Re: «Perché è utile tradurre gli anglismi»
Inviato: mar, 29 giu 2021 11:04
di G.B.
Riporto, per gl'interessati, una parte del dibattito che si è scatenato nei commenti dopo la pubblicazione dell'articolo:
Non c'è dubbio che "una parafrasi con traduzione dei forestierismi", come indica Marazzini, "comunica meglio il contenuto del messaggio". Ma una "parafrasi" è già una traduzione "intralinguistica", che ha funzione "metalinguistica" rispetto all'originale solitamente più breve, che ha invece funzione puramente "linguistica", nel caso particolare "retorico-linguistica" come brillantemente dimostrato dallo stesso Marazzini. E quindi la "parafrasi" compiuta dal lettore a proprio beneficio non potrebbe sostituire retoricamente l'"originale" del mittente. Ma il problema centrale dell'intervento è, ci sembra, l'opportunità di tradurre i singoli angli(ci)smi nel testo originale. Quindi: " Stiamo evolvendo verso un modello cashless [= senza soldi contanti] e sempre più mobile-first [= prima di tutto il telefono cellulare]. Questo per rispondere all[e] preferenze dei nostri clienti, il 96% dei quali opera solo tramite canali digitali, 7 su 10 prediligendo lo smartphone [= il telefono cellulare] , ha spiegato ** **, country manager [= Direttore nazionale per l'Italia] di ***. Epperò la eliminazione degli anglicismi — cashless, mobile-first [nome + avverbio], smartphone, country manager —, "pressoché obbligati nel contesto tecnico-economico", come pur riconosce lo stesso Marazzini , non ha l'effetto di togliere tutta l'aura magica dell'anglo-americano, e di banalizzare il messaggio del manager? (Salvatore Claudio Sgroi, 19/05/2021)
Nel dibattito sulle alternative agli anglicismi forse dovremmo evitare di discutere di traduzioni e traducenti: così si pone l'italiano in posizione subalterna perché lo si fa dipendere dall’inglese. Credo sarebbe preferibile fare invece riferimento a soluzioni italiane EQUIVALENTI agli anglicismi, ma va spostata l’attenzione dalle singole parole inglesi ai concetti che rappresentano all’interno dei loro contesti d’uso (linguistico, situazionale, cognitivo e culturale). Per trovare soluzioni italiane adeguate si deve infatti capire innanzitutto se uso inglese e italiano coincidono, quali sono le caratteristiche distintive di ciascun concetto e se il concetto è nuovo oppure già noto. Mi pare invece che nella ricerca del “traducente” a volte questi passaggi vengano saltati e si faccia forse troppo affidamento sulle corrispondenze tra parole offerte dai dizionari bilingui, non sempre esaustivi. Ne è un esempio “mobile-first”: nel testo citato “mobile” non è l’abbreviazione di “mobile phone”, come suggeriscono i dizionari, ma va inteso come l’uso di dispositivi mobili, quindi smartphone, tablet, laptop e ogni altro dispositivo che consente una connessione a Internet (il 96% dei clienti della banca effettua solo operazioni digitali, per le quali 7 clienti su 10 usano lo smartphone, che non è il cellulare: la banca non ne costringe l’uso e non impone la rinuncia ai contanti). Anche per la corretta interpretazione di “country manager” non è sufficiente tradurre letteralmente le singole parole country e manager ma va considerato il contesto d’uso: a seconda del tipo di organizzazione aziendale, il ruolo ricoperto dal country manager della filiale italiana di una multinazionale può equivalere a quello di amministratore delegato oppure di direttore generale, ma potrebbe anche essere il responsabile per il mercato italiano. Escluderei in ogni caso la potenziale interferenza di “country music”: dovrebbe essere sufficiente una minima infarinatura scolastica di inglese per conoscere il significato di country, parola del lessico fondamentale e ricorrente anche in contesti turistici e in canzoni e altri prodotti culturali del mondo anglofono che hanno creato familiarità con parole e locuzioni inglesi indipendentemente dalla presenza di anglicismi in italiano. (Licia Corbolante, 19/05/2021)
