare, costituisce il grosso dell’irresponsabilità collettiva (culturale e no) cui dobbiamo l’impoverimento che oggi minaccia la nostra lingua.
Per farla breve: dopo aver mostrato con dovizia di concetti e di parole l’utilità di una migliore conoscenza della ‘propria’ lingua (un’utilità indiscutibile, che si fonda sulla capacità di poter esprimere spontaneamente e senza intoppi i propri pensieri, sentimenti e sensazioni, accedendo alla dimensione creativa del linguaggio, attivando quei significati «occasionali» che, pur allontanandosi dall’uso registrato e lemmatizzato, assumono la loro legittimità proprio in funzione di un impiego, diciamo così, ‘autorevole’ del linguaggio etc.), ed essermi quindi garantita l’attenzione del mio interlocutore, ho domandato alla ‘cara persona’ di proporre alcuni traducenti, anche non acclimati, per risciacquare il proprio discorso. Ebbene, ecco l’esito: la ‘cara persona’ dimostrava a me e a sé stessa di padroneggiare con disinvoltura i significati veicolati dai forestierismi, restando sempre in dubbio sulla liceità delle parole italiane. E cioè: quando si trattava di precisare l’ambito semantico e l’appropriatezza dei termini inglesi, riscontravo una lusinghevole sicurezza, direi imperturbata; quando, diversamente, erano in questione i termini italiani, i dubbi si ammonticchiavano fino ad apparire insostenibili. Il risultato: il locutore (la persona a me cara), diffidava dell’italiano, lo guardava con sospetto e timore, gli fuggiva per trovare riparo nell’inglese.
Quindi, questo sarebbe il rischio. Così come le popolazioni germaniche si sono vie più inserite nel tessuto sociale di un Impero romano ormai prossimo al tracollo, fino a favorire quel rimescolamento culturale ed etnico che ha portato al nostro Medioevo (ma con esiti linguistici davvero pregevoli; ovviamente la presunzione è d’obbligo, come la diffidenza per il nostro futuro linguistico «imbastardito»), gli anglismi oggi spersonalizzano, prima ancora che la lingua, la libertà creativa dei parlanti. Ci si affida sempre più a una lingua sconosciuta per esprimere sentimenti, idee e concetti conosciuti, con il risultato di attribuire un significato anche occasionale non a una parola di cui si può ancora intuire la struttura semantica, ma a un suono incomprensibile e alieno (parola, quest’ultima, a me cara, al riguardo, almeno come la persona qui citata), entro una comunicazione incerta e schematica, aridamente ripetitiva.
Sarebbe in discussione, allora, non l’uso degli anglismi, quanto la perdita di un’italiana affabilità linguistica – una perdita, naturalmente, da scongiurare, per un uso della lingua senza i segni metalinguistici «ma», «non saprei», «non è proprio così», e di un detto come «sì, insomma, sto parlando della ‘performans’».
Insomma, muoverei [quasi retoricamente] da un’accesa discussione, intrapresa con una persona a me cara e che, con esuberanza, mi parlava ormai da un buon quarto d’ora, intessendo il proprio discorso con assidue ‘macule lessicali’, dei brutali anglismi che irrimediabilmente distoglievano la mia attenzione dai contenuti extralinguistici, infine rendendomi penoso l’ascolto di quella conversazione che mi suonava come un tradimento, un affronto personale (tu quoque!).
Così, quando ho preso la parola per esprimere la mia opinione, mi sono sentito moralmente costretto a chiedere, prima di tutto, il senso di quell’eloquio, in cui mi pareva di cogliere una qualche provocazione. Lo sguardo fattosi incredulo della persona a me cara, allora, pareva voler dire: «ma è possibile che tu non pensi ad altro?!» E in quel sottaciuto «non altro» vedevo il severo rimprovero per un’«inutile» e forse sciocco «accanimento» – vedevo cioè quello stesso atteggiamento di sufficienza che, a ben guardare, costituisce il grosso dell’irresponsabilità collettiva (culturale e no) cui dobbiamo l’impoverimento che oggi minaccia la nostra lingua.
Per farla breve: dopo aver mostrato con dovizia di concetti e di parole l’utilità di una migliore conoscenza della ‘propria’ lingua (un’utilità indiscutibile, che si fonda sulla capacità di poter esprimere spontaneamente e senza intoppi i propri pensieri, sentimenti e sensazioni, accedendo alla dimensione creativa del linguaggio, attivando quei significati «occasionali» che, pur allontanandosi dall’uso registrato e lemmatizzato, assumono la loro legittimità proprio in funzione di un impiego, diciamo così, ‘autorevole’ del linguaggio etc.), ed essermi quindi garantita l’attenzione del mio interlocutore, ho domandato alla ‘cara persona’ di proporre alcuni traducenti, anche non acclimati, per risciacquare il proprio discorso. Ebbene, ecco l’esito: la ‘cara persona’ dimostrava a me e a sé stessa di padroneggiare con disinvoltura i significati veicolati dai forestierismi, restando sempre in dubbio sulla liceità delle parole italiane. E cioè: quando si trattava di precisare l’ambito semantico e l’appropriatezza dei termini inglesi, riscontravo una lusinghevole sicurezza, direi imperturbata; quando, diversamente, erano in questione i termini italiani, i dubbi si ammonticchiavano fino ad apparire insostenibili. Il risultato: il locutore (la persona a me cara), diffidava dell’italiano, lo guardava con sospetto e timore, gli fuggiva per trovare riparo nell’inglese.
Quindi, questo sarebbe il rischio. Così come le popolazioni germaniche si sono vie più inserite nel tessuto sociale di un Impero romano ormai prossimo al tracollo, fino a favorire quel rimescolamento culturale ed etnico che ha portato al nostro Medioevo (ma con esiti linguistici davvero pregevoli; ovviamente la presunzione è d’obbligo, come la diffidenza per il nostro futuro linguistico «imbastardito»), gli anglismi oggi spersonalizzano, prima ancora che la lingua, la libertà creativa dei parlanti. Ci si affida sempre più a una lingua sconosciuta per esprimere sentimenti, idee e concetti conosciuti, con il risultato di attribuire un significato anche occasionale non a una parola di cui si può ancora intuire la struttura semantica, ma a un suono incomprensibile e alieno (parola, quest’ultima, a me cara, al riguardo, almeno come la persona qui citata), entro una comunicazione incerta e schematica, aridamente ripetitiva.
Sarebbe in discussione, allora, non l’uso degli anglismi, quanto la perdita di un’italiana affabilità linguistica – una perdita, naturalmente, da scongiurare, per un uso della lingua senza i segni metalinguistici «ma», «non saprei», «non è proprio così», e di un detto come «sì, insomma, sto parlando della ‘performans’».