L'idea che tradurre equivalga a porre l'italiano in posizione subalterna è, diciamo così, bizzarra, per usare un eufemismo. Sostenere che si dovrebbe ricorrere a soluzioni italiane “equivalenti” è una delle tante possibili soluzioni, non certo la sola, che dipende dal traduttore, dal suo intento, dalle sue capacità, dal contesto in cui opera e anche dalla sua volontà di dare la priorità alla lingua di provenienza o di arrivo. Oltretutto questa prassi dell'equivalenza spacciata come “la” pratica da seguire non consente di intervenire nei casi (sempre più numerosi) in cui una soluzione non sia già esistente. Che si fa in questi casi? Si ricorre all'inglese, naturalmente, magari invocando sciocchezze come “i termini non si traducono” che si dovrebbe riformulare con “io non voglio tradurre i termini inglesi in italiano”, visto che i termini si traducono – si adattano o si reinventano – nel francese, nello spagnolo e anche nell'inglese. Oggi come in passato. A far dipendere l'italiano dall'inglese non sono le traduzioni, che peraltro sono sempre più rare, bensì l'importare in modo crudo, con servilismo e con argomentazioni che ricordano la parodia di De Amicis del Visconte La Nuance. Per la cronaca, “country manager” è assente nello spagnolo, dove più in generale manager è stato adattato in mánager (pronunciado /mánajer/) o mánayer, mentre per France Terme l'equivalente è chargeé de pays. Quanto a mobile, in spagnolo móvil, i francesi lo pronunciano come è nella loro natura, non si sforzano di certo di pronunciarlo all'inglese. A considerare l'italiano subalterno all'inglese non sono coloro che vorrebbero tradurre, sono coloro che confondono la traduzione con la “traduzione letterale” o che vorrebbero applicare discutibili e limitate prassi terminologiche alla lingua italiana, che è una cosa un po' più ampia, e che con la scusa dei prestiti “insostituibili” o necessari (solo in Italia) finiscono per farla regredire. (Antonio Zoppetti, in risposta a Licia Corbolante, 19/05/2021)
Il sistema non consente di rispondere direttamente al commento qui sotto. Non mi pare il caso di fare inutili polemiche, vorrei però sottolineare che chiunque può cercare la frase “i termini non si traducono” e verificare che ha un significato ben diverso da quello che le attribuisce Zoppetti. Trovare un equivalente di country manager significa verificare l’accezione che ha nel contesto di lingua inglese e quindi optare per il nome del ruolo corrispondente in un organigramma aziendale italiano, ad es. amministratore delegato. Trovare un equivalente significa evitare traduzioni letterali come dirigente/direttore nazionale che non trovano riscontro in ambito aziendale. (Licia Corbolante, in risposta ad Antonio Zoppetti, 19/05/2021)
Nel dibattito suscitato dal "Tema del mese" di C. Marazzini "Perché è utile tradurre gli anglismi" vorrei ora collocarmi (scherzando un pò [sic!]) "dall'alto", ovvero da linguista generale. (La) CORBOLANTE non ritiene di "fare inutili polemiche" col mio precedente intervento. Ricordo invece che io la mia "polemica" con la blogger (non so se a lei nota) l'avevo fatta nel blog di Fausto Raso "93. L'ideologia linguistica del "blog.Terminologia etc. it. di Licia Corbolante", mercoledì, 30 dicembre 2020 (e sabato 2 gennaio 2021). Sull'ideologia linguistica di A. ZOPPETTI non mi sono invece ancora espresso. Ma il suo neo-purismo appare chiaramente in questi suoi interventi, quando si mostra contrario agli anglicismi "crudi", ovvero stranierismi a partire dal significante grafico-fonico, sciorinati in una istruttiva sfilza di voci (ess. leasing, copyright, franchsing, follower, snippet, widget, download; checkpoint, baby setting (e famiglia), fast food ('con prole'), senza dimenticare gli "pseudo-anglicismi" (ess. footing, smartworking), i "trapianti" e gli "ibridismi" (ess. computerizzare, surfer, shopper, runner, Covid hospital, no comment, ecc.). Sull'ideologia di C. MARAZZINI, giusto per non dimenticare nessuno, mi ero invece espresso in una sede più accademica: nei "Quaderni di semantica" 2020, pp. 127-49, con " 'Elogio dell'italiano' ovvero il trionfo della Crusca marazziniana". L'obiettivo comune ai tre Autori, che qui emerge, è quello di sostituire agli anglicismi "crudi" (ripeto stranierismi a partire dalla veste "grafo-fonica") voci italiane, prima che essi abbiano il tempo di attecchire in italiano (la politica del gruppo "Incipit"), perché altrimenti l'italiano si snaturerebbe. La sostituzione degli anglicismi viene in questi interventi indicata come ricerca degli "equivalenti" dalla Corbolante, che contesta il termine "traducenti", difeso invece da Zoppetti che non esclude gli "equivalenti", e da Marazzini stando al titolo del suo "tema". E giungiamo al clou della polemica emersa nel dibattito. La CORBOLANTE contesta la correttezza dei traducenti di Marazzini (ripresi da me nel mio intervento). "Country manager" non indica, puntualizza la Corbolante, "il dirigente/direttore nazionale per l'Italia", ma è un termine polisemico, che secondo i contesti può valere: (i) "amministratore delegato"; (ii) "direttore generale", (iii) "responsabile per il mercato italiano". Il sintagma "Mobile phone" a sua volta non indica restrittivamente stando anche ai dizionari "il telefono cellulare", ma estensivamente si riferisce ai "dispositivi mobili, quindi smartphone, tablet, laptop" ecc.. Lo "smartphone", continua la Corbolante, non è neppure un banale "telefono cellulare". Non contesta invece "cashless" reso con "senza soldi contanti". MARAZZINI per dar conto della presenza di "country manager" aveva ricordato che "il parlante italiano è tradizionalmente abituato [a] connotare il termine 'country' nel senso della 'musica country'", che non è, come invece puntualizza la Corbolante, "una puntuale interferenza", ma per chi possieda "una minima infarinatura" universitaria di linguistica generale, è un esempio, saussurianamente, di "rapporto associativo" (o hjelmslevianamente "rapporto paradigmatico"). A questo punto, la lezione della brava traduttrice dall'inglese sta a dimostrare "il tallone d'Achille" del neo-purismo anche in questo caso. Il sintagma inglese "country manager" è, come puntigliosamente chiarito dalla Corbolante, polisemico, e l'italiano non ha un equivalente termine polisemico. La scelta di uno dei tre traducenti/equivalenti in italiano è inevitabilmente depauperante. Ci si ritrova quindi con un es. di "prestito di necessità", che colma un vuoto lessicale dell'italiano, arricchendolo. Non diversamente con l'ingl. "mobile", ricalcabile con "dispositivi mobili", "telefonia mobile". Anche lo "smartphone" può rimanere tale in quanto particolare "telefono cellulare". Per "cashless" resta il calco "senza soldi contanti". Alla fine, quindi i traducenti italiani finiscono col depotenziare semanticamente il messaggio originale, oltre a deprivarlo, come dicevamo, del 'profumo' esotico dell'anglo-americano, lingua veicolare e internazionale. (Salvatore Claudio Sgroi, 20/05/2021)
La ringrazio del confronto. Considero gli anglicismi “corpi estranei” per abbracciare il neopurismo di Castellani, ma il punto a mio avviso non è quello di fare il purista per motivi di principio, ma per una questione di ecologia linguistica (sarò neopurista quantitativo?). Non eviterei gli anglicismi se fossero contenuti nel numero e nella frequenza e potrei benissimo considerarli doni, per riprendere lei e Alinei. Credo che il nodo stia nel domandarsi quanti anglicismi crudi sia in grado di assorbire l'italiano senza snaturarsi e diventare altro. La mia – opinabile – risposta è che siamo ormai ben più che saturi, e che abbiamo perso la capacità di esprimere con parole nostre il mondo del lavoro, l'informatica, altri pezzi importanti della lingua e più in generale tutto ciò che è nuovo. I centri di irradiazione della lingua che secondo Pasolini l'avevano tecnologizzata ora l'anglicizzano, coadiuvati dall'espansione delle multinazionali. Questa creolizzazione lessicale è avvenuta con una velocità senza precedenti direi, è lo tsunami anglicus coniato da chi un tempo negava il problema. Al di là dei singoli esempi, a me sembra che certi “doni” più che un arricchimento portino a un depauperamento dell'italiano, e che molte delle nostre parole davanti al profumo esotico dei “prestiti sterminatori” finiscano per puzzare e diventare inutilizzabili. Forse per questo mi considero “neopurista seriale” e respingo tutti gli anglicismi in blocco, ma sono convinto che più che fare la guerra alle singole parole sia necessario agire (per motivi di Resistenza più che di purismo) su ciò che le rende profumate per molti (c'è anche una minoranza che le trova cafone, ridicole, incomprensibili...) e intervenire sull'uso come è stato fatto per esempio nel caso della femminilizzazione delle cariche o sul linguaggio non politicamente corretto, il che esce dalla linguistica (del resto non sono un linguista). Cosa ha fatto sì che il calcolatore oggi evoca il vecchio, e il computer i dispositivi moderni? (una distinzione tra un prima e un poi assente nell'inglese, oltre che nel francese e nello spagnolo dove la parola inglese non è penetrata). Anche il capotreno cederà il passo al train manager nell'era dell'alta velocità futura? La risposta, più che nei traducenti, sta nella nostra testa, nella nostra nevrosi compulsiva di ricorrere all'inglese (neopurismo freudiano) e nel decolonizzare la mente per citare il non-linguista africano Thiong'o (neopurismo anti-colonialista). Ci sarebbe anche la questione dell'inglese come lingua veicolare e del disegno di portare tutti i Paesi sulla via del bilinguismo a base inglese dove le lingue locali sono viste come un ostacolo alla comunicazione sovranazionale ovviamente nella a lingua madre dei popoli egemoni e del nuovo colonialismo linguistico basato sul globalese (neopurismo antiglobalista? Latouchiano?). Comunque sia, Jurgen Trabant indica tutto ciò come foriero di una nuova diglossia neomedievale che esclude le fasce sociali più deboli. Ma questa è un'altra storia che porterebbe all'Internazionale dei neopuristi comunisti; però non so se questa visione dell'inglese internazionale sia separabile dai motivi che portano all'itanglese sul piano interno. (Antonio Zoppetti, in risposta a Salvatore Claudio Sgroi, 20/05/2021)
Spero di non risultare troppo invadente, ma vorrei replicare. Che la lingua internazionale debba essere l'inglese è un'opinione politica (e un progetto politico in atto da decenni) su cui è lecito dissentire, e non è affatto una realtà, da chiudere con un PUNTO. Le ricordo anche che l'inglese NON è la lingua dell'Europa, come si vuol far credere (a maggior ragione dopo l'uscita del Regno Unito), che sulla carta nasce all'insegna del plurilinguismo; il fronte dello scontro in proposito, attualmente, è attraverso innumerevoli ricorsi legali fatti dalle associazioni francesi, belghe o tedesche che hanno visto la Corte Costituzionale europea intervenire contro la discriminazione delle altre lingue. L'ultima di queste battaglie sta avvenendo sulla questione della carta d'identità bilingue a base inglese (ma trilingue in Germania e Austria) e sul nuovo passaporto vaccinale che noi chiamiamo "green pass". Passando dall'inglese come presunta lingua dell'Europa ai dati sulla popolazione europea, le lascio qualche statistica: è la “seconda lingua” più studiata in Europa (anche grazie ai programmi scolastici che fanno in modo che sia così), ma non significa che tutti la padroneggino: solo il 15% dichiara di saperlo fare, mentre il 38% dichiara di conoscerla abbastanza per sostenere una conversazione, ma solo il 25% è in grado di comprendere le notizie di giornali e tv. Il tedesco, il francese, l’italiano e lo spagnolo rappresentano insieme circa il 60% delle lingue native della popolazione dell’UE. Se si aggiunge il polacco, questa cifra sale a circa il 70%. I madrelingua inglesi sono l'1,5%, e godono di un enorme vantaggio comunicativo (la lingua è potere) e soprattutto economico: il giro di affari per l'apprendimento dell'inglese, tra corsi e soggiorni studio è incalcolabile, e i Paesi anglofoni non hanno questi costi (visto che sono gli altri a dover imparare la loro lingua madre). Dunque credo che si possa e debba discutere di queste cose anche in Italia, come si fa altrove. Passando da questo scenario alla penetrazione dell'inglese nella nostra lingua, che invece è dominio della Crusca e dei linguisti, faccio presente che il numero degli anglicismi nell'italiano non è assolutamente paragonabile a quello del francese o dello spagnolo e del portoghese, dove anche la frequenza e la penetrazione nel lessico comune è più bassa. Spacciare gli anglicismi per internazionalismi (e addirittura teorizzare che si debba pensare con concetti-parole inglesi come "country manager”) il più delle volte non corrisponde al vero, e personalmente lo trovo aberrante. Questa via porta alla perdita del proprio lessico da parte delle lingue locali, dunque all'incapacità di esprimersi in modo autonomo negli ambiti strategici della modernità (scienza, tecnica, lavoro, informatica...) dunque a rendere le lingue d'Europa dei dialetti. Mi pare doveroso opporre una resistenza a tutto ciò, anche e più che mai con la traduzione perorata da Marazzini. Quanto agli italianismi nell'inglese (che appartengono sostanzialmente al passato), parliamone! Sono stati in gran parte adattati (come i francesismi, i latinismi e tanti altri forestierismi), dunque sono dei "doni" che hanno arricchito quella lingua, non sono certo stati importati in modo crudo e pronunciati all'italiana (da noi gli anglicismi sono "crudi" in oltre il 70% dei casi stando al Gradit del 2006, e anche se non ho statistiche nuove credo che da allora la percentuale sia salita, e di molto). (Antonio Zoppetti, in risposta a un altro utente, 24/05/2021)
Il dibattito suscitato dal tema di Marazzini diventa sempre più interessante in quanto i problemi sollevati dalla supremazia politico-scientifico-economico-culturale dell'anglo-americano si sono notevolmente ampliati coinvolgendo non solo l'aspetto strettamente linguistico ma quello più ampio della "politica linguistica". Dal mio punto di vista, vorrei solo precisare che, per quanto riguarda "la fedeltà linguistica" alla propria lingua, è opportuno distinguere da un lato la "macro-fedeltà" per quel che concerne l'uso dell'italiano in Italia nei contesti istituzionali (senza cedimenti, questa volta sì, all'uso dell'inglese, spesso in maniera esclusiva) per es. nei corsi di laurea specialistica o nei dottorati che escludono la lingua nazionale in nome di una pretesa internazionalizzazione della ricerca, o nella domanda nelle università italiane per i "Progetti di Rilevante Interesse nazionale" (PRIN) del Ministero dell'Università e della Ricerca (MIUR), su cui l'Accademia della Crusca e il suo Presidente hanno assunto una netta posizione critica. Al di fuori dell'Italia, invece, l'uso dell'anglo-americano, piaccia o meno, come "lingua internazionale" è un dato di fatto, contro il quale si possono adottare varie misure di politica linguistica, non tanto per escludere l'inglese ma per non emarginare le altre lingue. Dall'altro, la "fedeltà linguistica" -- ovvero "micro-fedeltà" linguistica -- contro l'uso degli anglicismi, variamente adattatati (grafo-fonologicamente) e spesso anche contro i calchi semantici e strutturali, sostenuta dai neo-puristi, mi lascia invero alquanto perplesso, perché dal "contatto (inter)linguistico" non può che derivare un arricchimento "laico" per la lingua ricevente grazie ai "doni" della lingua donante (qui l'anglo-americano). Il che non vuol dire l'obbligo dell'uso degli anglicismi, ma un ricorso "laicamente" giustificato sia dal contenuto dei messaggi, sia soprattutto dal livello culturale dei destinatari. (Salvatore Claudio Sgroi, 25/05/2021)